Editoriale
Dopo la riforma incompiuta dell'art. 111 della Costituzione
(a cui è dedicato l'obiettivo di questo fascicolo), molti fatti nuovi
hanno investito, nel primo scorcio di 2000, il pianeta giustizia.
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C'è, anzitutto, l'intervento ortopedico della Corte
costituzionale sul pacchetto referendario radicale (con appendice xenofobo-leghista),
ridotto da 21 a 7 quesiti. Il commento è inevitabilmente a caldo,
essendo la decisione intervenuta mentre questo fascicolo va in stampa, ma senza
incertezze.
Primo. Con una opportuna virata restrittiva la Corte
ha posto un argine all'uso a valanga dello strumento referendario, che - comunque
lo si valuti - ha assunto in questi anni, e rischia di assumere sempre più,
una connotazione del tutto diversa da quella prevista dalla Carta fondamentale,
trasformandosi da abrogativo in creativo di nuove norme (conseguenti
al collegamento tra disposizioni e frammenti di disposizioni depurate
delle parti abrogate). Questo fenomeno di sostanziale assimilazione della potestà
popolare espressa con il referendum a quella legislativa non è stato
in passato sufficientemente contrastato dalla Corte. Le conseguenze sono state
dirompenti al punto che - come rilevato da diversi osservatori e, in qualche
modo, rivendicato dagli stessi proponenti - l'attuale pacchetto referendario
conteneva una sorta di programma di governo (se non addirittura la cornice di
una diversa forma di Stato). La decisione odierna non può, dunque, che
essere salutata con favore per la sua idoneità a ristabilire l'equilibrio
costituzionale violato. La finta indignazione dei referendari (parte
di un metodo politico-mediatico studiato a tavolino) è un segnale preoccupante
di insofferenza verso le regole, spinta sino a travolgere il ruolo della Corte,
che si vorrebbe corriva o normalizzata.
Secondo. A quanto sembra potersi cogliere, in attesa
della lettura della motivazione, dal complesso delle decisioni sui referendum
in materia di Stato sociale, la Corte ha accolto l'orientamento dottrinale che
ritiene insuscettibili di abrogazione le leggi "attuative di principi
costituzionali fondamentali". E ciò perché i referendum sul punto
tendono ad abrogare di fatto, privandole di effettività, non solo
le leggi attuative ma le stesse norme costituzionali di riferimento. Nel momento
del prevalere di un concetto di Costituzione debole è una opzione
confortante.
Terzo. Dopo la scure della Corte resta, al centro dell'operazione
referendaria, la "questione giustizia", obiettivo ricorrente dell'iniziativa
radicale. I tre referendum ammessi sul punto (modifica del sistema elettorale
del Csm, separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, abolizione
degli incarichi extragiudiziari) costituiscono, a ben guardare, un nuovo tentativo,
dopo il fallimento della Commissione bicamerale, di riduzione del ruolo della
giurisdizione. Di per sé il sistema elettorale conseguente a un eventuale
successo referendario modificherebbe in maniera modesta quello attuale, l'abrogazione
delle norme che regolano il passaggio tra le funzioni requirenti e quelle giudicanti
non introdurrebbe de plano la separazione delle carriere, gli aspetti
più consistenti e scandalosi della non esclusività delle funzioni
giudiziarie (a cominciare dalla proliferazione dei fuori ruolo) non sarebbero
toccati dal successo dei si
nel referendum sugli incarichi. Ma ad essere gravemente vulnerati
in termini di immagine e di consenso sarebbero il rapporto tra magistrati e
società, l'associazionismo giudiziario (veicolo storico di indipendenza,
seppur non privo di contraddizioni), l'anticipazione alla fase delle indagini
di una cultura garantista (insufficiente, ma non per questo da abbandonare in
toto). La posta in gioco, dunque, non sono i privilegi di una corporazione
ma i fondamenti della funzione giudiziaria.
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A pochi giorni dalla riforma dell'art. 111 Cost. è stata
approvata la cd legge Carotti che, originariamente destinata ad interventi correttivi
sul rito imposti dall'introduzione del giudice unico di primo grado, si è
arricchita in corso d'opera di novità che hanno trasformato in modo significativo
il codice di procedura penale. In particolare le modifiche introdotte in punto
udienza preliminare e giudizio abbreviato hanno inciso profondamente sul modello
processuale, accentuandone, in nome dell'efficienza e in controtendenza con
la riforma costituzionale appena varata, i caratteri inquisitori.
Perplessità e critiche sono, dunque, legittime e cosi
la segnalazione dell'esigenza di interventi correttivi urgenti su alcuni
punti: basti pensare alla inaccettabilità sociale di un regime di sostanziale
segretezza del giudizio abbreviato destinato, nelle intenzioni del legislatore,
ad assumere carattere di ordinarietà o alla mancata revisione
del sistema di computo dei termini di custodia cautelare con riferimento allo
stesso giudizio abbreviato (tuttora ricompreso nella fase delle indagini preliminari
anziché - come sarebbe più proprio - in quella del giudizio di
primo grado). Fuori misura appaiono, peraltro, le polemiche degli avvocati penalisti
e di settori della magistratura contro il limitato aumento di competenza del
giudice monocratico (quasi si trattasse di una novità sconvolgente e
non della prosecuzione dell'esperienza del pretore e del gup) e il potenziamento
in sé dell'udienza preliminare, con la riproposizione di tesi
contrarie a quelle sostenute fino a ieri, quando ci si lamentava che tale udienza
non fosse filtro sufficiente rispetto al giudizio.
Il rito ridisegnato con la legge Carotti non è certo
l'approdo definitivo del nostro tormentato sistema processuale, ma dopo le continue
modifiche intervenute nel corso di questi anni, c'è bisogno di un minimo
di stabilità per valutare aggiustamenti e modifiche ulteriori dettati
dall'esperienza, non di un atteggiamento di permanente conflitto.
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In principio il rifiuto della maggioranza era netto e sdegnato;
poi principi e coerenza hanno lasciato il posto alle convenienze politiche
e il varo della Commissione parlamentare su Tangentopoli - antico obiettivo
dell'opposizione e degli eredi del craxismo - è entrato a far parte degli
accordi di governo e sembra ormai imminente. A propiziare tale esito sono intervenuti,
in ultimo, ripetuti richiami (da B. Spinelli al presidente della Camera Violante)
alla "Commissione per la verità e la riconciliazione" istituita in Sudafrica
per chiudere le ferite dell'apartheid [sul punto cfr. M. Flores
(a cura di), Verità senza vendetta, Manifestolibri, Roma, 1999
e, in questa Rivista, L. Pepino, Oltre l'illusione repressiva,
1998, 451 ss.]. La strumentalità del richiamo è di tutta evidenza:
segnalarla può essere utile anche per cogliere l'improprietà della
soluzione adottata nel nostro Paese.
Anzitutto, il dato innovativo e dirompente della vicenda sudafricana
è stato il protagonismo delle vittime nell'accertamento dei fatti.
Tutto il resto (il perdono, l'amnistia, i nuovi equilibri politici) è
stato la conseguenza di tale approccio, fondato sulla convinzione della valenza
conciliativa della rilettura di una pagina tragica della storia nazionale
da parte non solo del giudice terzo ma anche delle vittime. Orbene la
corruzione politica che ha segnato la vita istituzionale del nostro paese è
un tipico reato senza vittima diretta. Il danno non è stato meno grave
ma si è prodotto con modalità diverse che esigono, per la sua
rimozione, approcci diversi. Non basta. La Commissione sudafricana ha avuto
come presupposto la fine dell'apartheid e l'indiscussa identificazione,
sul piano dei valori, dei vincitori e dei vinti. Tutt"affatto
diversa la situazione italiana post-tangentopoli: il sistema della corruzione
non è finito (ed è anzi assai prospero) e il binomio vincitori/vinti
lascia il posto, in molte letture, a quello persecutori/perseguitati.
L'affermazione diffusa secondo cui "si tratta di rinunciare all'uso della storia
di ieri per combattere i conflitti di oggi" e "occorre liberarsi dalla scorie
inquinanti del passato" è ambigua e fornisce una interpretazione distorta
della realtà attuale, in cui l'assoluzione postuma dei tangentisti di
ieri è richiesta da molti per garantire l'impunità dei tangentisti
di oggi.
Ciò introduce ulteriori ragioni di incomparabilità
delle due situazioni. L'esperienza sudafricana è stata animata da una
straordinaria tensione verso l'accertamento della verità, fino alla teorizzazione
del prevalere della verità sulla giustizia ed alla subordinazione
dell'amnistia alla piena e credibile ricostruzione dei fatti in contraddittorio
con le vittime. Si può discutere la validità dell'opzione, ma
senza di essa la Commissione non sarebbe esistita. Corollario di ciò
è stata una composizione della Commissione fondata solo sull'autorevolezza
e il rigore morale dei componenti, con esclusione di ogni criterio di rappresentanza
politica. Cosa ha a che fare con un'opzione di quel genere una commissione parlamentare
fondata - come non potrebbe non essere - sulla logica delle appartenenze e sul
relativismo del confronto tra diverse verità? Infine, e soprattutto,
la Commissione sudafricana è stata istituita nell'immediatezza del ribaltamento
politico-istituzionale anche in funzione surrogatoria di processi non
ancora iniziati. Ma il passaggio del tempo trasforma la qualità
dell'intervento. Un accertamento immediato è cosa del tutto diversa da
un accertamento disposto a distanza di anni quando l'attività giudiziaria,
pur ancora in atto, si è ampiamente sviluppata. In questa ipotesi la
rinnovazione dell'accertamento non può che essere, aldilà degli
escamotages verbali, il controllo sull'operato di chi è intervenuto
per primo: in altre parole, un giudizio di appello o una rivincita...
Persa l'occasione di una grande rigenerazione politica nell'immediato, riproporla
è non solo tardivo (il che non sarebbe un gran danno) ma snaturante.
La comparazione - come si diceva - aiuta l'analisi. Una corretta
soluzione politica per Tangentopoli non va ricercata nella riconciliazione
(tra chi, poi?) ma nella fissazione di regole chiare per il futuro e nella valutazione
dell'opportunità di mitigare, una volta definite le nuove regole, le
conseguenze sanzionatorie per i corrotti di ieri. L'ulteriore lettura
di quanto accaduto in quella stagione - e delle sue eventuali attenuanti - appartiene
ormai alla storia e non più alla politica. A quest"ultima compete ridefinire
le norme, ed è operazione che esige un confronto sull'accettazione diffusa
di un sistema di regole per l'agire politico: solo la verifica di tale accettazione
consentirà una soluzione politica accettabile. Per tale verifica non
serve il compromesso (magari mascherato con il termine riconciliazione)
ma il confronto (e, se necessario, lo scontro) sui valori.