di Pier Luigi Zanchetta - congresso nazionale
L’affermazione, utilizzata come titolo di questo congresso, - La forza dei diritti -, presa in s ed isolata dal contesto, è una contraddizione in termini. I diritti, in quanto tali, non hanno una loro forza: sono un enunciato, un concetto, una convenzione; sono il faticoso risultato di una secolare ricerca politico-culturale, il prodotto artificiale di una data società, che – lasciato a se stesso – termina il suo viaggio, iniziato nella mente umana, in un testo scritto. Eppure, nonostante questa intrinseca debolezza, viene affidato loro un compito immane: entità immateriali, sono destinati a contrastare una solida, corposa – questa sì, molto materiale - realtà di disuguaglianza e non libertà, a modificare lo spontaneo e naturale andamento delle vicende umane, a rendere equi i rapporti, che legano inevitabilmente gli individui, animali politici, cioè socievoli, per natura, come diceva il filosofo. Sono cioè destinati a ridefinire la distribuzione del potere tra gli attori della società, quando non si spingono ad assegnare a qualcuno un potere mai goduto: potere sociale, economico e - direttamente o indirettamente – politico. Non occorre certo evidenziare come questa operazione, se attuata, sia tutt’altro che indolore: assegnare diritti a qualcuno (o rinforzare gli stessi) significa diminuire, limitare il potere già dato ad un altro; gli istituti dell’habeas corpus fanno venir meno l’onnipotenza del sovrano, i diritti dei lavoratori limitano la naturale potestà dei datori di lavoro, ecc. Merita peraltro aggiungere che questa redistribuzione si realizza non solo con l’assegnazione o meno dei diritti sociali, civili, politici, ma anche con la scelta su cosa, quanto e come reprimere penalmente.
La forza dei diritti, cioè l’apparato e la strumentazione per realizzare l’immane progetto che li presuppone, sta in primo luogo nella politica, sia quella istituzionale, sia quella partecipata, quella dei cittadini, che si aggregano, esprimono idee, lanciano proposte. La politica è progettualità e realizzazione, di norma, rivolta al futuro e nei confronti della generalità dei conosociati; la forza dei diritti sta anche nella magistratura, che però provvede rivolta al passato e sui singoli casi, dunque in via sussidiaria a fronte di una violazione del quadro normativo – sia di carattere costituzionale, sia di legge ordinaria – già definito.
Nel suo menzionato carattere sta il primato della politica, primato che non significa possibilità di esprimere un potere ab-solutus, incondizionato. Una democrazia costituzionale non tollera un tale potere. La sovranità è sempre condivisa; lo stesso popolo, cui essa appartiene in base all’art. 1 Cost., la esercita, come sottolineò Ferrajoli in un suo scritto, “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Tantomeno il primato della politica può essere confuso in un supposta supremazia del potere legislativo su quello giudiziario, come opina in modo puerile ed antistorico, in una sorta di neo-giacobinismo,il ministro Castelli.
Soprattutto per i limiti – limiti, sia chiaro, per la maggior parte voluti, piuttosto che imposti – della politica i diritti ora non godono di buona salute.
Clamorosa è la sofferenza del diritto internazionale: è il caso paradigmatico di diritto nudo, senza forza, perch flebile è la politica e praticamente inesistente la giurisdizione. Non è il caso qui di ricordare il ruolo ormai subordinato dell’ONU, incapace/impossibilitato non si dica a dirigere la politica internazionale, ma neppure a formulare una proposta autonoma rispetto agli Stati Uniti d’America. N occorre impiegare tempo a ricordare come questi siano legibus soluti. Rifiutano ogni giurisdizione internazionale, a partire dalla Corte penale internazionale, ma si arrogano il diritto di decidere chi sono buoni e cattivi: insomma, come dice Chomsky, svolgono il ruolo di poliziotto, pubblico ministero, giudice, esecutore della sentenza. Sotto gli occhi di tutti è la violazione del diritto con la scelta della guerra, “umanitaria” o “preventiva” che sia. Come magistrato, vorrei soffermarmi su un caso del pi specifico campo giurisdizionale: i prigionieri a Guantanamo. La III Convenzione di Ginevra in materia di costituzione del tribunale giudicante pone, tra il resto, il principio in base al quale un prigioniero di guerra deve essere sottoposto agli stessi tribunali, cui sarebbe sottoposto per lo stesso reato un membro delle forze armate del paese detentore. Invece per gli internati di Guantanamo, di cui peraltro si ignora lo status che ne giustifica la detenzione, Bush ha previsto per l giudizio, quando e se ci sarà, una corte ad hoc – con buona pace del principio del giudice naturale..- e procedura particolare con gravi limiti al diritto di difesa.
Sul piano interno la relazione di Claudio Castelli ha illustrato a sufficienza la sofferenza dei diritti a svolgere quella funzione riequilibratrice, cioè egualitaria, assegnata loro dalla Costituzione.
Si sta affermando una politica, che esprime tutta la voglia di neoliberismo, tesa a riaffermare il primato anche sul piano giuridico di chi è al vertice e nelle parti alte della piramide sociale: meno vincoli, cioè meno regole, meno tasse, cioè pi tagli alla spesa sociale. Grazie alla legge finanziaria appena approvata, soprattutto tramite l’azione, indirettamente imposta, di regioni ed enti locali, ci sarà un ridimensionamento dei diritti sociali. Così una fetta di potere economico è sottratta ai soggetti deboli. Di pari passo si programma una riorganizzazione del mercato del lavoro, che avanza in un solco peraltro già tracciato dal centrosinistra: la flessibilità del lavoro come atomizzazione dei rapporti contrattuali con nuove separazioni di categorie, settori produttivi, individui. Nuove divisioni si affermano così, dopo che quelle vecchie erano state faticosamente ricomposte, in particolare dal movimento sindacale negli anni ’70. in tal modo la bilancia del potere sociale torna decisamente a pendere verso gli iscritti alla Confindustria ed affini. Nel contempo, causa la nota anomalia italiana, lo stato di sofferenza si propaga ad alcuni diritti civili e politici.
Il diritto di manifestazione del pensiero, inteso in quella estesa dimensione delineata dalle pronunce della Corte costituzionale, è compromesso dalla concentrazione in poche mani – essenzialmente due – dei mezzi di comunicazione; questa concentrazione e l’inquinamento della vita politica determinato dal conflitto di interessi pongono seri problemi ad un corretto confronto politico, a sane competizioni elettorali.
A questa operazione di travaso di potere dal basso verso l’alto, per meglio dire: di travaso dal basso verso l’alto di quel poco potere che si era faticosamente installato in basso, contribuisce la politica criminale, specificamente la legislazione penale, di questi anni. Infatti il pretesto per una politica penale essenzialmente rivolta verso il basso è stato l’affermato senso di insicurezza dei cittadini, alimentato dagli imprenditori della paura a dispetto dei dati statistici sulla criminalità e stranamente scomparso dai titoli di testa dei mezzi di comunicazione proprio all’indomani della vittoria del centrodestra nelle ultime elezioni politiche. Dopo un ventennio, nel quale ci si è sforzati di non far volare solo gli stracci nelle aule giudiziarie, da qualche anno si è percorsa una strada che conduce a quella che sempre pi appare come una giustizia di classe, che esalta, anzich attenuare le anche qui naturali disuguaglianze tra soggetti forti e soggetti deboli. I reati di questi ultimi sono a struttura semplice, spesso giudicabili con rito direttissimo; quelli dei colletti bianchi – quando i reati sono mantenuti come tali - sono per loro natura pi complessi, necessitano di indagini laboriose, facilmente ostacolate dal preventivo comportamento degli indagati o da una attenta e robusta difesa. Un diritto penale degno della nostra Costituzione dovrebbe tener conto di ciò, al fine di poter egualmente ed efficacemente reprimere ogni comportamento socialmente dannoso, e pertanto adeguatamente perseguito dalla legge penale. Invece non solo assistiamo a processi a due marce a seconda delle tipologie di reato, ma soprattutto al tentativo di rendere ancor pi difficili i procedimenti già difficili, come ha clamorosamente evidenziato la legge sulle rogatorie. E la nuova tavola sanzionatoria accentua questa difficoltà fino a spingerla ai limiti dell’impossibile. Così da un lato si sono aumentati, grazie al governo dell’Ulivo, i minimi edittali per il pi classico dei delitti del primo tipo, il furto; in compenso il governo Berlusconi ha ridimensionato il falso in bilancio, un classico reato dei galantuomini, rendendone praticamente impossibile la persecuzione, grazie alla perseguibilità a querela di alcune fattispecie ed alla rapida prescrizione per le ipotesi residue. In tal modo un furto in appartamento è sanzionato pi gravemente di un ipotetico italico caso Enron.
Questa realtà si sposa,in perfetta coerenza, con l’attacco alla magistratura. In ogni latitudine e in ogni tempo una magistratura degna di questo nome vive in una fisiologica sofferenza, in una tensione istituzionale, che nasce dalla funzione di giudicare. E' un potere debole il giudiziario e in questo troviamo un parallelismo con il carattere del suo strumento di lavoro, il diritto: come segnalava già Hamilton nel Federalista, esso “non ha n la borsa, n la spada”. Inoltre non ha, non deve avere, a suo sostegno la forza di una maggioranza: si deve giudicare nel nome del popolo, ma il popolo, n direttamente, n indirettamente, deve giudicare. E quando lo ha fatto ha di solito combinato guai, come dimostra il processo a Ges.. Aldilà degli aspetti formali, la legittimazione del magistrato si afferma giorno per giorno con una generale accettazione del suo ruolo, in quell’osmosi di sentire tra il suo operare e la società, che Salvatore Mannuzzu ha definito “consonanza con la Repubblica”. In questa tensione tra dominio della volontà popolare e necessità di uno jus dicere necessariamente sottratto a questo dominio opera ogni magistratura. La tensione si fa tanto pi forte, quanto pi una società non è coesa o laddove alla magistratura è assicurato un effettivo stato di indipendenza ed autonomia: tanto pi, come nel caso italiano, quando i due fattori si accoppiano. Viviamo ora in Italia uno di quei momenti ciclici, in cui tutta la magistratura nel suo complesso è attaccata. L’ultimo attacco pare sempre il pi pericoloso, ma non dobbiamo perdere la memoria. A ben pensarci, forse quello attuale non è l’attacco peggiore: non dimentichiamo, ad esempio, l’isolamento in cui ci venimmo a trovare nel 1987 con il referendum sulla responsabilità civile o i pesanti condizionamenti subiti negli ultimi anni della presidenza Cossiga con la messa in discussione dello stesso Consiglio superiore della magistratura. L’attuale campagna contro la magistratura si caratterizza per essere subdola: ad essa è funzionale l’inefficienza del ministro Castelli, con il suo non provvedere, il lasciare che l’intera macchina giudiziaria si deteriori ulteriormente. E' inoltre particolarmente virulenta, con la grave e infamante accusa, rivolta praticamente a tutti i magistrati, di essere asserviti ad un disegno politico. Ma soprattutto la caratterizza il fatto di essere guidata da una volontà ben decisa – perch spinta da necessità personali ? - a stravolgere l’attuale assetto ordinamentale, e non solo a far abbassare la cresta a qualcuno. Peraltro la nuova realtà, come emerge dal proposto nuovo ordinamento giudiziario, ci proietta verso il passato, quando, notoriamente, si rendeva meglio giustizia. Centrale è, come al solito, la questione del controllo e al riguardo si sommano due strategie. Tramite il ripristino della carriera, l’assegnazione di ruolo di vertice alla Cassazione, la rivalutazione delle funzioni dei dirigenti, in una parola la gerarchizzazione si ripropone quel controllo interno, condotto dagli stessi vertici, tipico degli anni ’50 e ’60. Ad esso si aggiunge un controllo esterno, tentato negli anni ’80, tramite la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri e la costante delegittimazione.
Peraltro non possiamo nasconderci che la necessaria difesa del ruolo della magistratura può scivolare nel – o apparire come – corporativismo. Il nostro primo compito è quello di esaltare e mostrare il carattere funzionale del principio della indipendenza, il suo essere servente agli interessi dei cittadini. E tanto pi riusciremo in questo compito quanto pi saremo presenti nella società civile a discutere, criticare, avanzare proposte per sollecitare e rafforzare una politica a difesa dei diritti. In questi ultimi tempi ci siamo occupati molto di noi; era inevitabile, dal momento che lo abbiamo fatto proprio quando e perch tutti – e molti a difesa - si occupavano di noi. Ora è per noi necessario rafforzare ed ampliare quei rapporti con l’esterno, che hanno caratterizzato da sempre il nostro agire. Le scelte di questo congresso, a partire dalla sua organizzazione e dagli interlocutori, dimostrano che esiste in Md una tale volontà. Verificheremo nel futuro il rispetto di questo impegno: lo rispetteremo se, ad esempio ad ogni comunicato, ogni iniziativa sulla magistratura si accompagnerà almeno un’azione analoga concernente la salvaguardia dei diritti e la difesa dei pi deboli e svantaggiati. Il secondo compito è quello di essere lievito nella magistratura, interloquendo con i colleghi ed impegnandoci, in particolare, nell’Anm. Positivo è stato il nostro lavoro nell’Associazione (a proposito: non è certo un caso che le migliori presidenze da molto tempo a questa parte siano state quella di Paciotti e quella di Bruti Liberati): l’unità, soprattutto in questi tempi, è un bene da perseguire, ma non ad ogni costo. Così l’intransigente difesa del ruolo della magistratura non significa difendere ogni decisione, il comportamento e le scelte di ogni magistrato: recuperiamo, anche e soprattutto a livello periferico, la capacità di critica.
Dimostriamo insomma che il nostro consenso elettorale tra i magistrati, che si aggira ormai intorno al 30%, non è frutto dell’appannamento del nostro carattere, ma il sintomo di crescita di tutta la magistratura