di Giovanni Diotallevi - congresso nazionale
Tra le Costituzioni entrate in vigore nel secondo dopoguerra la Costituzione italiana merita sicuramente un giudizio positivo, soprattutto se si rapporta all’intensità e alle particolarità delle vicende che hanno attraversato la vita delle istituzioni repubblicane. Con la crisi degli anni novanta si è avviata una nuova fase di transizione costituzionale, le cui cause originarie vanno ricercate non certo nella vigenza della Costituzione attuale, ma nei fenomeni degenerativi della vita sociale sviluppatisi al di fuori del circuito perimetrato dai principi e dai valori costituzionali.
Dobbiamo riconoscere anzi che il modello costituzionale ha ricevuto una nuova e indiretta legittimazione e valorizzazione proprio a seguito del raffronto con gli aspetti pi corrivi del degrado istituzionale e del costume pubblico. Assistiamo ad una pericolosa regressione del sistema rispetto ai principi costituzionali dello Stato democratico di diritto. Questo perch sta avanzando la concezione della libertà e della democrazia come sistema privo di regole e controlli, senza limiti e vincoli specifici rispetto al libero dispiegarsi dell’iniziativa privata e ai poteri forti economici che ad essa fanno riferimento da un lato e, per quanto riguarda il profilo delle pubbliche istituzioni, perch si esalta, in termini assoluti ed esclusivi, la regola della maggioranza, e conseguentemente l’insofferenza ai vincoli di legge e ai controlli giurisdizionali, per il potere politico.
C’è dunque questa volontà di mettere in discussione i contenuti e l’esistenza stessa della Costituzione; si è accompagnato questo tentativo con una deriva plebiscitaria del sistema politico, nella quale l’espressione della volontà della maggioranza potesse acquisire una sorta di indifferenza e di superiorità rispetto alle regole del diritto ancora vigenti. Sono posizioni espresse con determinazione, sul presupposto fuorviante, singolare e inaccettabile che molti dei problemi che assillano la vita politica del nostro Paese possano trovare una loro soluzione modificando in modo sostanziale il patto costituente, da cui in questi anni difficili ha tratto linfa vitale ancora l’idea dell’unità, della coesione del Paese, della stessa difesa dei diritti civili e sociali.
E’ una posizione che trae origine anche dalla negativa esperienza della Commissione Bicamerale. In realtà si è dato vita ad una stagione costituente caratterizzata piuttosto da contrasti, scambi occasionali, volontà di coprire all’ombra di un nuovo patto scontri politici ed economici che hanno così portato all’accoglimento di soluzioni irrazionali, che, seppur non approvate, hanno comunque contribuito ad un’opera di svuotamento, di aggiramento della nostra Costituzione. Si è cominciato a ragionare “come se” la Costituzione non avesse pi valore, e comunque costituisse un elemento frenante al dispiegarsi dei nuovi principi liberisti, sulla cui base sembrerebbe ormai necessario fondare la nuova Carta. Appare chiaro al contrario che una, se non la principale, precondizione perch una democrazia di stampo maggioritario non evolva pericolosamente verso una pericolosa “tirannia” della maggioranza, rimane quella che i due schieramenti politici in contrapposizione tra loro abbiano un patrimonio di principi fondamentali comuni.
Ma questo patrimonio di principi fondamentali comuni non può essere cercato e riscritto giorno per giorno a seconda delle esigenze o delle mode del momento e a seconda delle maggioranze contingenti, perch per questa strada si raggiunge non già una sintesi tra diverse ispirazioni ideali – come fu quella della costituente – ma uno scambio tra diversi interessi, un compromesso collusivo e povero come quello fortunatamente naufragato della bicamerale. Il patrimonio di principi e garanzie fondamentali non può che essere e rimanere quello della Costituzione originaria – di quel patto cioè che fu stipulato come irreversibile quando vi erano le condizioni storiche e spirituali per un riconoscersi di tutte le forze e le ispirazioni politiche in comuni valori di fondo. Certo la costituzione può essere emendata, ma non può essere trattata alla stregua di una legge a maggioranza qualificata. E’ qualcosa di diverso.
E’ in questa ottica che riceve significato inderogabile e non compromettibile la tutela dei valori che fondarono la resistenza e che dalla resistenza hanno trovato ispirazione, legittimazione e spinta per radicarsi poi nelle conquiste sociali che hanno connotato la storia della nostra democrazia come storia di un progressivo inveramento della Costituzione.
Non sono dunque solo gli assetti istituzionali ad essere messi in discussione, ma questioni cruciali vengono poste anche con riferimento alla prima parte della Costituzione. Vi è il costante tentativo di erosione del principio di solidarietà, tra i singoli soggetti, tra le varie componenti sociali, tra territori dello Stato, vengono messi in discussione la scelta europeista e internazionalista che ha operato l’Italia fin dagli anni ’50, il valore cardine del lavoro, l’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziario.
La privatizzazione del potere politico, poi, con l’incombenza concreta del conflitto di interessi che investe il capo del Governo, si esprime poi nella sempre pi frequente emanazione di provvedimenti legislativi a tutela di interessi e situazioni personali, in violazione del principio di generalità ed astrattezza della legge. Tuttavia è in materia di giustizia che gli strappi alla Costituzione realizzati o in itinere hanno raggiunto il tentativo pi forte di erosione dei principi fondanti del patto costituente.
Ricordiamo le prese di distanza collegate al riconoscimento di uno spazio giudiziario europeo, al rispetto sostanziale dei trattati per la cooperazione giudiziaria, anche nell’ottica dell’art. 111 della Costituzione. Ma è con la riforma dell’ordinamento giudiziario e con la punta di lancia rappresentata dal progetto di separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri che si tende a sottoporre i singoli magistrati a forti condizionamenti del governo e di gerarchie interne., in violazione dell’art. 101 Cost..
La pretesa che questa riforma rappresenterebbe l’epilogo necessario dell’introduzione dell’art. 111 Cost. non può essere accettata, anche perch pretende di dare dignità costituzionale alla regolazione di un fenomeno che nella realtà ordinamentale appare assolutamente residuale. Vi è sicuramente una forte carica ideologica nell’analisi di questo problema e da chi propugna la sua soluzione con la realizzazione della separazione delle carriere. E’ una posizione che venne probabilmente alimentata dalla presenza, nei primi anni di applicazione del codice di procedura penale, di fattori produttivi di squilibrio, quale la crescente incidenza della fase delle indagini preliminari, la durata delle misure cautelari, l’allontanamento nel tempo della celebrazione del processo. Tuttavia gran parte di questi fattori, con gli interventi legislativi approvati dal 1995 in poi sono stati progressivamente rimossi. E’ rimasto dunque il carattere ideologico della rivendicazione, sono venute meno le esigenze reali.
Occorre intendersi. Il processo accusatorio ( o tendenzialmente tale) postula la terzietà del giudice e la parità processuale delle parti ma non anche un particolare status del giudice o del p.m. Perch allora si continua a prospettare la separazione delle carriere come la panacea per il funzionamento del processo penale? Sono i fatti a smentire innanzi tutto l’affermazione secondo cui l’unicità dell’ordinamento peserebbe come un macigno sull’attuazione del giusto processo. Al contrario i dati dimostrano come anche dal punto di vista quantitativo l’osmosi tra le due categorie di magistrati, sia stata sempre bilanciata in termini assoluti, ma proporzionalmente valorizzata dall’immissione di magistrati provenienti dal settore giudicante, se rapportati al numero complessivo di p.m. rispetto a quello dei giudici.
Scorriamo i dati: dal 1999 al 2002 i trasferimenti complessivi dei magistrati, esclusi quelli che non comportavano il passaggio da una sede ad un’altra (ad es. assegnazioni sedi ad ud., rientri in ruolo etc.) sono stati 2162. I magistrati italiani effettivamente in servizio nelle sedi giudiziarie in questo periodo sono stati in media circa 8300 (8375+8226+8226+8283 media 8277); i giudici in media sono stati circa 6064 (6131+6112+6112+5801 media 6064); in quattro anni solo 265 magistrati sono passati a svolgere funzioni giudicanti dalle requirenti. Circa il 4,3%, in media l’1% ogni anno rispetto al totale dei magistrati in servizio in uffici giudicanti. Nello stesso periodo 168 giudici sono passati a svolgere funzioni requirenti. I p.m. in effettivo servizio in media sono stati 2105 (2144+2114+2114+2048 media 2105). Circa il 7, 5% del numero complessivo dei p.m.; in media circa l’1, 9 % ogni anno rispetto al totale dei magistrati effettivamente in servizio presso gli uffici requirenti.
E cosa emerge dai dati relativi ai trasferimenti che hanno comportato un mutamento di funzione?. Tra i magistrati che sono transitati dal settore requirente a quello giudicante negli ultimi tre anni il 50% (106 su 212) non è rimasto nella stessa sede ed oltre il 60% ha cambiato distretto (66 su 106). Le stesse percentuali si ritrovano per i trasferimenti che hanno avuto come oggetto il passaggio da funzioni giudicanti a requirenti: oltre il 50%ha cambiato sede (58 su 114 di cui quasi il 60% ha cambiato anche distretto 36 su 58).
E’ quindi un fenomeno fin troppo trascurabile dal punto di vista numerico quello che dovrebbe ricevere una considerazione di rango addirittura costituzionale, attraverso una prospettazione alterata che sollecita una eterogenesi dei fini rispetto a quelli dichiarati.
Allora quali sono le ragioni sostanziali e “vere”? . Ma piace davvero agli avvocati l’idea di un PM avvocato della polizia e cioè di avere come controparte processuale direttamente la polizia? Sono davvero sicuri che ciò assicurerebbe un maggior equilibrio tra le parti e sarebbe di vantaggio per la difesa? Ho dei seri dubbi e non voglio lasciare ai posteri una sentenza sicuramente non ardua.
Come ebbe a scrivere alcuni anni fa il CSM in un parere redatto da Paolo Dusi è naturale che un avvocato non gradisca avere davanti a s come giudice colui che fino a ieri era il suo avversario. Ma non è proprio vero il contrario: a qualunque avvocato fa piacere che a fare il PM sia destinato chi fino a ieri era giudice, perch a qualunque avvocato interessa che il PM abbia pi la mentalità e l’educazione del giudice che quella del poliziotto. Così io credo che qualunque avvocato dovrebbe aver paura di un PM che non ha le qualità personali necessarie per fare un buon giudice: sarebbe un PM pericolosissimo proprio perch sarebbe un quasi poliziotto e cioè qualcosa di diverso. Ma potrebbero mancare nei giudici, anche ottimi, le attitudini per fare i PM: l’attitudine investigativa, ad esempio.
Questi sono i problemi concreti facilmente risolvibili con rimedi concreti e non con le formule e gli slogan – come quello della separazione della carriere o come quello, di difficile concreta configurazione, di “una pi netta separazione delle funzioni”. Sarebbe sufficiente stabilire – e lo potrebbe fare il CSM in sede di autoregolamentazione, senza scomodare interventi sulla normativa costituzionale - che chi è PM non può fare il giudice nella stessa sede prima di un certo numero di anni dalla cessazione delle funzioni inquirenti e che chi è giudice non può fare il PM se non abbia dimostrato particolari attitudine in un vaglio un po’ pi serio di quello attualmente previsto per il passaggio delle funzioni.
Tutto qui: e sarebbe il caso di non parlare pi di questo problema così inesistente e povero sul piano concreto e così pericoloso e grave sul piano dei significati e delle prospettive al servizio delle quali la campagna è facilmente strumentalizzabile.
L’attuale assetto ordinamentale è dunque – nonostante le sue insufficienze, anche sotto questo profilo – quello maggiormente idoneo a veicolare una comune cultura delle garanzie e delle regole, come ci hanno dimostrato i dati che ho prima elencato e a salvaguardare in concreto il principio del giudice terzo. Al contrario una rigida separazione tra giudici e pubblici ministeri spingerebbe il p.m. verso quella monocultura forte, propria dei metodi e della prassi di polizia, allontanandolo da quella cultura garantista, che non contrasta sicuramente con la sua vocazione, complementare dunque al suo ruolo di parte pubblica.
La terzietà del giudice d’altra parte si misura sulla sua capacità di rimanere estraneo agli interessi in gioco, sulla sua capacità di oggettivizzare la causa della contesa tra le parti. Vi è dunque una duplice garanzia soggettiva ed oggettiva per la realizzazione del principio di terzietà: la realizzazione di una condizione di consapevole tensione versa l’imparzialità e la presenza dei controlli processuali sull’operato del giudice. A questo risultato è dunque estraneo il disegno di separazione strutturale delle carriere, come ha , ancora una volta, sottolineato il Parlamento europeo con la Relazione sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea approvata il 15 gennaio 2003, bocciando un emendamento presentato da un eurodeputato di Forza Italia, teso a condizionare la realizzazione del giusto processo alla introduzione del principio della separazione delle carriere.
Non abbiamo bisogno di pericolose scorciatoie per eliminare gli elementi di disfunzionalità pure presenti nell’attuale assetto ordinamentale di giudici e p.m. la riduzione dell’autonomia del pubblico ministero e del suo collegamento con l’esecutivo costituirebbe un elemento di regressione fortissima del sistema di giustizia disegnato dalla Costituzione del 1948.
E’ ipotizzabile dunque un cambiamento, ma occorre farlo con razionalità, senza stravolgere l’attuale assetto. A questa sfida Magistratura Democratica è aperta, senza chiusure corporative, perch funzionalità e trasparenza del servizio giustizia sono obiettivi tuttora non realizzati in maniera compiuta, ma su cui si giocano la nostra credibilità e la possibilità di salvaguardare senza incertezze l’assetto costituzionale disegnato nel 1948. E la magistratura non intende sottrarsi alle sue responsabilità.
Ma pretendiamo anche rispetto per la nostra funzione, e per i cittadini in nome dei quali la esercitiamo.
Spesso, da parte di tutti si parla di volontà di difendere il principio dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura; chiediamo coerenza tra cose dette e progetti di legge invece presenti in Parlamento di tutt’altro tenore, perch solo su queste basi si possono costruire riforme che costituiscano una seria garanzia per il futuro, per gli operatori della giustizia e per i cittadini. L’unica nostra forza è quella che ripetiamo da una solida e chiara fedeltà ai principi della nostra Costituzione che riguardano la giustizia, e dal rigore con cui saremo capaci di difenderli, senza tatticismi o rinunce. E questo sarà, oggi, domani, sempre, il nostro impegno.