di Alberto Burgio - congresso nazionale
Desidero in primo luogo ringraziare Magistratura democratica per avermi dato l’opportunità di seguire i lavori di questo congresso e di intervenirvi.
Porto il saluto cordiale del Partito della Rifondazione comunista, e colgo l’occasione per testimoniare non formalmente la solidarietà del mio partito alla magistratura italiana, oggi – come è stato pi volte ricordato anche in questa sede – bersaglio di un attacco di inusitata violenza da parte del potere politico: di una violenza che direi inedita, se questo non fosse il paese che nel Novecento fu il laboratorio storico del fascismo europeo.
Vorrei direi brevemente qualcosa proprio intorno a questo attacco.
Esso ci preoccupa, in primo luogo come cittadini. Sentiamo che è minacciata la nostra condizione di titolari di diritti costituzionalmente sanciti, primo fra tutti quello all’eguaglianza dinanzi alla legge.
Per questo – non per astratte ragioni di ortodossia istituzionale – non abbiamo esitato (e non esiteremo) a prendere posizione nello scontro in atto, sostenendo a viso aperto i principi della Costituzione repubblicana e antifascista e le ragioni della magistratura in difesa non solo della propria autonomia e indipendenza, ma anche del diritto dei magistrati a una piena cittadinanza (dunque alla libertà di associazione e di manifestazione del proprio pensiero).
Per questo ci siamo via via univocamente pronunciati a favore dello sciopero dei magistrati lo scorso giugno, della manifestazione in difesa della Costituzione in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario ancora qualche giorno fa, e in tutti i momenti in cui si sono con pi evidenza dichiarati il proposito controriformista della maggioranza e la volontà persecutoria del ministro.
Ma questo non basta.
Bisogna – credo – cercare di capire da dove nasca questo attacco, quali siano le sue cause originarie.
Molte di esse sono state qui richiamate.
Ieri Stefano Rodotà diceva del nesso inestricabile che salda esercizio della libera giurisdizione e tutela dei diritti collocati nello spazio dell’“indecidibile politicamente”. Già questo ci indica una prima ragione del conflitto.
Se è vero che è in atto una generale tendenza alla riduzione degli spazi democratici (lo osservava Claudio Castelli nella sua relazione) e se la giurisdizione è una delle funzioni cruciali che questi spazi concretamente tutelano, si comprende bene che la magistratura sia tra i primi destinatari dell’offensiva autoritaria.
In altri termini: la magistratura è sotto attacco in quanto potere indipendente dal comando politico e in quanto potere vocato alla tutela dei diritti sociali (individuali e collettivi) sanciti dalla Costituzione e quindi indisponibili all’intervento dell’esecutivo.
C’è poi – non si può sottacerlo – un aspetto tutto italiano: le caratteristiche soggettive di questo ceto politico-governativo, che rimandano alle biografie, per dir così borderline, di molti esponenti di rilievo dell’attuale governo e della maggioranza che lo sostiene.
E c’è infine quella ideologia neo-autoritaria e plebiscitaria – quel “riduzionismo istituzionale” che scorge la fonte della legittimità nella solo volontà popolare, a sua volta immediatamente identificata con la volontà della maggioranza parlamentare e dell’esecutivo – su cui si è ampiamente soffermata la tavola rotonda tra Amato, Fisichella e Rodotà.
E' un’ideologia insidiosa, perch simula una ispirazione democratica e perch coltiva pulsioni anti-politiche: presenta la complessità e la dialettica istituzionale come una inutile bardatura, fonte di perdita di tempo e di efficacia. E' la cultura della decisione (ben pi che dell’efficienza) contro la mediazione e la partecipazione democratica. E' una cultura che in tempi non remoti ha già incoraggiato tragiche derive.
Tutto questo è vero.
Non sono tuttavia sicuro che abbiamo ancora le idee chiare sulle radici ultime di questa regressione, mentre sento che sarebbe molto pericoloso sbagliare l’analisi a questo riguardo: non cogliere la natura e la reale portata di una degenerazione che inasprisce la reazione contro qualsiasi manifestazione di dissenso (i giorni di Genova – nel luglio 2001 – restano un cupo emblema) e tende a rappresentare come una inutile complicazione e una illegittima interferenza l’intervento di qualunque soggetto istituzionale (e, a fortiori, sociale) dissonante dall’esecutivo.
Non pretendo certo di svolgere qui questa analisi, nei pochissimi minuti a mia disposizione. Vorrei solo enunciare una ipotesi, in forma problematica.
Ho l’impressione – con tutto il rispetto per l’autorevolezza di chi l’ha prospettata – che la tesi sostenuta ieri da Giuliano Amato non colga nel segno.
Se ho ben compreso, egli ci ha suggerito di cercare le cause del riduzionismo autoritario che ispira l’attacco alla magistratura nella tenace effettualità di un “filo rosso giacobino” che coltiverebbe pulsioni dispotiche a spese della ispirazione liberale della Costituzione repubblicana.
A parte l’ingenerosa recensione di Rousseau (il quale si guardava bene dall’identificare con la volont gnrale la volontà di qualsiasi maggioranza) e i giudizi sbrigativi nei confronti della posizione giacobina (non era solo Robespierre a guardare con diffidenza all’interpretazione della legge da parte del giudice, ma anche l’illuminismo giuridico, Beccaria in testa: allora forse occorrerebbe qualche cautela storica, se non vogliamo correre anche noi il rischio di ridurre la storia a cronaca contro cui ci ha messo in guardia lo stesso Amato); il punto è che questa spiegazione tutta ideologica non risponde alla questione cruciale: perch questo attacco alla magistratura (e, pi in generale, alla pluralità dei poteri costituzionali) conosce oggi una evidente recrudescenza – oggi che non pare proprio si possa dire che quel “filo rosso giacobino” goda di una salute particolarmente florida?
Credo – e chiudo – che la risposta debba essere cercata altrove, non in presunti fili ideologici, bensì in processi concreti, materiali. E non solo in realtà nazionali (le pur influenti peculiarità del ceto politico-affaristico-governativo che oggi occupa ruoli chiave nel nostro paese), ma, pi in grande, in realtà attive sul piano transnazionale (o, come oggi si preferisce, “globale”).
Penso che se vogliamo intendere il senso proprio del conflitto, ogni giorno pi aspro, tra potere politico e potere giudiziario, non possiamo non considerare quelle trasformazioni nella struttura stessa dei poteri di comando e di controllo sociale, in conseguenza delle quali l’economia (l’impresa, la sovranità essenzialmente privatistica del capitale, insofferente di qualsiasi interferenza pubblica e di qualsiasi regola, vissuta inesorabilmente come vincolo e come ostacolo) viene conquistando primazia e assumendo il ruolo di arbitro nella dinamica sociale.
In altri termini, credo che quanto avviene in Italia in questo momento vada collocato su uno sfondo pi vasto geograficamente e storicamente.
Il contesto è l’ultimo ventennio, la fase dell’affermarsi dell’integralismo liberista in tutte le democrazie occidentali. Concordo pienamente con quanto osservava stamattina Giovanni Palombarini.
In questo senso l’attacco alla magistratura italiana sta dentro la tendenza generale al rafforzamento degli esecutivi (una tendenza purtroppo assecondata anche dalle forze del centrosinistra, a giudicare dalle ultime proposte di riforma istituzionale) e dentro la tendenza al dilagare dell’ossessione sicuritaria, alla privatizzazione della sfera istituzionale, alla flessibilizzazione surrettizia della Costituzione, alla radicale precarizzazione del lavoro subordinato, alla riduzione della libertà di dissenso e di partecipazione, alla compressione delle prerogative della cittadinanza, alla repressione del conflitto e della mobilità dei migranti.
Mi sembra che vi fosse un chiaro accenno a questa ampiezza del quadro in un passaggio della relazione di Castelli ieri, che faceva riferimento ai “foschi scenari” di guerra e alle disuguaglianze estreme che marcano lo scenario mondiale in questa fase storica.
Diceva Castelli a questo riguardo: “gli uomini del diritto debbono occuparsi anche di questi problemi”.
Ritengo intendesse dire che la qualità degli uomini del diritto si misura anche (forse principalmente) in base al fatto che avvertono – o meno – il dovere di occuparsene.
Ma mi pare che questo significhi una cosa:
la difesa dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura in tutte le sue funzioni richiederà un impegno di lunga lena e non potrà raggiungere risultati significativi se non si salderà con la generale difesa degli spazi di democrazia e con la tutela e l’iniziativa per il rafforzamento e l’estensione dei diritti sociali e politici di tutti i soggetti pi esposti all’offensiva dei poteri forti, impegnati nella riorganizzazione planetaria dei rapporti di forza militare, economica e politica.
Ancora grazie, e buon lavoro.