Il processo - Tempi e scopi


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Leonardo Grassi

Principio accusatorio, impugnazioni, ragionevole durata del processo:
una riforma necessaria
Sasso Marconi, 12-13 dicembre 2003

Intervento del dr. Leonardo Grassi

Il processo
Tempi e scopi

Già Amleto, nel celebre monologo, annoverava le lungaggini dei processi fra le cose che rendono tediosa la vita.
Il problema della eccessiva durata dei processi, insomma, non è solo di oggi.
La lentezza, forse, è in qualche modo connaturata alla stessa idea di processo e solo in momenti di estrema tensione, quali le rivoluzioni o i colpi di stato, il processo diviene veloce, a volte tanto veloce da perdere i suoi connotati essenziali.
Satta, nel suo "Il mistero del processo", ci ricorda un editto della Convenzione proposto da Robespierre per cui "se un processo si prolunga per tre giorni, il presidente aprirà la seduta successiva chiedendo ai giudici se la loro coscienza è sufficientemente rischiarata. Se i giudici rispondono di si, si procederà a sentenza"
Ma quali sono le cause profonde della la lentezza dei processi?
La ragione ci dice che il processo dovrebbe essere un percorso di conoscenza teso alla ricomposizione della lesione sociale prodotta dal reato e ci dice che la conoscenza del fatto e le conseguenze di condanna o di assoluzione che da questa si traggono dovrebbero seguire al reato nel tempo pi breve possibile. Ci dice, infine, che il processo dovrebbe essere uguale per tutti, nel senso che chiunque, umile o potente che sia, abbia di fronte alla legge processuale le medesime possibilità.
Ma il processo razionale e di ragionevole durata non è altro che un'utopia, come è dimostrato ad esempio dall'attuale diritto processuale italiano.
Il processo infatti non è - o per lo meno non è sempre e soltanto - la ricerca del vero resa urgente dalla necessità di ricomporre i torti; esso, se non altro, aggiunge al suo scopo primario la funzione, altrettanto essenziale, di concorrere alla produzione o alla distruzione di valori e simboli di una comunità data. Significativi a tal proposito sono, scegliendo le esemplificazioni in una casistica vastissima, il caso Tortora, il caso Muccioli, i processi di tangentopoli, i maxiprocessi per mafia ecc.). Ciò accade con particolare evidenza in epoche di transizione, connotate da valori instabili o contraddittori.
Nella manipolazione di tali materiali sensibili, il processo non è pi teso "semplicemente" alla ricerca del vero (non a caso nel c.p.p. del 1989 non è riprodotta la norma del primo comma dell'art. 199 c.p.p.1930 per la quale il giudice istruttore doveva compiere tutti gli atti necessari per l'accertamento della verità), bensì diviene strumento di ricerca - per usare un'espressione mutuata dagli studiosi di filosofie orientali - di un equilibrio dinamico fra vero e falso, fra bene e male, fra realtà e illusione.
Non a caso prevalgono, nel fluire del processo, ora una verità, ora un'altra, ora una dichiarazione di condanna, ora di assoluzione.
Fintanto che non si giunge ad una statuizione definitiva i giochi rimangono aperti, nessuna aspettativa viene frustrata.
Finch il processo dura rimane aperta la possibilità di modulare la verità che da esso scaturisce sulle aspettative dell'opinione pubblica, sul comune sentire del momento, sulle esigenze e sulle ragioni contingenti del potere, e ciò anche quando i giudici godano di un adeguato livello di indipendenza dal potere politico, perch per quanto indipendenti possano essere, anche i giudici sono inevitabilmente sensibili allo spirito dei tempi e sono naturalmente portati ad adeguare a questo la loro giurisprudenza. Si pensi, ad esempio, all'evoluzione in questo decennio della giurisprudenza in materia di dichiarazioni dei collaboranti e di prova logica.
I tempi della ricerca che si compie nel processo, insomma, sono determinati da una molteplicità di fattori, molti dei quali estranei allo scopo dichiarato, allo scopo razionale, del processo stesso.
Ciò assume la massima evidenza nel processo politico, ma in un certo senso tutti i processi sono "politici", cioè espressione dei poteri che in esso si confrontano.
In generale, la celerità o la lentezza dei processi (e si va dai tre giorni di Robespierre ai vent'anni del processo per Ustica, non ancora concluso in primo grado) dipendono dall'ambiente politico - culturale in cui il processo è celebrato, dalla rilevanza del singolo processo rispetto a tale ambiente ed infine dalla qualità e dal rango dei soggetti in gioco.
In generale, inoltre, si può notare che la correttezza degli esiti del processo non è proporzionale alla sua durata ed alla complessità delle procedure. Un processo lungo non è garanzia di un processo giusto n di una decisione esatta.
Esiti ineluttabili, già predeterminati al di fuori del confronto processuale, possono venire raggiunti nella formale osservanza di procedure lunghe ed involute.
Ad esempio, che K. dovesse essere giustiziato era già scritto, eppure la sentenza nei suoi confronti viene pronunziata solo dopo un'interminabile rituale celebrato nel segreto del tribunale.
Sempre in generale, si può affermare che eccessiva durata e complessità sono gli strumenti attraverso i quali il processo devia dai suoi scopi dichiarati.
Quel diritto processuale che delinei una procedura che può dilatarsi a dismisura e nella quale si annidino inutili elementi di complessità, quello italiano, ad esempio, cessa di essere un semplice prontuario di ciò che si può e di ciò che non si può fare per accertare la verità e diviene uno strumento di gestione di quell'equilibrio dinamico fra bene e male, fra vero e falso, fra realtà ed illusione di cui dianzi si è parlato. Pi banalmente, il processo regolato da un siffatto diritto diviene luogo di intersezione dei poteri in gioco (ad es. il poteri della polizie, dei difensori, delle vittime del reato, degli imputati, dell'opinione pubblica, delle parti politiche ecc.)e luogo in cui le diseguaglianze fra tali poteri vengano riconosciute, e semmai amplificate, affinch ciascuno, infine, esca dalla scena processuale in modo consono al proprio rango, al proprio censo ed al proprio potere sociale: suum cuique tribuere.
Sembra essere ineluttabile che la giurisdizione penale sia il luogo dell'imprevedibilità, ove tutto è possibile e tutto è derogabile, come nel "Processo" di Kafka. Un luogo in cui i semplici naturalmente soccombono, ma dove chi conosce i meccanismi, per usare le parole di Kafka, può conquistarsi "l'assoluzione" o, se non altro, la "procastinazione"...
La magistratura, tuttavia, almeno in Italia, non sembra avere sufficiente capacità di adattamento alla gestione in questi termini del processo penale e, almeno in suoi ampi settori culturali, normalmente indicati in ricorrenti campagne di opinione con termini spregiativi quali "giudici politicizzati", "toghe rosse" ecc., persiste ad aderire ad obsoleti valori di eguaglianza. Di qui gli attacchi che ormai da tempo subisce da parte del potere politico.
Si è detto che il processo razionale è celere, garantito, uguale per tutti. Ma ciò ovviamente se si resta nell'ambito di una razionalità di tipo illuministico guidata del principio di eguaglianza, principio che nella società globalizzata si è affievolito (Bauman, "La società individualizzata") e si stempera nella attuale forma statuale, definita da taluno come "post democratica".
Quando in luogo del principio di eguaglianza si assumano altri valori di riferimento e si mettano in gioco nel processo istanze pi oscure ed equivoche di quella del "semplice" accertamento della verità nell'osservanza di certe garanzie, ci si rende infine conto del valore della "procrastinazione" e degli strumenti che la consentono.
Se davvero si fosse voluto un processo in cui snellezza e garanzie si coniugano, certo la cultura giuridica avrebbe trovato le forme adeguate per realizzarlo.
Ma si è voluto altro.
Si è voluto un sistema complesso, duttile ed elusivo, di durata imprevedibile, articolato in una molteplicità di riti differenziati e di sub procedure che, come già si è detto, possa assicurate a ciascun imputato una decisione consona al suo rango e al suo potere sociale.
Anche l'art. 111 della Costituzione, così come riformato, pur contenendo un riferimento alla ragionevole durata del processo, non contraddice questa conclusione. Esso, infatti, in molte parti è norma sin troppo meticolosamente precettiva; con riguardo alla durata del processo, invece, rappresenta una semplice enunciazione di principio, neppure dotata di forza programmatica, almeno a considerare le scelte effettuate dal legislatore in materia processuale successivamente alla sua entrata in vigore.

Le impugnazioni
In particolare sull'utilità dell'appello

Una delle principali cause della eccessiva durata del processo, ovvero, per dire la stessa cosa sotto un diverso angolo prospettico, uno dei principali strumenti per conseguire il risultato di un processo lento costoso e complesso, è il sistema delle impugnazioni.
Il potere di punire (ed il simmetrico potere di perdonare) si snodano, nel sistema vigente in Italia, in una procedura che, iniziata col promovimento dell'azione penale e proseguita con la fase delle indagini, conosce i passaggi dell'udienza preliminare, del primo grado, dell'appello, della Cassazione, della fase di esecuzione ed infine della sorveglianza.
La procedura dura frequentemente oltre dieci anni e di norma richiede l'intervento di circa trenta magistrati (se si tiene conto anche di quelli impegnati nella sub procedimento in tema di libertà). L'esecuzione dell' eventuale condanna di regola avviene dunque ad un tempo interminabile dal fatto, tempo costellato da istanze, ricorsi, impugnazioni.
In questo contesto, il sistema delle impugnazioni, complessivamente inteso, assolve una serie eterogenea di funzioni:
1) rimeditare e se del caso correggere la decisione del giudice sotto ordinato;
2)tendere all' omogeneità e costanza delle decisioni;
3)distanziare temporalmente la sentenza definitiva dal fatto;
4)contribuire a rendere complessa la procedura;
5)eludere per quanto possibile quell'idea di definitività tanto temuta dalla società contemporanea.
Come si vede si tratta di funzioni ragionevoli (le prime due), ambigue (la terza) ed infine "indicibili" (la quarta e la quinta), che convivono e si intrecciano, ciascuna delle quali assume un rilievo diverso a seconda del momento storico e del contesto socio politico in cui si prende in considerazione la questione.
Il sistema delle impugnazioni, inoltre, nel nostro ordinamento e in ordinamenti analoghi, coerentemente alla propria origine storica, è correlato ad una struttura gerarchizzata della magistratura, ad una magistratura nella quale vi è un giudice superiore ed un giudice inferiore; l'opposto, insomma, di quella magistratura distinta solo per funzioni voluta dagli artt. 101 e 107 della Costituzione.
In forza del dettato costituzionale il sistema attuale è fondato sull'egualitarismo e sulla distinzione dei giudici esclusivamente per funzioni, senza gerarchie interne. E' stato notato che "tutte le funzioni giurisdizionali sono egualmente delicate e tutte incidono sulla libertà personale, sull'onore, sui beni, sull'attività lavorativa, sulla vita famigliare dei cittadini" e che la decisone di un giudice d'appello non è per definizione qualitativamente migliore di quella del giudice di primo grado.
La distinzione fra giudici per funzioni, in particolare per funzioni di merito e di legittimità, ha un senso nel sistema attuale. In un sistema in cui il magistero penale viene esercitato da tecnici, tenuti a conoscere e ad applicare la norma secondo un insieme di regole ermeneutiche, il ricorso per cassazione ha una sua funzione razionale di verifica della corretta applicazione della legge.
Certo nel sistema processuale italiano la cassazione è divenuta una sorta di terzo grado di merito (o quarto, a tener conto dell'udienza preliminare), ma almeno da un punto di vista teorico ha una sua solida ragion d'essere: correggere l'errore di applicazione della legge e svolgere una funzione nomofilattica grazie alla persuasività e autorevolezza delle sue decisioni.
Che ciò ora non avvenga, che ora vi siano contrasti anche fra le decisioni delle sezioni unite fa parte della patologia del sistema, ma non intacca, almeno in astratto, il senso della funzione di legittimità.
Diverso è il discorso per l'appello.
Il lavoro del giudice d'appello, infatti, è identico a quello del giudice di primo grado, anzi, attualmente, nel nostro ordinamento, di norma è meno approfondito in quanto il giudice di primo grado lavora sulle prove che si formano sotto i suoi occhi nel contraddittorio fra le parti, mentre i giudice d'appello fa una verifica per lo pi solo documentale dei materiali raccolti in primo grado.
Al di fuori di una concezione gerarchia della magistratura, dunque, nella quale il superiore pi sapiente, corregge l'inferiore meno sapiente, l'appello non ha alcuna ragion d'essere.
Inoltre il doppio esame di merito frequentemente produce pericolosi corto circuiti nel sistema giudiziario. Ne sono vistoso esempio, indipendentemente dagli esiti assolutori o di condanna, moltissimi processi di grande rilievo quali i processi per le stragi di Bologna (Italicus, Stazione e processo dei depistaggi), il processo Tortora, il processo Muccioli, vari processi per mafia ed infine i processi Andreotti.
In tutti questi casi il primo ed il secondo grado hanno avuto esiti contraddittori e ciò ha comportato polemiche, discredito per i giudici e per l'intero sistema e, infine, comunque, una maggiore fragilità della decisone definitiva nella valutazione dell'opinione pubblica e una sua minore autorevolezza. Il condannato potrà sempre proclamare di essere stato in precedenza assolto e l'assolto soffrirà comunque dell'ombra di una sentenza di condanna.
Ma il sistema preferisce il rischio del discredito alla perdita di flessibilità che comporterebbe la soppressione del doppio giudizio di merito.
Il giudizio d'appello aggiunge infatti alla procedura un tempo che va da un minimo di tre anni ad un massimo di oltre dieci ed è perciò particolarmente utile per conseguire quel risultato che Kafka definisce della "procrastinazione".
Grazie all'appello la tanto temuta definitività viene rinviata nel tempo e in caso di giudizi difformi assume un valore meno perentorio. Il giudizio anche se definitivo, viene in qualche modo relativizzato.
A questo punto è evidente che i destini dell'appello sono legati ad una scelta di fondo.
Se si intende depurare il processo di tutto ciò che favorisce le sue funzioni pi ambigue e ridurlo ad uno strumento equo e razionale, l'appello andrà ridisegnato, limitato ad alcuni casi eccezionali od addirittura eliminato dal sistema. Se invece le funzioni ambigue del processo che prima abbiamo delineato sono da ritenersi necessariamente connaturate allo ius dicere e vanno perciò tenute presenti nella produzione delle leggi e nelle prassi, l'appello andrà considerato come uno strumento essenziale per la pratica della giurisdizione penale.

26 12 2003
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