Un"estate torrida anche per la giustizia
L'estate che si sta chiudendo è stata torrida anche per la giustizia. Innumerevoli gli esempi: l'approvazione della legge 20 giugno 2003, n.140, esplicitamente finalizzata a interdire la prosecuzione di un processo a carico del presidente del Consiglio; l'ispezione disposta dal Ministro della giustizia presso la Procura della Repubblica di Milano, su sollecitazione dell'on. Previti, allo scopo, evidente e dichiarato, di prendere visione del fascicolo relativo al prosieguo delle indagini per la individuazione di eventuali concorrenti negli episodi di corruzione ascritti all'onorevole imputato; il fermo imposto dallo stesso guardasigilli ad alcune rogatorie inoltrate dalla Procura milanese per fatti coinvolgenti, in ipotesi accusatoria, anche il presidente del Consiglio; le accuse di uso politico della giustizia, sguaiate quanto immotivate, rivolte ai giudici milanesi all'indomani del deposito della sentenza di condanna dell'avv. Previti e dei giudici Squillante e Metta per corruzione in atti giudiziari; la proposta del portavoce di Forza Italia di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta "per accertare se ha operato e opera tuttora nel nostro paese un'associazione a delinquere con fini eversivi, costituita da una parte della magistratura, con lo scopo di sovvertire le democratiche istituzioni repubblicane".
Di ciascuna di tali iniziative molto si è detto, ed è superfluo, qui, sottolineare la progressiva degradazione della legge da regola di convivenza, generale e astratta, a concreta risposta a personali esigenze di tutela; o contestare le ragioni surreali addotte dall'ineffabile guardasigilli a sostegno dell'iniziativa di bloccare rogatorie già inoltrate e della necessità di chiedere al Parlamento un intervento interpretativo (sic!) della già ricordata legge n. 140/2003 (pur univocamente non applicabile alle indagini preliminari); o, ancora, segnalare la conclamata incostituzionalità di una commissione parlamentare istituita per indagare sulla magistratura, sostituendosi al Csm e agli stessi magistrati (o, peggio, per motivare il dispositivo, già scritto dal presidente del Consiglio, sul "cancro da estirpare"...). L'abnormità di tali interventi e proposte ha provocato malumori e distinguo persino nella maggioranza parlamentare e determinato, talora, imbarazzate precisazioni o repentine marce indietro. Ma l'insieme delle iniziative, indipendentemente dal concreto sviluppo di ciascuna, ha prodotto effetti gravissimi e difficilmente reversibili sul sistema istituzionale (di più, sul senso condiviso della legalità, sul ruolo della politica, sullo spirito civile, sull'etica diffusa) e ha posto le premesse per profondi cambiamenti nel pianeta giustizia. Di ciò è forse il solo elemento positivo in questa difficile fase - mostrano preoccupata consapevolezza ampi settori della cultura giuridica (pur con la perdurante eccezione della avvocatura associata, o almeno della sua maggioranza).
Gli accennati mutamenti sono da tempo al centro della attenzione di questa Rivista, alle cui analisi può essere utile aggiungere, qui, un breve flash. Il volano dei progetti di cambiamento sta, sempre più, in un luogo comune, acriticamente accettato anche da settori che non condividono, o addirittura osteggiano, le ricette della maggioranza parlamentare: l'asserita impropria politicizzazione (ovviamente a sinistra) della magistratura, tale da imporre interventi correttivi allo status di giudici e pubblici ministeri. Ma questo luogo comune, lungi dal rappresentare la realtà, è frutto di un metodico quanto spregiudicato travisamento dei fatti. Si dice, per esempio, che le indagini di Tangentopoli hanno scientemente favorito "la sinistra" (quando le prime elezioni politiche successive al dispiegarsi di Mani pulite quelle del 1994 hanno visto la vittoria di Forza Italia e della destra) e risparmiato "i comunisti" (quando l'unica forza politica di rilievo indenne da tali indagini è stata Alleanza nazionale e sui "comunisti" hanno accanitamente, seppur infruttuosamente, indagato pubblici ministeri non certo ad essi affini come Tiziana Parenti e Carlo Nordio, poi assurti ai ruoli, rispettivamente, di parlamentare di Forza Italia e di presidente, nominato dal ministro Castelli, della Commissione per la riforma del codice penale); e si continua affermando, su altro (connesso) profilo, che si è allargato il numero dei magistrati presenti in Parlamento, soprattutto nelle file del centro sinistra [quando questa legislatura vede quasi un record negativo al riguardo, essendo attualmente solo dodici i magistrati parlamentari (di cui otto eletti nelle liste del Polo e cinque in quelle dell'Ulivo), mentre, fino agli albori della Repubblica, la presenza media di magistrati nel solo Senato fu dell'8%...]. Il rapporto tra politica e magistratura è come la storia insegna una cosa seria; ma, proprio per questo, sarebbe meglio cominciare a smentire anche rumorosamente i luoghi comuni.
agosto 2003 (l.p.)