Se si chiude il palazzo di giustizia


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del presidente Livio Pepino

Ci sono
fatti che, seppur apparentemente isolati, segnano pesantemente la
vicenda politica e le stesse regole di convivenza. Ne segnalo alcuni,
accaduti nei giorni scorsi nel nostro Paese, anche per cogliere il
filo che li lega ad alcuni mutamenti istituzionali in atto.
Primo.
A Melfi, dopo anni, la polizia è intervenuta pesantemente per
disperdere i manifestanti che presidiavano lo stabilimento
Fiat durante lo sciopero e per "garantire il diritto al lavoro
di chi voleva entrare in fabbrica". Un conflitto sociale
delicato e complesso, determinato da una situazione risalente di
salari compressi e differenziati in negativo rispetto alle altre
fabbriche Fiat, di livelli anomali di intensità di lavoro, di
controlli capillari con sanzioni disciplinari crescenti è
stato trasformato (o meglio, si è tentato di trasformarlo) in
questione di ordine pubblico da risolvere con cariche e manganelli.
Il metodo e il linguaggio ricordano in modo sinistro gli anni ’50.
E, sullo sfondo c’è la tendenza a condizionare
dall’esterno le dinamiche sindacali e a realizzare nuove
politiche di ordine di pubblico, sostituendo la logica del
confronto con una concezione muscolare dell’ordine (già
evidente nella ostentata militarizzazione delle città in
occasione di qualunque manifestazione).
Secondo.
La tortura (orribile ferita ai corpi delle persone e alla dignità
umana) si è affacciata non solo come inevitabile e
coerente appendice di una guerra ingiusta ma anche come questione di
politica interna e di regolamentazione legislativa. Speravamo per
bandirla definitivamente, scrivendo a chiare lettere che l’integrità
fisica e morale di chi si trova sottoposto all’altrui autorità
è un diritto fondamentale, incondizionato, assoluto,
intangibile. E, invece, un ramo del Parlamento ne ha affermato
l’illegittimità solo se "reiterata" (sic!),
così proclamandone, di fatto, l’ammissibilità se
praticata in un’unica occasione. Le leggi valgono, spesso, a
giustificare, ex post, le prassi. E siamo tuttora in attesa di
smentite alla notizia, pubblicata il 1° dicembre 2003 dal
Corriere della sera, dell’uso, nelle indagini svolte in
Irak dai carabinieri italiani dopo l’attentato di Nassirya, di
pratiche inumane e degradanti ("nelle indagini quattro persone
sospette sono state fermate. La procedura seguita dai
carabinieri è quella imposta dagli Stati Uniti, che alla fine
li hanno presi in consegna: i quattro sono rimasti chiusi in una
cella al buio, inginocchiati, senza acqua né cibo, per quattro
giorni. Una tecnica che mira a far crollare i prigionieri e spesso li
porta a confessare").
Terzo.
La vita e l’incolumità fisica sono beni superiori, sul
piano dei valori, a quelli patrimoniali. È per questo che
nella civiltà dei moderni – e persino nel codice penale
del fascismo – la difesa privata contro le aggressioni altrui è
considerata legittima solo se "dettata dalla necessità di
salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla
persona" e "sempre che il fatto sia proporzionato al
pericolo". È, nel nostro sistema, una norma ferma e
indiscussa da cent’anni. Ma nei giorni scorsi il ministro della
giustizia e la maggioranza parlamentare ne hanno proposto e votato la
modifica fino a parificare, sul piano dei valori, beni e vita,
sull’onda di una ossessione sicuritaria che già ha
portato a raddoppiare la popolazione carceraria (dai 25.804 detenuti
del 31 dicembre 1990 ai 54.237 della stessa data del
2003), pur in una situazione di costante diminuzione, dal 1991 ad
oggi (e con una lieve recrudescenza nell’ultimo anno),
dell’andamento della criminalità.

Mesi fa, in
una occasione sbagliata (le perquisizioni presso alcune società
calcistiche) ma con un, forse involontario, scatto di sincerità,
il presidente del consiglio ha dichiarato che "si va
allegramente verso uno stato di polizia…".

È in
questo contesto che si collocano importanti mutamenti istituzionali.
Tra questi, la modifica dello status di giudici e pubblici
ministeri in discussione alla Camera e che ha determinato la
proclamazione dello sciopero dei magistrati. I contenuti della
"riforma" sono noti: trasformazione dei magistrati in
burocrati selezionati con procedure concorsuali e organizzati in modo
gerarchico, separazione di fatto delle carriere di giudici e pubblici
ministeri, fine dell’azione penale diffusa e ripristino del
potere assoluto dei procuratori della Repubblica, emarginazione del
Consiglio superiore, introduzione di un controllo politico sui
magistrati mediante la previsione di ipotesi di responsabilità
disciplinare addirittura per l’attività interpretativa
sgradita. Ed è altrettanto noto l’obiettivo
perseguito: far tornare la magistratura ad essere, come negli anni
’50 e ’60, "un corpo burocratico chiuso, cementato
da una rigida ideologia di ceto: un "corpo separato" dello
Stato, collocato culturalmente, ideologicamente e socialmente
nell’orbita del potere, che veniva avvertito come ostile dalle
classi sociali subalterne ed avvertiva esso stesso queste medesime
classi come ostili" (L. Ferrajoli).

Tutto si
tiene, occorre esserne consapevoli. L’indipendenza della
magistratura – lo sappiamo - non garantisce in modo meccanico
giustizia, libertà e uguaglianza per tutti; è,
peraltro, una delle condizioni per rendere possibile tale risultato.
È per questo che la riforma dell’ordinamento giudiziario
(e il trasferimento di competenze e poteri dalla giurisdizione
all’amministrazione che ad essa si accompagna) non è
altro rispetto alle trasformazioni in atto sul piano sociale e
politico. V’è di ciò un’immagine nitida
e drammatica: tra il 20 e il 22 luglio 2001 a Genova, mentre (in
concomitanza con gravi quanto circoscritti atti di vandalismo e
devastazione nel corso delle manifestazioni contro il G8) si apriva
una nuova stagione nelle politiche di ordine pubblico, il palazzo di
giustizia era chiuso. C’erano, forse, alcuni pubblici ministeri
barricati nei loro uffici, ma per i cittadini, per gli avvocati, per
i giudici il palazzo era chiuso: in quei giorni Genova non aveva
bisogno della giustizia. È un’immagine che non vorremmo
rivedere.
Pubblicato
su "Il manifesto" del 9 maggio 2004

10 05 2004
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