Editoriale
La guerra in Jugoslavia e nel Kosovo, terribile come tutte le guerre, occupa la scena politica e mediatica. E' difficile ragionare mentre cadono le bombe e si consuma l'esodo dolente e drammatico di un intero popolo. Ma, nonostante il coro che invita a tacere e obbedire, occorre farlo; soprattutto, deve farlo chi, in maggiore o minor misura, è custode di una Costituzione che ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (art. 11, comma 1, prima parte).
Sta accadendo ciò che era prevedibile e previsto. La guerra produce (ha già prodotto) il risultato opposto a quello perseguito, a parole, dai suoi sostenitori. Tre cose sono sotto gli occhi di tutti: a) la crescita esponenziale delle operazioni di pulizia etnica, dei massacri, dell'allontanamento forzato da case e villaggi di uomini, donne e bambini ad opera delle truppe di Milosevic, libere dal controllo degli osservatori internazionali e giustificate dai bombardamenti; b) la scomparsa, a Belgrado, dell'opposizione politica, spazzata via dalla guerra e dal compattamento nazionalistico che l'accompagna, e il conseguente rafforzamento del regime di Milosevic; c) il definitivo tramonto di ogni possibilità di componimento del conflitto etnico tra serbi e kosovari albanesi: quel che prima era difficilissimo, oggi è diventato impossibile e il Kosovo, come Stato interetnico, non esisterà più, qualunque sia l'esito della guerra (e ciò anche a prescindere dalle ripercussioni in atto su Montenegro e Macedonia).
Qualcosa non va, dunque, nell'intervento armato. L'inefficacia della guerra o, più esattamente, il suo carattere controproducente sono dati ormai acquisiti, e tali resteranno qualunque siano gli sviluppi futuri. L'ingerenza umanitaria ha senso, per definizione, se fa cessare, o riduce, le violazione di diritti umani, le persecuzioni, il carico di sofferenze con esse connessi; se, al contrario, aggrava la situazione (direttamente o indirettamente, a causa della reazione di uno o di entrambi i contendenti) non c'è principio che valga a giustificarla. L'affermazione della necessità dell'intervento armato perché se Sagunto brucia non è lecito stare con le mani in mano è suggestiva ma tragicamente impropria. L'alternativa non è tra un intervento qualunque e l'inerzia, bensi tra un intervento che faciliti la soluzione dei problemi ed uno che li aggravi.
Non tutti gli sforzi necessari per evitare la guerra sono stati fatti. Una trattativa meno rigida - quanto alle forze messe in campo ed alle modalità degli interventi di pace o di interposizione - avrebbe reso più difficile il rifiuto serbo: a volte è parso che l'obiettivo fosse dimostrare la forza della Nato più che risolvere la tragedia del Kosovo. La prevalente responsabilità del regime di Belgrado non basta a giustificare le forzature altrui. Per questo, almeno ora, vanno evitate ulteriori prove di forza e colti tutti gli spiragli per riaprire una trattativa che salvi quanto è ancora salvabile.
Il rifiuto della guerra non è solo la conseguenza di principi etici; è anche il coerente sviluppo delle lezioni della storia: la guerra non risolve i problemi, ma li aggrava e uccide, con le persone, la stessa speranza.
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C'è chi ha ironizzato sul fatto che un gruppo di giuristi - nella specie, Magistratura democratica - abbia preso posizione contro la guerra (v. documento pubblicato in apertura di questo fascicolo), considerando tale intervento espressione di improprio protagonismo e di mancanza di senso del limite.
Non è la prima volta che ciò accade.
La risposta sta in un non dimenticato scritto di G. Borrè, di poco successivo alla guerra del Golfo (Le scelte di Magistratura democratica, in N. Rossi (a cura di), Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel cambiamento istituzionale, Milano, 1994, 41 ss.): Vi è un ultimo compito da assolvere, che è sempre stato di Md: un compito di guardianaggio duro e intransigente dei valori fondamentali; di denuncia aperta ed aspra di ciò che li pone in pericolo; fino alla resistenza, se la gravità del caso lo richiede. Vi sono state, in questi ultimi anni, due cose molto gravi. Una a livello di realtà attuata; l'altra di ipotesi, ma concretamente e pesantemente sostenuta. Vi è stata una guerra non deliberata dal Parlamento. E vi è stato il tentativo (ogni tanto ricorrente) di porre in discussione l'art. 138 della Costituzione, mutando la regola della revisione costituzionale. Ebbene a me pare che di questi due fatti non ci siamo accorti abbastanza. Il compito di vigilanza, che ci è proprio come magistrati democratici, ma direi, tout court, come intellettuali democratici, non è stato assolto con sufficiente durezza di denuncia. Eppure proprio qui sta il succo della nostra storia: la vigilanza democratica è la ragione per cui siamo nati e il traguardo al quale dobbiamo ancora guardare per il futuro.
C'è, in questa posizione, un richiamo alle ragioni del diritto e al ruolo dei giuristi in quanto tali, al di là di appartenenze e corporativismi. E' un richiamo che costituisce parte consistente del progetto culturale di questa Rivista e della sua stessa ragion d'essere.
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Spetta anche ai giuristi per la Jugoslavia, per le altre situazioni di crisi del pianeta, per il rispetto della democrazia in ciascun paese - riprendere le fila di una riflessione sul significato e i presupposti dell'ingerenza umanitaria, sul quando e sul come degli interventi della comunità internazionale, sulle procedure necessarie al riguardo, sul rapporto tra alleanze sovranazionali e controllo democratico. Alcuni di questi punti sono stati messi drammaticamente a nudo dalla crisi jugoslava.
Primo. L'ingerenza della comunità internazionale negli affari interni di singoli Stati a tutela di diritti fondamentali (primi fra tutti quelli alla vita e alla incolumità personale) gravemente e reiteratamente violati è condizione irrinunciabile per la tendenziale effettività di tali diritti. Ciò richiede non solo organismi giudiziari, come la Corte penale internazionale, per sanzionare ex post le violazioni, ma anche azioni positive di affermazione e sostegno dei diritti calpestati (cfr., nello scorso fascicolo di questa Rivista, l'obiettivo Crimini contro l'umanità e frontiere del diritto penale e, in particolare, l'introduzione, dedicata a La tutela dei diritti umani tra politica e giurisdizione, 77 ss.). Inutile dire che azioni positive e interventi armati non sono sinonimi. Questi ultimi sono, piuttosto, patologia o caso estremo; ma resta la questione della loro possibilità e della determinazione del punto limite che li consente.
Secondo. La titolarità del potere di decidere e realizzare interventi umanitari internazionali (tanto più se comportanti l'uso della forza) non è questione formale o secondaria. Vale per le questioni internazionali lo stesso principio del diritto interno secondo cui non sono lecite giustizie private o di clan. E' l'eterno problema delle regole e delle garanzie. Il garantismo non è la comoda scappatoia per consentire al prepotente di continuare nella prevaricazione e di sfuggire alla punizione: è il metodo (pur a volte difficile) per assicurare una convivenza giusta e per evitare, alla lunga, il prevalere della forza sulla ragione. Di ciò, a livello internazionale, non può essere garante altri che l'Onu. E', dunque, irresponsabile indebolirlo per ragioni di convenienza politica, cosi come non è giustificabile l'indifferenza di fronte alle previsioni della sua Carta costitutiva (e dello stesso statuto della Nato, il cui art. 7 riconosce all'Onu la responsabilità primaria nel mantenimento della pace).
Terzo. Le modalità dell'intervento internazionale sono sostanza (e non accidente): i bombardamenti e la guerra, come le sanzioni economiche indifferenziate, sono tutt"altra cosa dalla interposizione tra le parti. Anche i modi dell'interposizione possono variare: ci sono interposizioni pacifiche, e ce ne sono di militari, di concordate, di imposte... Non tutte si equivalgono e non tutte sono egualmente accettabili; ma, in ogni caso, sono cosa diversa dalla guerra tout court.
Quarto. La questione del chi decide è emersa, in questa circostanza, in modo più drammatico che mai. La partecipazione dell'Italia alla guerra non è stata deliberata dal Parlamento, come impone l'art. 87, co. 9, della Costituzione (ed a nessuno sfugge la differenza tra una decisione del Parlamento e un dibattito successivo teso a ratificare decisione già prese e, soprattutto, realizzate); a quanto consta, essa non è neppure stata posta all'ordine del giorno di un apposito Consiglio dei ministri; gli stessi termini della trattativa di Rambouillet, il cui fallimento ha portato alla guerra, sono oggetto di indiscrezioni ministeriali, non di formali comunicazioni del Governo al Parlamento. Cosi può morire una democrazia.
9 aprile 1999
(l.p.)