Congresso di Venezia dell'Anm: l'intervento del segretario di Md


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Claudio Castelli

"GIUSTIZIA PIU' EFFICIENTE E INDIPENDENZA DEI MAGISTRATI A GARANZIA DEI CITTADINI"

 

Intervento di Claudio Castelli

Segretario nazionale di Magistratura Democratica

 

ESSERE MAGISTRATI DI UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA

  1. Difendere la Costituzione del 1948
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    Quella che viviamo non è una stagione normale. I progetti che si confrontano nel Paese non sono frutto di fisiologiche (e positive) diversità di impostazione sul modo di realizzare un disegno costituzionale condiviso. L'oggetto del confronto (o più esattamente, non a caso, dello scontro) politico è la stessa Costituzione, quella materiale e quella formale (da taluno, anche con rilevanti cariche istituzionali, definita un testo "bolscevico" o "un ferro vecchio da buttare"). Ciò che è in gioco è il sistema dei diritti, le regole della cittadinanza, l'assetto dello Stato e in questo contesto, per quanto più direttamente ci riguarda, il ruolo e la garanzia della giurisdizione. In sintesi, ciò che si vorrebbe da taluno abbattere e modificare è il nucleo forte della Costituzione del 1948, di quella Costituzione alla quale abbiamo giurato fedeltà e che resta per noi - doverosamente - la stella polare, il punto di riferimento culturale e giuridico fondamentale. Qui sta il cuore delle questioni sul tappeto, anche per quanto riguarda la giustizia. E qui stanno le ragioni del radicale dissenso di Magistratura democratica, della Associazione nazionale magistrati, rispetto ai progetti di "riforma" (metto il termine tra virgolette) della giustizia in corso di discussione parlamentare: non - come molti interessatamente proclamano - in una opposizione politica preconcetta frutto di impropria politicizzazione che non si addice ai magistrati, ma in una consapevole e doverosa scelta in favore della Costituzione repubblicana.

    La concezione della democrazia accolta dalla nostra carta Costituzionale è quella di un sistema fondato sui diritti, sulla partecipazione, sull'inclusione, attenta alle prerogative delle minoranze e a promuovere la partecipazione dei cittadini nelle scelte fondamentali della collettività e dello Stato. La concezione di democrazia oggi da più parti propagandata si riduce al semplice esercizio periodico del diritto di voto, per poi lasciare agli eletti mano libera, senza limiti né controlli. Per evitare che ciò produca quella che è stata definita una "dittatura della maggioranza" la Costituzione del 1948 ha previsto un delicato e lungimirante sistema di equilibri e bilanciamenti tra poteri, teso a realizzare un effettivo controllo di legalità sui poteri pubblici, più intense garanzie giuridiche per le minoranze, una più forte tutela dei diritti individuali.

    Le riforme in atto si muovono in direzione opposta. Alla progressiva riduzione dei diritti corrisponde la compressione del ruolo della giurisdizione e il tentativo di trasformarla geneticamente: da luogo di controllo e di promozione di diritti a strumento di attuazione delle scelte politiche della maggioranza.

    Ciò che è in corso non è solo la controriforma dell'ordinamento giudiziario, ma un più articolato progetto che tende a "privatizzare" la giustizia (emblematici sono alcuni passaggi del progetto Vaccarella sul processo civile e il riassetto gerarchico e burocratico del pubblico ministero, sempre più allontanato dalla giurisdizione) e a ridurre la tutela dei soggetti deboli, la promozione di nuovi diritti, la rimozione delle diseguaglianze, cioè, in una parola, il progetto sotteso all'art. 3 capoverso della Costituzione. Lo stesso processo viene sempre di più ridotto a contesa, in una sorta di darwinismo processuale in cui la ragione non dipende dai fatti, dalle prove o dalle argomentazioni, ma dalla forza delle parti e, in definitiva, dalla loro ricchezza o potenza.

    La vediamo nella tutela dei minorenni - prototipo dei soggetti deboli - in via di progressivo abbandono grazie a un progetto governativo, fortunatamente sinora arrestato, che tende ad abolire il tribunale minorile, in un soprassalto di repressione verso i minori devianti e di abbandono di ogni possibilità di intervento sulla famiglia, anche abusante, e le sue dinamiche.

    La vediamo nella riforma neoliberista del mercato del lavoro che, accanto alla riduzione dei diritti al lavoro e nel lavoro, con una fortissima precarizzazione data dall'introduzione di svariatissime forme di lavoro atipico, opera per un forte ridimensionamento del ruolo della magistratura (dalla autocertificazione della natura del rapporto di lavoro all'estensione di clausole arbitrali).

    Lo vediamo in un progetto sul processo civile che attribuisce alle parti i poteri di gestione e conduzione del processo (ivi compresa l'assunzione delle prove), estromettendo il giudice da qualsiasi attività di collaborazione, nonché di stimolo e impulso per le parti.

    Lo vediamo in un processo penale che sembra sempre più a diverse velocità, laddove alla celerità dei processi per direttissima o con riti alternativi, fa da contrasto la lentezza dei processi di criminalità economica ed organizzata. Si torna sempre più ad un processo differenziato, tanto implacabile nei confronti di alcuni strati sociali, quanto ineffettivo e declamatorio per altri, con la riproposizione, nei fatti, di un codice per i briganti contrapposto a un codice per i galantuomini. Le scelte legislative al riguardo sono trasparenti.

    Da un lato vi sono una progressiva depenalizzazione e il depotenziamento dell'intervento penale (e amministrativo) per una serie di comportamenti illeciti tipici dei cd "colletti bianchi" pur fonte - come i fatti di questi giorni dimostrano - di vere e proprie tragedie sociali (dalla riforma dei reati tributari, alla modifica dei reati societari e alla sostanziale abolizione come reato del "falso in bilancio" fino alle proposte in atto che riducono sensibilmente le pene per i reati fallimentari). Dall'altro vi è l'esaltazione della "tolleranza zero" in settori nevralgici per il governo dei fenomeni sociali (basti pensare all'immigrazione e al settore degli stupefacenti, in cui il credo proibizionista viene portato a livelli paradossali, con il solo effetto di moltiplicare repressione e sofferenza senza risolvere i problemi individuali, né aumentare il senso di sicurezza della collettività). Il risultato è già oggi (e ancor più si appresta a diventare) quello di una dilatazione del carcere, sempre più abitato da tossicodipendenti e cittadini extracomunitari e di un aumento a dismisura del controllo discrezionale di polizia, con progressiva trasformazione di uno Stato che, non più in grado di erogare servizi e di assicurare il benessere dei cittadini, punta alla mera affermazione della propria autorità e alla penalizzazione anche di comportamenti diffusi.

    Si colloca qui - deve essere chiaro a tutti - l'attacco alla giurisdizione, che non è solo il portato di interessi e nervosismi individuali, legati a specifici processi penali pendenti a carico di personaggi politici di primo piano. L'attacco alla giurisdizione è una tessera di primaria importanza in un mosaico di attacco alla qualità della democrazia e per questo, un attacco particolarmente insidioso perché rischia di vanificare la stessa possibilità di tutela dei diritti. Per raggiungere questo risultato la giurisdizione è stata in questi anni mortificata oltre ogni limite con attacchi ai processi, denigrazioni e insulti nei confronti dell'intera magistratura e di singoli magistrati. Ciò ha preparato il terreno per la spallata finale, consistente nella controriforma dell'ordinamento giudiziario (che rappresenta un salto qualitativo senza precedenti e che, per questo, deve avere dalla magistratura e dalla parte più consapevole della società una risposta qualitativamente all'altezza dell'attacco).

     

  3. La controriforma dell'ordinamento giudiziario.
  4.  

    Adesso è in atto l'attacco finale, quello che viene chiamato pomposamente riforma della giustizia, con un'operazione mass - mediatica che si può definire solo come truffaldina. In realtà quanto si vuole è una riforma dei giudici per renderli meno indipendenti e più lontani dalla società.

    I passaggi del progetto sono noti: separazione netta e sostanzialmente irreversibile tra giudicanti e requirenti, suddivisione della magistratura in categorie chiuse (dodici: a seconda delle funzioni, del grado, dell'incarico svolto) con accesso mediante concorsi per titoli ed esami, introduzione di una struttura gerarchica rigida funzionale a consentire il controllo politico (attraverso il dirigente) di interi uffici, sottrazione al Consiglio superiore (e, dunque, all'autogoverno) di funzioni e poteri fondamentali (dall'organizzazione degli uffici alla formazione, dalla valutazione dei magistrati per il conferimento di incarichi sino al trasferimento di ufficio per incompatibilità), negazione dei diritti civili del magistrato. La giurisdizione, in macroscopica violazione dell'art. 101, comma 2 Costituzione, viene assoggettata ai desiderata della maggioranza politica mediante la previsione dell'obbligo di interpretazione conforme "alla lettera e alla volontà della legge" (stabilite dal ministro attraverso l'esercizio dell'azione disciplinare).

    Si tratta di un progetto pessimo, di dubbia costituzionalità e fuori dal modello costituzionale, che vuole un magistrato arrivista, succube e sottoposto ad una rigida gerarchia, privo dei diritti costituzionali di opinione, di associazione e di manifestazione del pensiero, solo e del tutto indifferente e insensibile alla salvaguardia dei diritti del cittadino.

    Un magistrato arrivista il cui principale obiettivo sarà quello di prepararsi per i continui concorsi teorici che scandiranno la carriera di ogni magistrato.

    Un magistrato succube e gerarchizzato, che dovrà obbedire ciecamente al capo nelle procure e dovrà comportarsi in modo gregario verso i suoi "superiori" e evitare qualsiasi interpretazione innovativa.

    Un magistrato che non potrà associarsi, non potrà manifestare ( neppure contro mafie e terrorismo), non potrà avere rapporti con la stampa, non potrà pensare liberamente ( pena sanzioni disciplinari per le giurisprudenze non gradite).

    Un magistrato solo, senza più tutela da parte di un Consiglio Superiore della Magistratura mortificato e limitato nelle sue prerogative, e del tutto avulso dalla società, impegnato solo a studiare la teoria e indifferente alla qualità del servizio da prestare ai cittadini.

    Un'ulteriore e odiosa discriminazione per i giovani e le donne magistrato, tagliati fuori per anzianità o per carichi familiari, su cui ricadrà la parte più gravosa del lavoro giudiziario e che saranno penalizzate nella carriera.

    E' un attacco frontale e violentissimo ad una magistratura che con alcuni processi ha dimostrato di credere al precetto costituzionale secondo cui la giustizia è eguale per tutti.

    E le prospettive coltivate dall'attuale maggioranza dimostrano che gli obiettivi perseguiti vanno oltre, perseguendo una magistratura che nulla ha più a che fare con le previsioni della Costituzione, ridotta a strumento della maggioranza di Governo con ulteriori passaggi che rappresentano un' autentica minaccia per la democrazia. E' stato il Ministro della Giustizia a parlare di P.M. alle dipendenze dell'esecutivo; sono autorevoli esponenti della maggioranza che rilanciano la discrezionalità dell'azione penale, o almeno l'introduzione di criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale, per non parlare delle ipotesi di passare a magistrati eletti direttamente dal popolo.

    Le conseguenze che tali modifiche produrrebbero in una situazione di profonda spaccatura del Paese e di assenza di valori condivisi come quella italiana sarebbero quanto meno inquietanti con la discrezionalità che potrebbe essere indirizzata per favorire gli amici e con un P.M. dipendente ( di fatto o di diritto) dall'esecutivo che potrebbe essere strumentalmente utilizzato contro gli avversari politici ( di qualsiasi colore essi siano).

    L'esperienza della Commissione Telekom Serbia è al riguardo nel contempo illuminante e inquietante.

    Le modifiche agli assetti della magistratura vengono giustificate con l'inefficienza del sistema giudiziario e traggono alimento dall'intollerabile lunghezza dei processi, ma in realtà utilizzano tali argomenti solo strumentalmente e demagogicamente. L'obiettivo che viene perseguito non è l'efficienza, come del resto ci dimostra il quotidiano (dis)impegno di Ministro e Governo, ma il controllo dei magistrati e la costruzione di una nuova magistratura succube ed asservita.

  5. Le reali cause dell'inefficienza del sistema giudiziario.
  6. La lentezza e l'inefficienza del sistema giudiziario non sono una maledizione ineluttabile, ma il prodotto di precise cause e di altrettanto precise responsabilità.

    Lo dicono i dati del Ministero e della Procura Generale della Cassazione, lo dice la comune esperienza che evidenzia come accanto a settori ed uffici che funzionano in modo soddisfacente, ve ne siano altri del tutto carenti ed insufficienti.

    Per una analisi al riguardo che voglia davvero verificare la realtà e cercare soluzioni occorre sgombrare il campo dalla vulgata diffusa dal Ministero della Giustizia e dalle generalizzazioni secondo cui tutto non funziona, nessuna riforma è mai servita e ogni cambiamento è inevitabilmente peggiorativo, salvo improbabili ritorni ad un passato quando, secondo le immaginifiche tesi ministeriali, la giustizia funzionava meglio.

    Assecondare tali rappresentazioni non solo è oltraggioso per le migliaia di magistrati ed altri operatori del diritto che ogni giorno profondono il loro lavoro per cercare di fornire un servizio efficiente, ma impedisce di identificare le reali cause del dissesto dove esiste, di verificare le tendenze positive in atto ed in definitiva di individuare le soluzione possibili.

    Parlare di milioni di processi come debito giudiziario significa fare demagogia e confusione se contemporaneamente non si dice che il numero dei processi che pervengono ogni anno sono milioni e che quelli esauriti anche quest'anno sono stati di più di quelli introitati. Secondo la Relazione di quest'anno del Procuratore generale della Cassazione in primo grado i processi pendenti sono 3.036.649 nel civile e 5.743.906 nel penale, cui corrispondono rispettivamente 1.795.876 processi civili e 6.049.664 penali sopravvenuti in un anno e 1.861.657 e 5.852.271 definiti. Se si volesse seguire questa logica puramente matematica, ma erronea, in assenza di nuove sopravvenienze l'arretrato potrebbe essere esaurito in poco più di un anno!

    I problemi all'origine dell'enorme carico di processi e dell'inefficienza del sistema giudiziario sono altri, e le cause debbono essere chiare se vogliamo fare passi avanti verso una soluzione.

    Il primo di questi è l'eccessivo contenzioso esistente in Italia. Anche in Italia, come in molti paesi occidentali, si è avuta una litigation explosion ed a questo si unisce un eccessivo ricorso alla sanzione penale.

    Secondo le ultime relazioni del Procuratore generale della Corte di Cassazione il contenzioso civile è aumentato dalle 1.045.428 cause sopravvenute in primo grado nel 1992 alle 1.795.876 del periodo 1.7.2002-30.6.2003 con un aumento del 58,21 %.

    Mentre il numero di delitti denunciati presenta numeri imponenti, che non ha paragoni con altri Paesi: 2.563.100 nel 2000, 2.817.963 nel 2001 (+ 9,94 %), 2.842.438 nel 2002 ( + 0,86 %), 1.438.293 nel primo semestre del 2003 ( - 4 %).

    Va subito detto che la soluzione va cercata sul piano sostanziale, limitando il ricorso alla sanzione penale, ostacolando l'abuso del processo e la creazione di contenzioso inutile, evitando la scorciatoia della negazione o compressione dei diritti. In altri Paesi la soluzione è stata trovata elevando i costi dei processi o adottando la discrezionalità dell'azione penale. Sono soluzioni che creano disuguaglianze e adottano una selezione di accesso alla giustizia sulla base del censo del tutto inaccettabile, perché nega i diritti invece che attuarli.

    Ma il contenzioso non è (solo) il prodotto di questa tendenza, poiché esso è provocato o almeno facilitato da una produzione normativa eccessiva e spesso ambigua e non chiara. Non solo in Italia nessuno conosce neppure il numero di leggi attualmente in vigore ( sembra siano tra le 150.000 e le 200.000), ma il testo delle leggi è a volte per scelta, a volte per incapacità, oscuro e tale da non risolvere i problemi, ma da accentuarli e di crearne di nuovi. Abbiamo attraversato periodi in cui l'ambiguità normativa era frutto di scelte politiche di compromesso che nell'impossibilità di trovare un accordo rimandavano alla giurisdizione e alla sua interpretazione ( e responsabilità) la soluzione dei nodi irrisolti. Oggi si è aggiunta la maggiore difficoltà di fronteggiare il moltiplicarsi delle fonti normative (larga parte della produzione normativa è di fonte comunitaria e alle leggi nazionali si aggiungono le norme regionali). Per cui ogni intervento normativo implica una ricostruzione complessiva dell'ordinamento al cui interno la norma deve essere inserita ed armonizzata e spesso l'effetto è del tutto diverso da quello pensato e preconizzato. Abbiamo insomma vieppiù un quadro normativo che non fornisce certezze ed anche per questo incrementa automaticamente il contenzioso.

    Va anche detto che l'aumento esponenziale del numero di avvocati ( ormai sui 120.000), non aiuta a contenere il contenzioso, oltre a rischiare, come più volte denunciato da esponenti di primo piano dell'avvocatura, una dequalificazione e perdita di prestigio e autorevolezza della professione.

    Vi è poi l'eccessiva penalizzazione: non vi è anfratto della vita sociale che non sia regolato, perlomeno in astratto, da leggi che prevedono sanzioni penali. Le depenalizzazioni effettuate sono state sinora timide e quantitativamente modeste. La proclamata volontà di depenalizzare ha riguardato nei fatti prevalentemente i reati tipici dei cosiddetti colletti bianchi: i reati tributari, il falso in bilancio ed i reati societari, mentre non si è provveduto a rendere più efficaci e più seri i controlli amministrativi. Contemporaneamente si è avuta in questi anni e sono in programma massicce penalizzazioni che hanno popolato e popoleranno le nostre aule di giustizia e le nostre carceri. Basti pensare alla legge sull'immigrazione Bossi - Fini e al disegno di legge che sanziona penalmente anche il consumo di sostanze stupefacenti.

    La struttura del processo è altro fattore fondamentale di lentezza e ritardi. A fronte di riforme in larga parte condivise che hanno riguardato il settore civile ( le riforme urgenti del processo civile del 1995, l'introduzione del giudice di pace, le sezioni stralcio, il giudice unico) che hanno determinato un recupero di efficienza e di tempi, si è avuto invece nel settore penale un turbine normativo che ha devastato il codice creando incertezza e togliendo qualsiasi stabilità e prevedibilità alle stesse indagini ( vi sono processi che hanno visto cambiare cinque volte la normativa applicabile con conseguenti nullità ed inutizzabilità). D'altro canto la proliferazione oltre ogni limite di adempimenti e garanzie formali ha reso il processo farraginoso, costoso in termini di risorse e di tempi e popolato da ostacoli e trabocchetti che ne rendono l'esito finale del tutto aleatorio. La presenza poi di un sistema delle impugnazioni debordante e che non ha pari al mondo ( tre gradi di giudizio, oltre ai ricorsi possibili in tema di misure cautelari personali e patrimoniali) coniugato con termini prescrizionali assai brevi per molti reati, ha creato una miscela esplosiva in cui l'impugnazione è la norma ( i dati nazionali ci dicono che pressoché tutte le sentenze pregiudizievoli all'imputato in sede di appello vengono impugnate in cassazione) ed i tempi sono vieppiù dilatati ( questo spiega, in gran parte, i cinque anni e mezzo necessari per giungere ad una sentenza definitiva). Ma questo è il frutto di un sistema e di scelte del legislatore che in realtà vedono la celerità dei processi con sospetto.

    Mancano poi risorse ed investimenti per la giustizia.

    La generale politica per la giustizia è stata storicamente connotata da un pauperismo coniugato con un= attribuzione indefinita di compiti alla giurisdizione, senza alcuna valutazione di sostenibilità degli stessi. La percentuale del bilancio dello Stato attribuito a questo settore per anni si è attestato a cifre estremamente limitate, inferiori all=1 % del bilancio dello Stato. E negli ultimi anni la situazione presenta un drammatico peggioramento come anche la disamina della legge finanziaria del 2003 purtroppo evidenzia.

    Mancano le risorse, manca un progetto organizzativo in cui inserirle, manca un'attenzione alla loro qualità ed adeguatezza. Dal 2001 non si sono avute nuove assunzioni di personale amministrativo, con una scopertura dell'organico che si attesta sull' 11 % a livello nazionale, ma giunge in alcune sedi del Nord Italia a punte del 30 %. I progetti di riqualificazione e formazione sono fermi. I concorsi per l'assunzione di nuovi magistrati pur previsti da una legge dallo stato sono stati prima rinviati e poi non banditi. La realizzazione di un'adeguata rete informatica, prodromo inevitabile di forme di processo telematico, è in grave ritardo.

    L'obiettivo che ogni magistrato o ufficio abbia locali, collegamento informatico e telefonico e operi nell'ambito di un'adeguata struttura organizzativa è ancora molto lontano.

  7. La finanziaria del 2003 e le vere responsabilità dell'inefficienza.

Nel 2003 gli stanziamenti per la giustizia ammontavano complessivamente a 6.322 milioni di euro, quasi interamente costituite da spese correnti, pari 6.263 milioni di euro (previsioni assestate).

Per il 2004 lo stato di previsione del Ministero della Giustizia reca spese finali per complessivi 7.726,5 milioni di euro, con un incremento di 1.463,4 milioni di euro pari al 23,4%. L'aumento così rilevante smentisce, ma solo in apparenza, l'accusa al Ministro di non fornire sufficienti mezzi alla giustizia.

Va considerata in primo luogo la composizione interna degli stanziamenti: "l'88,1 per cento (6.807,6 milioni di euro) rappresenta la quota di spesa giuridicamente vincolante, costituita in massima parte (5.793,2 milioni di euro) da spese dipendenti da fattori legislativi e da spese obbligatorie (allegato 2 alla tabella 5)" (relazione della maggioranza alla Commissione giustizia della Camera, on. Vitali, FI, seduta del 20.11.2003).

Inoltre gran parte dell'aumento è assorbito dalla restituzione di somme anticipate dalle Poste. Si legge infatti nella relazione citata: "L'articolo 8, comma 3, autorizza la spesa di 823 milioni di euro, allo scopo di provvedere alla estinzione delle anticipazioni effettuate da Poste Italiane SpA per spese di giustizia fino al 31 dicembre 2002. Per spese di giustizia si intendono le spese che lo Stato deve anticipare, a norma di legge, nei procedimenti civili e penali".

Su 1.463,4 milioni di aumento quindi 823 milioni vanno restituiti alle Poste che le ha dovuti anticipare, a dimostrazione della assoluta insufficienza degli stanziamenti per la giustizia.

Rimangono poco più di 600 milioni di euro, quasi interamente destinati al capitolo di spesa n. 1360 (su 321 capitoli di spesa per la giustizia complessive).

Ma il cap. 1360 riguarda spese "obbligatorie" sulle quali Governo e Ministero non hanno margini di scelta, non possono cioè decidere di non pagare. Si tratta, infatti, di spese per periti, consulenti, testimoni, custodi, giudici popolari, difensori d'ufficio, ufficiali giudiziari, magistrati onorari, trasferte, gratuito patrocinio e intercettazioni telefoniche. E talune di queste spese come quella relativa al gratuito patrocinio e alle difese di ufficio hanno avuto un boom negli ultimi anni, registrando un aumento dell'830 % dal 1995 al 2002 (giungendo ai 44,612 milioni di euro nel solo 2002). Anche le altre "spese non classificabili", come risulta dalla legenda del capitolo, sono comunque obbligatorie, riguardando le spese per estradizioni, traduzioni, notifiche.

Limitati interventi riguardano poi le spese di stenotipia (nove milioni e mezzo, che andranno peraltro in gran parte a coprire il "buco" di spese verificatosi come è noto nel 2003), all'amministrazione penitenziaria (nove milioni e mezzo) all'amministrazione minorile (un milione).

Per il resto la spesa complessiva è rimasta immutata, ma in realtà considerando il progressivo aumento delle spese per il personale, le altre spese correnti sono ulteriormente diminuite. Il Governo insiste, quindi, nella politica del piccolo cabotaggio e del pauperismo che ha caratterizzato la giustizia e la sua gestione in particolare negli ultimi anni. Il che significa semplicemente rinunciare a interventi strategici come potrebbero essere quelli in materia di informatica.

Le ulteriori riduzioni, fra l'altro, incidono su importi già notevolmente ridotti nel 2003 rispetto agli anni passati.

Ad esempio le spese:

     

  • per cancelleria e funzionamento degli uffici da 92,2 milioni di euro del 2002 a 72,9 milioni del 2003 (cap. 1461);
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  • postali e telegrafiche da 20 milioni a 16,2 milioni (cap. 1465);
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  • per manutenzione, noleggio ed esercizio mezzi di trasporto da 6,3 milioni 4,9 milioni (cap. 1466);
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  • per assegni per spese d'ufficio da 18,9 a 15, 4 milioni (cap. 1469);
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  • per custodia, manutenzione e servizi di sicurezza del Palazzo di giustizia di Roma, canoni e servizi diversi da 1,2 a 0,9 (cap. 1470);
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  • per manutenzione e ristrutturazione degli immobili e impianti, compresi di sicurezza, ecc. da 1,8 a 1,3 milioni di euro (cap. 2063: si noti che nel 2001 le spese erano di 2,2 milioni e nel 2000 di 2,4);
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  • per funzionamento della giustizia minorile da 6,2 a 4,6 milioni.
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Gli stanziamenti per la giustizia anche per il 2004 sono quindi del tutto insufficienti, come è dimostrato dalle stesse osservazioni della Commissione giustizia della Camera, che, pur dando parere favorevole sugli stanziamenti, ha chiesto che "si valuti l'opportunità di incrementare le spese volte ad assicurare il razionale funzionamento degli uffici giudiziari, anche attraverso lo sviluppo delle tecnologie info - telematiche, e delle spese dirette ad assicurare effettività all'esercizio di difesa dei cittadini non abbienti". Ma tale osservazione, proveniente dagli stessi parlamentari della maggioranza, non è stata accolta dal Governo.

Nessun ulteriore commento è necessario.

 

5. L'abbandono della scelta europea.

Il processo di democratizzazione e di costituzionalizzazione dell'Unione Europea è stato una delle scelte e speranze che ci hanno accompagnato in questi anni. Va detto che dopo l'approvazione della Carta di Nizza molti segnali contraddittori hanno composto lo scenario politico del vecchio continente, con un equilibrio precario che ha visto purtroppo sempre più prevalere spinte euroscettiche e sovraniste, che sostengono l'impostazione minimalista di una Unione con una dimensione mercantilistica e funzionalistica, e vedono con sfavore il progetto di Europa dei diritti e dei cittadini, e quindi anche della giustizia.

A questa linea oggi prevalente, va pur detto, ha collaborato anche il Governo italiano. Ci atteniamo ai fatti, ed a quelli che ci toccano più da vicino, ovvero ai comportamenti concreti avuti in tema di cooperazione giudiziaria internazionale.

Su questo tema la politica seguita dall'attuale Governo e dalla sua maggioranza ha seguito linee assolutamente coerenti, volte al depotenziamento di qualsiasi strumento atto a favorire l'accertamento dei reati e il contatto diretto fra le autorità giudiziarie dei diversi Paesi.

Come è noto, tutto è clamorosamente iniziato pochi mesi dopo le elezioni quando, cogliendo l'occasione della legge di ratifica del trattato di cooperazione giudiziaria con la Svizzera, colpevolmente lasciato in attesa dalla precedente maggioranza, si è modificata l'intera disciplina delle rogatorie internazionali col non celato scopo di renderle più difficili; ed i tentativi della giurisprudenza di dare un significato razionale alle nuove disposizioni (poi avvalorati dalla Corte di cassazione e dalla stessa Corte costituzionale) sono stati bollati in sede politica e parlamentare come eversivi, come dimostra la nota mozione approvata dal Senato il 5 dicembre 2001 con la quale, per la prima volta nell'intero arco della storia nazionale, un organo legislativo ha sindacato, nel merito, interpretazioni di un testo di legge rese da collegi giudicanti. Già in quei giorni si sono udite incredibili affermazioni circa l'esistenza di una specie di associazione di "toghe rosse europee", aventi lo scopo di danneggiare l'attività del Governo italiano e del suo premier.

Nel dicembre del 2001 vi è stata l'incredibile vicenda del mandato di arresto europeo, quando il nostro esecutivo, prima col Guardasigilli si è opposto alla approvazione di una decisione-quadro da tempo all'esame degli organi comunitari, poi col Presidente del consiglio ha dovuto, obtorto collo, accettare di votare a favore del provvedimento, facendo però inserire a verbale riserve di nessuna consistenza giuridica relative a presunte necessità di modifiche costituzionali ed ordinamentali (separazione delle carriere, discrezionalità dell'azione penale, controllo politico sul P.M), che nulla avevano ed hanno a che fare con il mandato di arresto europeo e sono state sollevate in modo puramente strumentale ed inaccettabile.

Ed ancora la stessa modifica dei reati societari, per la quale pendono due rinvii pregiudiziali avanti alla Corte di giustizia (sollevati dalla Corte di appello di Lecce e dal Tribunale di Milano) si è posta in chiara controtendenza rispetto a tutta la legislazione dei Paesi ad economia sviluppata, orientata nel senso di un maggior rigore per la repressione di illeciti che, come insegna la vicenda Parmalat, sono suscettibili di creare danni economici di rilevantissima gravità alla stesso sistema economico nazionale.

Sul piano dell'attuazione nel diritto interno degli strumenti di cooperazione esistenti, si devono infine rilevare alcune marcate tendenze di fondo, da un lato ad accentrare, in modo del tutto irrazionale ed antistorico, le competenze centrali in capo al Ministro, tentando di introdurre altresì forme di controllo da parte dello stesso sugli uffici del PM e sullo stesso esercizio della azione penale; dall'altro ad una ostinata avversione verso qualsiasi forma di cooperazione giudiziaria transnazionale diretta tra uffici requirenti e giudicanti. Ciò emerge dal testo del d.d.l. relativo ad Eurojust, sino alla esecuzione della decisione quadro sul mandato di arresto europeo, dove sembra quasi che si voglia profittare degli strumenti di cooperazione internazionale esistenti per ottenere risultati in termini di ordinamento giudiziario e di controllo politico sulla magistratura.

Nel frattempo l'immagine del Paese in questo campo, che aveva visto negli anni precedenti l'apporto appassionato e professionale di tanti magistrati italiani, si è appannata sino a diventare oggetto di allarmate domande di chiarimento da parte di colleghi stranieri in ogni sede.

6. Le proposte possibili per una vera modernizzazione.

é interesse di tutti - e soprattutto dei cittadini - cambiare registro, aprendo un confronto sui problemi reali della giustizia: non, dunque, sulla autonomia e indipendenza della giurisdizione della magistratura (capisaldi essenziali e irrinunciabili in qualunque sistema democratico e insuscettibili di soluzioni compromissorie), ma sulla loro concreta attuazione e sui supporti organizzativi del servizio giustizia.

Alla giurisdizione (secondo una tendenza non solo italiana) la società affida sempre più la risoluzione di questioni fondamentali: la tutela della legalità nel settore dell'economia, della finanza e della pubblica amministrazione; la repressione della criminalità organizzata; la tutela - penale e civile - contro le violazioni dei diritti umani; il riconoscimento dei nuovi diritti della persona nei più vari settori (dalla tutela individuale e collettiva dei consumatori a quella del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, dai rapporti familiari di fatto ai conflitti in materia di bioetica), ecc. A fronte di ciò abbiamo sempre ritenuto perdente e controproducente una posizione di conservazione acritica dell'assetto organizzativo esistente: occorre, al contrario, un progetto di rinnovamento, alimentato dall'esperienza e dall'elaborazione culturale degli operatori.

Le direttrici di intervento per una vera innovazione della giustizia sono: selezione del contenzioso e sua canalizzazione, formazione (iniziale e permanente) di magistrati e personale amministrativo, selezione attitudinale, assetto territoriale e organizzazione degli uffici, applicazione appropriata delle moderne tecnologie e in particolare dell'informatica, semplificazione delle procedure con interventi mirati in singoli settori.

Un magistrato colto, specializzato (quando ciò sia imposto dalla natura degli affari che tratta), aperto al confronto garantisce un servizio più rapido e fornisce un prodotto qualitativamente superiore e prevedibile (con recupero di uniformità delle decisioni, disincentivazione del contenzioso inutile e garanzia di parità di trattamento).

Uffici ben distribuiti sul territorio e ben organizzati, nel rispetto dei valori propri della giurisdizione, consentono l'ottimizzazione delle risorse e garantiscono l'integrazione dei diversi fattori che concorrono alla resa del servizio. Un'adeguata dislocazione delle risorse umane e la realizzazione di un ufficio che affianchi il giudice e operi con lui in una collaborazione può moltiplicare le capacità di definizione e la qualità del lavoro giudiziario.

L'informatizzazione, con le sue enormi potenzialità innovative, si è risolta sinora nella creazione dei registri generali e nella mera fornitura a pioggia di personal computer, che in tal modo vengono utilizzati come "macchine da scrivere evolute", senza incidenza significativa sulla gestione complessiva dell'ufficio. Ma i benefici dell'informatica non stanno nella somma dei singoli personal computer, bensì nello sfruttamento di una rete evoluta: e integrarsi in rete non è un processo spontaneo, ma il risultato una buona architettura, di una formazione continua degli utenti, di un costante aggiornamento degli strumenti. Informatizzazione significa, ad esempio, processo telematico, che da sperimentazione di nicchia deve divenire quotidianità, e significa, ancora, rivedere alcune norme procedurali per renderle compatibili con le nuove tecnologie di comunicazione.

Un monitoraggio capillare e costante (tuttora inesistente) delle diverse realtà giudiziarie è, infine, il presupposto fondamentale per individuare i settori che richiedono interventi normativi e per comprendere le ragioni reali delle diversità esistenti tra sede e sede, con conseguente valorizzazione ed esportazione delle esperienze virtuose.

Il quadro politico presenta oggi proposte di radicale controriforma, ad esse va contrapposto un progetto complessivo di reale riforma davvero moderna, innovativa ed efficiente. Progetto complessivo che, a ben vedere, è già presente nella copiosa e ricca elaborazione tessuta in questi anni dal C.S.M., dall'A.N.M., da M.D.

Non è questa la sede per esprimere compiutamente un tale progetto, ma la scheda allegata dimostra, sia pure per titoli e con riferimenti a documenti ed elaborati, come già oggi vi siano i tratti essenziali di una proposta articolata sulla giustizia che può essere offerta come contributo al confronto.

7. Le nostre pecche.

Sia chiaro che non crediamo affatto di essere la migliore delle magistrature possibili e, proprio perché coltiviamo il dubbio per mestiere, siamo sempre pronti a metterci in discussione e non contestiamo a nessuno il diritto di criticare le nostre decisioni.

Ma rifiutiamo la denigrazione gratuita e la mistificazione della realtà, l'idea che i nostri provvedimenti siano criticati senza neppure essere letti e utilizzati strumentalmente per minare la fiducia dei cittadini nella giurisdizione.

Nessuno di noi pensa che la magistratura italiana non abbia pecche ed insufficienze. Il fatto è che oggi veniamo attaccati non per le nostre colpe, ma per i nostri meriti.

Le pecche che esistono non sono i cosiddetti "errori giudiziari" che una campagna mediatica pericolosa quanto disonesta sta denunciando a tappeto, trasformando ogni assoluzione, ogni differente interpretazione o valutazione dei fatti in un "errore giudiziario".

Chi viene in particolare attaccato sono valorosi colleghi che hanno avuto come unica colpa prendere sul serio il principio che la legge è eguale per tutti e hanno cercato di condurre indagini o di celebrare processi. Nulla è successo invece a chi ha assecondato l'inerzia.

Sono stati messi sotto procedimento disciplinare colleghi tra i più laboriosi e produttivi, solo per avere depositato poche sentenze in ritardo, o che hanno inviato e.mail (ovvero corrispondenza privata inviolabile) critici o ironici nei confronti di esponenti del Governo, ma non ci risulta che si sia mai proceduto disciplinarmente contro magistrati accusati di fatti gravissimi quale la corruzione in atti giudiziari.

I luoghi comuni che addebitano alla scarsa laboriosità dei magistrati ( che hanno avuto un incremento di produttività dal 1999 al 2002 del 29 % nel primo grado e del 96 % in appello) i tempi della giustizia e alla mancanza di imparzialità l'esito di sentenze il cui esito ( ad alcuni) non è piaciuto, sono semplicemente falsi.

Ma sappiamo tutti che vi sono casi di magistrati che non onorano il loro ruolo con un sufficiente impegno e che vi sono magistrati ( pochi per fortuna) conniventi con centri di potere.

E che non vi è stata la capacità del sistema di autogoverno ( che parte dal singolo magistrato ed arriva al C.S.M.) di intervenire con la necessaria tempestività.

Conosciamo le tentazioni corporative che spesso confondono principi inalienabili con la semplice comodità dei singoli.

Ogni giorno cogliamo lamentele sull'organizzazione e la gestione di troppi uffici.

Anche se questo momento difficile stimola a mettere in sordina questi episodi, l'arroccamento è la risposta sbagliata.

Dobbiamo avere la forza di chiedere a noi stessi, ai nostri organi associativi e istituzionali di essere
un esempio virtuoso di efficienza, equità e correttezza e di non tollerare insufficienze ed inadeguatezze.

Dobbiamo chiedere al Consiglio, anche in questo momento, di tutelare l'immagine della magistratura, in primis nei confronti di chi al nostro interno la danneggia e di dimostrare che, anche a normativa invariata, molto si può innovare in due settori chiave come le valutazioni di professionalità e la formazione e selezione dei dirigenti degli uffici giudiziari.

8. Contrapporre un progetto ed una speranza.

Tutti cogliamo i segnali di un Paese in crisi. Lo avvertiamo anche nel nostro settore, la giustizia. Lo viviamo nelle leggi ad personam, nella torsione di norme e discipline per risolvere singoli casi e procedimenti, nella menomazione quotidiana dei principi costituzionali dell'eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e della solidarietà.

Lo avvertiamo nelle scelte del Governo che condannano la giustizia ad una rapida decadenza, che in diverse realtà è già diventata quotidiana difficoltà a celebrare i processi ordinari.

Ma ciò che è ancora più grave sono i "guasti dell'anima", come  li ha definiti Franco Cordero, ovvero quelle modifiche profonde provocate nel costume e nei comportamenti, anche quotidiani, secondo cui la legalità non è più un parametro di civiltà, ma un ostacolo da superare o aggirare, un limite negativo, mentre la forza è l'unico valore cui la legge ed i diritti (degli altri) debbono inchinarsi.
I guasti provocati da leggi sbagliate sono gravi, ma rimediabili; i guasti dell'anima sono più profondi e difficili  da curare e, se non vi sarà da parte di tutti una risposta che si traduce in comportamenti virtuosi frutto di consapevolezza culturale, potrebbero essere necessari decenni per rimediarvi.

Ma la decadenza ed il declino non possono essere subiti senza reagire e quanto sta accadendo di negativo non è ineluttabile.

I fatti sono più forti della volontà o delle pretese delle maggioranze contingenti.

Si può negare che nel nostro paese ci sia stata e ci sia tuttora un'allarmante livello di corruzione, ma i costi che la corruzione impone al sistema delle imprese, specie in un contesto di concorrenza europea, torneranno ad essere intollerabili e ad imporre interventi radicali al riguardo.

Si può proclamare la necessità di convivere con una feroce criminalità organizzata, ma è la stessa condizione di sottosviluppo, di disincentivo agli investimenti, di insicurezza sociale che riproporranno forme di ribellione civile.

Si possono approvare e proporre leggi per teorizzare la libertà delle imprese da ogni regola, ma la richiesta di giustizia di migliaia di risparmiatori e lavoratori truffati da disinvolte condotte di imprenditori non potrà restare a lungo senza risposte.

Si possono insultare quotidianamente in termini sempre più volgari singoli magistrati e la stessa funzione giurisdizionale e mortificare la giurisdizione, ma ciò non basta ad occultare che l'espansione della funzione giudiziaria è fenomeno che ha radici strutturali nelle moderne democrazie occidentali ( come l'esperienza dei paesi a noi vicini dimostra).

Il presente può apparire fosco, ma sono le stesse esigenze di sviluppo del Paese, le stesse tendenze di fondo della democrazia a evidenziare già oggi segni in senso contrario a controriforme e a pulsioni autoritarie.

Non siamo soli, come qualcuno ha detto.

Non possiamo dimenticare che senza alcun nostro coinvolgimento o attivazione non più tardi di un anno e mezzo fa più di mezzo milione di persone si sono trovate a manifestare per protestare contro la legge Cirami e a favore di una giustizia davvero eguale per tutti ( fatto senza precedenti nella storia italiana).

E ciò è avvenuto perché la magistratura italiana ha saputo dare a molti l'immagine ed il messaggio di essere una magistratura seria, con la dignità e l'orgoglio di svolgere con indipendenza il proprio ruolo.

Su questo terreno dobbiamo continuare senza stancarci di informare e spiegare, anche a fronte di una vera e propria censura di alcuni mass media, la realtà dei fatti e le argomentazioni della ragione.

I nostri naturali alleati sono gli altri operatori del diritto: gli avvocati, i magistrati onorari, l'università ed il personale amministrativo con cui tutti i giorni lavoriamo.

Quanto al personale amministrativo e ai suoi sindacati dobbiamo lavorare per superare diffidenze ed incapacità di rapporti: i problemi che loro avvertono ( dalla scopertura degli organici alla mancata riqualificazione) sono i nostri.

Quanto all'avvocatura, dopo un lungo periodo di difficoltà e di incomprensioni, si avvertono, pur nel permanere di divergenze su punti specifici, sintomi positivi: certo ci sono state iniziative anche recenti di associazioni forensi ispirate da ostilità o volontà di differenziarsi dai magistrati ( quali gli ultimi scioperi dell'Unione camere penali e la strumentalizzazione del Convegno dell'AIGA sugli incarichi extragiudiziari); ma è altrettanto vero che tutte le associazioni forensi si sono espresse con grande preoccupazione sulla controriforma e che tra gli avvocati comincia a serpeggiare l'allarme per la decadenza provocata nel sistema giustizia, la mancanza di un progetto, il tradimento delle promesse fatte, il pericolo che il piccolo cabotaggio diventi declino inarrestabile ( mi riferisco in particolare ai documenti 9 aprile 2003 dell'O.U.A., 2 aprile 2003 dell'AIGA, 26 gennaio 2004 dell'Unione Camere Penali e a ripetute dichiarazioni del Presidente del Consiglio nazionale forense).

Dobbiamo avvertire tutti la forte responsabilità che oggi portiamo di fronte ad una minaccia di decadenza della giustizia. Il problema non è di categorie, ma del Paese e della qualità della democrazia. Il rischio è di relativizzare, per poi annullare, i diritti, di ostacolare l'accesso alla giurisdizione, di non garantire un pubblico ministero indipendente ed un giudice imparziale. La lotta per il diritto e per i diritti e per una giustizia degna ed adeguata può e deve unirci ( mettendo tra parentesi quanto oggi ci divide).

Questo Congresso deve lanciare su questo piano una proposta chiara di unità e di mobilitazione comune alle organizzazioni sindacali del personale amministrativo, alle associazioni forensi, alla magistratura onoraria e alla cultura giuridica.

Da parte nostra siamo già in clima di mobilitazione.

Non è questa la sede per parlare di tempi e modalità delle iniziative di protesta, ma credo vada rimarcato come per la seconda volta nel giro di due anni costringono i magistrati italiani a parlare di sciopero ( cioè della forma di lotta tradizionalmente e simbolicamente considerata la più dura e alla quale ci accingiamo consapevoli del suo effetto dirompente).

Siamo costretti alla mobilitazione e siamo costretti allo sciopero.

La mobilitazione e la protesta sono necessarie per lanciare l'ennesimo appello agli uomini di buona volontà di tutti gli schieramenti a confrontarsi sui fatti.

Siamo convinti che le ragioni che avanziamo che si nutrono dell'esperienza e dell'elaborazione di decenni, in larga parte condivise dall'università e dall'avvocatura, possano affermarsi e trovare riscontro, ma per fare ciò siamo costretti a dirlo con forza e decisione.

E siamo altrettanto convinti di avere un obbligo morale di testimoniare sino in fondo la totale contrarietà della magistratura ad una controriforma devastante e a un declino inaccettabile e di rappresentare a tutti quali saranno le conseguenze deleterie di tale controriforma sul servizio.

La Costituzione ci assegna un ruolo istituzionale che ci impone un alto senso di responsabilità nei confronti della collettività. Nessuna rassegnazione, nessun abbandono di tensione, nessuna sciatteria è possibile: è nei momenti difficili che si deve svolgere fino in fondo e con orgoglio il proprio ruolo.

Cercheremo di farlo.

Venezia, 5 febbraio 2004

06 02 2004
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