di Gianfranco Gilardi
Ora che il testo del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, coordinato con la legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80, è legge dello Stato, sembra opportuna qualche riflessione per mettere a fuoco il segno complessivo della riforma. Limito questi brevi rilevi alle norme sul processo civile, che in parte diventeranno efficaci centoventi giorni dopo la data di pubblicazione della legge di conversione (14 maggio 2005), in altre parti richiederanno l'esercizio della delega da parte del Governo.
Tralascio ogni considerazione in ordine al metodo ed alle modalità di formazione del provvedimento. Su questi aspetti vi sono state già numerose osservazioni; vi è stato un comunicato congiunto dell'Anm e delle Camere civili; è stato diffuso un appello che ha raccolto in pochi giorni numerose adesioni di docenti universitari, magistrati, avvocati, dirigenti amministrativi, associazioni di consumatori e movimenti rappresentativi dei cittadini. Vi sono state, a titolo individuale e collettivo, prese di posizioni degli Osservatorii sulla giustizia civile, riassunte da ultimo in un lucido e puntuale documento dell'Osservatorio di Firenze.
Mi limito invece ad osservare che la nuova formulazione degli artt. 180, 183 e 184 c.p.c., pur perseguendo l'obiettivo di una maggiore concentrazione del processo con la tendenziale unificazione dell'udienza ex art 180 c.p.c. e di quella di cui all'art. 183 c.p.c., da un lato attua un declassamento della funzione dell'interrogatorio libero, disponendo che esso abbia luogo solo se vi sia richiesta congiunta di tutte le parti; dall'altro introduce la previsione che il giudice provveda sulle istanze istruttorie con ordinanza riservata prima dell'udienza di cui all'art. 184 c.p.c. e fa cadere quella - figurante nel testo licenziato dalla Commissione Giustizia della Camera - secondo cui, sussistendone le condizioni, egli potesse provvedere all'ammissione dei mezzi di prova già nell'udienza di trattazione. Nel contempo, sono state eliminate tutte le proposte contenute nei testi precedenti in tema di disciplina delle spese processuali (obbligo di motivazione da parte del giudice in caso di compensazione), di responsabilità aggravata, di strumenti diretti ad indurre l'obbligato all'adempimento della prestazione, di almeno parziale rivitalizzazione dei provvedimenti anticipatori di condanna, di possibilità di revoca o sospensione anche parziale del decreto ingiuntivo. A fronte di alcune disposizioni migliorative del processo di esecuzione, e a fronte di un'opzione circa la fase di introduzione della causa rientrante nel ventaglio di quelle possibili senza che ne restasse sconvolto l'impianto previgente, il processo di cognizione, a causa di queste "sottrazioni", viene a subire sensibili peggioramenti rispetto alle proposte che lo avevano preceduto e rispetto allo stesso progetto elaborato in seno al Comitato ristretto della Commissione Giustizia del Senato. Estrapolando, poi, dal disegno di legge delega per la pi generale riforma del processo civile le indicazioni relative al giudizio di cassazione (che in quel testo erano affiancate alla previsione di generalizzazione dell'appello con riguardo a tutte le sentenze del giudice di pace e del tribunale, ad eccezione di quelle decise secondo equità per legge o per volontà delle parti ), sulla Corte di legittimità, già oggi al limite delle possibilità di funzionamento, vengono scaricati nuovi e gravosi compiti in omaggio ad una concezione astratta di nomofilachia che o non potrà essere concretamente esercitata, a meno di restarne soffocati, o lo sarà a prezzo di una sommarizzazione estrema dei giudizi da parte della stessa Corte.
Il segno complessivo della riforma è dunque un prevedibile arretramento della funzionalità del processo civile, rispetto al quale continua a mancare, di converso, ogni pi pallida misura sul piano degli interventi organizzativi e strutturali, interventi in carenza dei quali anche il tentativo di rivitalizzare la fase preparatoria e di trattazione della causa (con il positivo accorpamento tra udienza ex art. 180 e udienza art. 183 c.p.c.) rischia di lasciare le cose come prima.
A ciò si aggiungano le considerazioni derivanti dalla previsione dell'art. 70 ter disp. att.c.p.c. Omettendo i rilievi di ordine sistematico, i problemi di ordine interpretativo nei processi con parti ulteriori rispetto all'attore ed al convenuto (o ai convenuti), la coerenza di una previsione con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che ho richiamato in pi occasioni (questi argomenti sembrano ormai non far pi presa in un generale clima di adattamento "consociativo" sulle questioni di principio), non si può non ricordare, ancora una volta, le ricadute che l'aggiunta di un altro rito inevitabilmente determina sul piano organizzativo, ricadute che possono essere trascurate solo in un contesto di non conoscenza o di sottovalutazione della realtà. Mi chiedo, inoltre, che significato possa avere la coesistenza di due diversi riti a cognizione piena per la tutela di un medesimo diritto, tenuto conto che la scelta dell'uno o dell'altro non riguarda soltanto l'alternativa tra un "processo" con minore ed un "processo" con maggiore possibilità di scambio di atti scritti, ma implica anche diversi poteri del giudice e delle parti, diversa scansione delle attività processuali e delle preclusioni, diversa articolazione dell'istruttoria, etc.
E' certo che ogni giudice deve sforzarsi di interpretare al meglio - nel senso cioè della maggiore aderenza possibile ai valori del giusto processo ed al canone della ragionevole durata - ogni nuova norma che modifica la disciplina del processo; e può anche darsi che la coesistenza di due riti alternativi possa avere l'effetto di determinare un utile "antagonismo", favorendo dinamiche di maggiore concentrazione in quello di essi a cui è estranea la fase dello scambio molteplice degli atti scritti. Ma può anche darsi, all'opposto, che l'esistenza di un processo "scritto", voluto dal legislatore sul presupposto che le udienze di cui agli artt. 180, 183 e 184 c.p.c. si risolvessero per lo pi in passaggi vuoti del processo (è questa, com'è noto, la ragione frettolosamente e ufficialmente invocata a sostegno del "modello" accolto dal d lgs. n. 5/2003), finisca per avallare e perpetuare un modo sbagliato e burocratico di interpretare le norme del processo, e per allontanare ancora una volta quella che era e che rimane la principale questione del sistema processuale italiano, costantemente elusa dalle riforme: il dovere cioè di assicurare le condizioni organizzative, materiali, culturali e professionali che permettano ovunque al rapporto dialettico giudice/parti di esplicarsi fin dall'inizio della controversia in modo pieno ed effettivo, in una sequenza ordinata di atti, in un comune contraddittorio capace di sfrondare l'inutile e il vano.
Quando nulla si fa per migliorare in concreto il funzionamento della giustizia, e viene travolto ciò che è stato faticosamente costruito in anni di sistemazione teorica e di applicazione pratica degli istituti, di sforzi organizzativi, di formazione professionale, la questione fondamentale attiene proprio alle leggi, al metodo ed al fine cui le leggi dovrebbero ispirarsi. Se l'attività dell'"operatore" deve essere principalmente destinata alla risoluzione di questioni tecniche, complicate e moltiplicate dai continui mutamenti del quadro normativo, rischia di smarrirsi il fine stesso del processo ed il suo scopo finale, che è la tutela del diritto.
Per questo credo che occorra continuare ad impegnarsi non solo sollecitando gli interventi che servono davvero alla giustizia, ma anche per far sì che, pur nelle pi gravi condizioni in cui giudici, avvocati, cancellieri dovranno operare, per l'utente non perda significato il processo che si svolge sin dall'inizio davanti al giudice terzo, imparziale, professionalmente preparato e garante dei diritti. Credo che le tante adesioni all'appello dei giorni scorsi avessero, prima di tutto, questo significato, una forte e consapevole presa di coscienza che costituisce, di per s, il segno incoraggiante di una grande ricchezza culturale e professionale.