L'intervento al Congresso di Venezia dell'Anm


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di Fiorella Pilato

Nella mia veste di presidente di una giunta distrettuale dell'associazione nazionale magistrati, quella della Sardegna, devo farmi portavoce delle posizioni espresse dai colleghi nelle assemblee di Cagliari e Sassari che hanno preceduto questo confronto congressuale.

Assemblee molto partecipate, dalle quali è emersa chiara la richiesta di un'azione di protesta visibile e incisiva anche da parte dei magistrati più "moderati", quei famosi magistrati silenziosi che parlano soltanto attraverso i loro provvedimenti, ma la cui sopportazione ha davvero raggiunto il livello di guardia di fronte ad attacchi virulenti e ripetuti alla dignità e all'indipendenza della loro funzione.

Sono testimone insomma di una realtà dei fatti che smentisce la vulgata di un'agitazione della categoria voluta e diretta dai vertici dell'associazione, presentati ad arte all'opinione pubblica come un manipolo di professionisti della politica associativa, di giudici politicizzati che non esprimono le posizioni di tutti.

Indubbiamente, la magistratura non è mai stata unita come adesso, e l'unità reale su principi condivisi costituisce la nostra sola forza. Sulla spinta di questa richiesta forte e generalizzata, tanto si è parlato e si parlerà di un nostro nuovo sciopero, arma estrema che la magistratura ha sempre usato con la massima cautela, consapevole del rispetto dovuto al proprio ruolo e dei disservizi che il blocco delle attività può determinare sul funzionamento di una giustizia già in gravissima crisi, come abbiamo imparato dal ricorso ripetuto dell'avvocatura all'astensione dalle udienze.

Vorrei invece centrare il mio intervento su cosa ci aspettiamo realisticamente da uno sciopero (sul quale peraltro sono d'accordo) o da qualunque altra manifestazione di protesta, e sui compiti che ci attendono nel prepararci a un'opposizione che si annuncia di lungo periodo, giacché l'iter parlamentare della riforma dell'ordinamento è appena all'inizio. Non credo che qualcuno di noi sia tanto ingenuo, da pensare che alzando il livello dello scontro potremmo scoraggiare la maggioranza di governo dal proseguire per la sua strada o conquistarci l'entusiastico consenso delle masse. Sotto questo profilo, è senz'altro più producente il lavoro d'informazione che l'ANM sta facendo sulle cause dei disservizi della giustizia e sulle ragioni della nostra protesta, da rappresentare ai cittadini perché valutino da soli come stanno le cose.

Preferisco anch'io ricordare che non siamo il centro del mondo e col mondo dobbiamo confrontarci, senza cadere nell'autoreferenzialità discutendo soltanto delle forme della nostra protesta e della bontà delle nostre ragioni.

Quel che sta capitando a noi capita in altri settori fondamentali del vivere civile: dalla sanità alla scuola, dalla ricerca alla tutela dell'ambiente, dall'informazione al mondo del lavoro. Il diritto alla giustizia rapida e uguale per tutti ha lo stesso rango sociale e costituzione del diritto alla salute, all'istruzione, al lavoro, al salvataggio di beni collettivi, al pluralismo dell'informazione.

Per altro verso, l'attacco alla giurisdizione è più pericoloso, come quello alle altre istituzioni di garanzia e di controllo, e s'iscrive nella stessa logica.

Rispetto agli altri soggetti istituzionali, però, noi siamo gli unici a poter parlare e agire attraverso un'associazione di categoria: ma ciò comporta secondo me il dovere pesante di conquistarci credibilità e legittimazione.

Per prima cosa, dobbiamo evitare la tentazione di far diventare l'unità della magistratura fattore di deriva corporativa e di autocelebrazione; al contrario, è necessario cogliere nella straordinaria unità di tutti i magistrati un'opportunità forse irripetibile di riflessione, di chiarimento e di azione concreta.

Significa che dobbiamo renderci conto che la sfida vera è una sfida tutta interna alla magistratura. Tanti di noi sono entrati in magistratura quando indipendenza e autonomia del singolo erano ormai dati acquisiti, l'habitat normale per lavorare; è comprensibile che la tendenza sia a reagire nelle forme più eclatanti e viscerali.

Ma chi è entrato prima in questo mondo sa e dovrebbe ricordare quanto c'è voluto per tradurre uno statuto d'indipendenza teorica in esercizio reale e orgoglioso d'indipendenza e imparzialità. Questo è un approdo culturale che, come ha richiesto tempi lunghi, richiederà - mi auguro - tempi lunghi per essere travolto. Però dobbiamo attrezzarci per difenderlo, e ne abbiamo ancora gli strumenti.

Nella peggiore delle ipotesi, da mettere realisticamente in conto, la gerarchizzazione degli uffici e in particolare di quelli del p.m. comporterà la progressiva erosione dell'indipendenza interna di ciascuno di noi, su quel versante delicatissimo legato al potere diffuso e alla pari dignità delle funzioni. Qui vedo il pericolo. Avremo bisogno di capi degli uffici all'altezza del compito di assicurare e difendere indipendenza e imparzialità di tutti. E i capi che avranno quest'onere li stiamo scegliendo noi, attraverso le nostre rappresentanze nel circuito dell'autogoverno.

Significa che qui e ora, anche in vista di una riduzione dell'autonomia di consigli giudiziari e CSM, dobbiamo elaborare e imporci la pratica di criteri severissimi, tanto ragionevoli da non poter essere poi superati senza scandalo.

All'anzianità, che ha davvero fatto il suo tempo, sostituiamo il criterio del coraggio dimostrato sul campo resistendo a lusinghe o intimidazioni, con la schiena dritta, accanto a quelli ovvi di preparazione specifica per dirigere quell'ufficio, equilibrio, operosità, puntualità, interesse per il buon funzionamento del servizio, capacità organizzativa e buone maniere. Ai rapporti amicali e all'appartenenza correntizia, sostituiamo nei fatti scelte dettate soltanto dalla convinzione motivata di mettere le donne o gli uomini giusti nei posti giusti.

E voglio segnalare un altro pericolo, che mi sembra gravissimo e sta a noi scongiurare. Mi riferisco al rischio di cancellare e all'esigenza invece di difendere un altro traguardo culturale della magistratura, fondamentale e conquistato anch'esso faticosamente, che sta trovando finalmente affermazione in sede d'autogoverno.

Quello che per un buon magistrato non è importante soltanto ciò che sa, ma anche e soprattutto quel che sa fare utilizzando il suo sapere.

La riforma dell'ordinamento punta a fare della nostra carriera un concorsificio, cadenzata da una serie d'esami teorici da sostenere. Ignorando, curiosamente, tutte le critiche venute nel corso degli anni a un sistema di reclutamento insufficiente proprio perché fondato sul solo nozionismo, che si elegge a criterio di selezione.

Difendiamola, dunque, questa cultura preziosa del nostro sapere anche come saper fare e avere il gusto e la voglia di fare il nostro mestiere, e rivendichiamo il diritto ad essere giudicati per la qualità del servizio che siamo in grado concretamente di rendere a chi ne ha bisogno, per giunta in condizioni di lavoro difficilissime per la carenza di mezzi e l'inadeguatezza delle procedure. Ma rifiutiamoci di chiudere un occhio su tante sacche, sempre più isolate ma persistenti, di pigrizia, superficialità, compiacenze, arroganze; e rendiamoci conto che è necessario, ormai, superare anche il modello culturale del buon giudice preparato professionalmente, e capace di scrivere sentenze dotte, pago di svolgere al meglio il proprio lavoro ma purtroppo indifferente alla resa complessiva dell'ufficio.

Se vogliamo essere credibili, e legittimati a difendere questo assetto ordinamentale, pretendiamo da tutti noi, in definitiva, il dovere di essere una magistratura migliore.

10 02 2004
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