La direzione della la pretesa punitiva


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di Luigi Pagano - congresso nazionale

  1. Nelle aule dei nostri tribunali campeggia, o almeno sino a pochi giorni fa campeggiava, una scritta da tutti conosciuta: «La legge è uguale per tutti». Essa significa che la legge è al disopra delle vicende umane e non si fa influenzare dalle condizioni personali di chi le si presenta davanti. Nell’immagine data dall’iconografia tradizionale, misura con la bilancia la parte di colpa di ciascuno e, poi, implacabile, cala il suo spadone a colpire il reo, senza guardare in faccia nessuno. Così come scrive Anatole France «la legge nella sua maestosa uguaglianza proibisce allo stesso modo al ricco e al povero di dormire sotto i ponti e di rubare il pane»...
    Capita, però, che prevalentemente sui poveri, tossicodipendenti e immigrati, sembra oggi indirizzarsi la pretesa punitiva dello Stato e i dati forniti dal segretario Castelli, in premessa alla relazione introduttiva di questo congresso, lo confermano. Nel leggerli, si potrebbe pensare che, seppure si sia tutti uguali di fronte alla legge, forse qualcuno lo è pi degli altri, ma siamo in Italia e non nella immaginaria fattoria degli animali raccontata da Orwell, per cui dovrà concludersi che i poveri siano categoria refrattaria ai precetti perch, nonostante la chiarezza dei divieti, continuano con ostinazione a rubare il pane e, magari, a mangiarselo sotto i ponti. E, poi, finiscono in carcere.
    San Vittore riflette, grosso modo, i dati nazionali, ma vorrei disaggregarne alcuni per trarne brevi considerazioni. Sono presenti a San Vittore 1.300 detenuti uomini, dei quali oltre il 55% sono stranieri, e 126 donne; 317 sono i definitivi e tra questi, se prendiamo come parametro il limite dei tre anni di pena residua, si contano: 108 persone con condanne sino a 6 mesi di reclusione, 64 da 6 mesi all’anno, 171 da uno a 3 anni. Un accenno, in via incidentale, anche a 170 detenuti, appellanti per condanne inflitte da uno a 6 mesi e a 7 donne madri che hanno con s i propri figli, 8 per la precisione.
    Sulla base di questi dati, viene da chiedersi come mai un così gran numero di persone rimanga in carcere pur potendo, in astratto, godere di quei benefici di legge di cui il nostro ordinamento abbonda.
    E' arduo poter credere, infatti, che per tutti questi detenuti esistano sempre quelle esigenze cautelari di eccezionale rilevanza o, per i condannati, condizioni di pericolosità tanto elevate da giustificare il protrarsi dello stato detentivo come unica misura adeguata di controllo.
    La verità è, invece, che le loro possibilità di accedere ai circuiti alternativi rimane mera teoria in quanto buona parte di costoro non possiede quelle referenze sociali (lavoro, casa...) ritenuti dalla legge indispensabili a costruire ipotesi apprezzabili di affidabilità. Tradotto in linguaggio tecnico giuridico - cito da un’ordinanza -« il concreto pericolo di reiterazione della condotta criminosa è desumibile dalla stessa condizione di tossicodipendente che, unita alla clandestinità e all’assenza di lavoro costituisce evidente spinta a delinquere»... Lo stato di bisogno assurge alla legittimazione di causa criminogenetica, lo stato di bisogno diventa il discrimine perch si rimanga o meno in carcere. E, come se non bastasse la privazione della libertà, questa quota sempre crescente di detenuti (la settimana scorsa a San Vittore novanta ingressi dalla libertà in appena tre giorni) causa nelle carceri il sovraffollamento e ne subisce anche i suoi effetti pi negativi e perversi, imputati o condannati che siano: il dormire in 4 e 5 in celle da 9 metri quadri o in alternativa bivaccare per giorni nelle sale d’attesa, l’esposizione al rischio malattie via via sino ai trasferimenti in istituti con posti disponibili, ma lontani centinaia, migliaia di chilometri dal proprio nucleo familiare. Come dice il presidente Margara forse, avendo letto tutti Foucalt, pensiamo alla pena detentiva come tentativo di presa dell’anima, invece cosa resta nel concreto e reale nel carcere è solo la presa dell’individuo e del suo corpo.
    Suona irridente, così, l’art.1 dell’ordinamento penitenziario, che parla di un trattamento penitenziario conforme ad umanità e rispettoso della dignità della persona, quando non si riesce a garantire loro neppure il pi elementare dei diritti: un posto letto. La legge, maestosamente inesorabile sino al momento della condanna, sembra divenire concetto relativo durante l’esecuzione.

  2. Un sistema del genere presenta evidenti profili di illegalità e di inefficienza, candidamente ammessi da tutti, ma rassegnati come se il carcere, questo carcere, fosse una punizione divina e non già una nostra creazione e la prova di un nostro fallimento.
    Cito solo il commento del Comitato permanente per l’esame dei problemi penitenziari, istituito nella XIII legislatura presso la Camera dei deputati, che, dopo aver visitato diversi istituti, concluse i suoi lavori descrivendo non solo un servizio della pena in assoluta crisi, ma ne evidenziò una situazione di notevole diseconomicità valutando che un uso efficiente delle risorse finanziarie - circa 4.000 miliardi annui - e del personale avrebbe portato al risparmio di circa 500 miliardi all’anno.
    La storia dell’indulto è esemplare: tre anni di discussioni per decidere se sia giusto o meno un gesto di clemenza, ma nessuno ha ancora spiegato perch il carcere debba continuare a rimanere il mondo del non diritto e dell’emergenza perenne pur disponendo di un patrimonio legislativo di tutto rispetto e quale sia il progetto per evitare, ammesso che l’indulto venga concesso, di ritornare, tra qualche tempo, allo stesso punto di oggi.
    Abbiamo un’amministrazione penitenziaria priva da dieci anni di una guida stabile e, di conseguenza, impossibilitata a ideare un disegno strategico organizzativo che impegni e mobiliti in una rete di interventi le proprie risorse, quelli degli enti locali e quelle del volontariato, interventi che, senza alcun dubbio interpretativo, la Cassazione ha ripetutamente affermato essere, dal punto di vista giuridico, un obbligo di fare da parte dell’amministrazione e, per correlazione, un diritto del detenuto. E la stessa magistratura di sorveglianza, pur con tutte le giustificazioni possibili, da tempo ha smesso di considerarsi garante dei diritti dei detenuti, ruolo di vitale importanza non a caso ribadito e rafforzato dalla sentenza n. 26 dell’11 febbraio 1999 della Corte costituzionale.
    L’oggi del carcere, ricettacolo di emarginati, sembra ritornare, con un moto di rivoluzione a 360 gradi, alle proprie origini, l’albergo dei poveri, la Rasp House, sempre pi slegato dai valori-obiettivi stabiliti dalla Costituzione e sempre pi inappropriato strumento di una grossolana e miope politica di mero controllo sociale.
    Controllo apparente, però, perch qualcosa, infine, il carcere sembra produrre: criminalità.
    Non è sociologia, ma buon senso: ho seri dubbi che delle persone trattate spesso così brutalmente e senza mezzi di sostentamento alla loro dimissione possano, poi, anche essercene grati.
    Il carcere non presenta zone neutrali: o si impone la legge dello Stato o ci sarà la logica della grossa criminalità che lì arruola l’esercito della propria manovalanza.
    Io credo che, se si vuole, i margini di intervento siano ancora tanti per invertire questo processo degenerativo perch abbiamo, comunque, la fortuna di trovare la strada già segnata dalle leggi, ma, forse, prima che ispirarci allart.27 della Costituzione, dovremmo soffermarci con pi attenzione sull’art. 3, quell’articolo che assegna alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Perch, diciamo la verità, la giustizia retributiva non è, non può essere (n potrà mai chiamarsi) giusta se prima non è giusta quella distributiva.
24 01 2003
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