di Sergio Mattone
Ho sempre pensato che nei momenti di difficoltà, riguardino essi un partito, un’organizzazione sindacale od un’anomala formazione intermedia come Md, si possa procedere, per uscirne, secondo due diverse modalità: si può tentare una ricerca della propria ragion d’essere e valutare, in primo luogo, se essa sia tuttora valida e se non sia la prassi, semmai, ad essere per avventura divenuta inadeguata (se non talora incoerente) rispetto a quella ispirazione originaria; oppure, secondo una prospettiva che definirei pragmatica, ci si può limitare ad analizzare i motivi che avrebbero provocato un calo dell’audience ed a riflettere soprattutto sui correttivi idonei a rinvigorire la consistenza del gruppo e ad aggregare, in particolare, le nuove generazioni (che, secondo la vulgata corrente, sarebbero ormai insofferenti, in Md, ad ascoltare i discorsi sui massimi sistemi dispensati dai “custodi” del suo patrimonio ideale). Dico subito che, tra i due percorsi rozzamente schematizzati per brevità, non esito ad optare per il primo, con tutto il disagio che avverto per una collocazione che potrebbe innegabilmente apparire elitaria, indifferente ai bisogni più urgenti segnalati dalla “mitica” base, lontana dai problemi organizzativi. Corro tuttavia questo rischio per amor di verità, per non venir meno, cioè, ad un impegno – di analisi e di proposta – che mi appare cogente e prevalente rispetto ad ogni altra considerazione.
Anzitutto, uno sguardo al passato, ovviamente molto rapido perché si tratta di concetti ormai largamente noti (almeno così mi piace immaginare). Qual è la funzione che Md si è da sempre assegnata e nella quale potremmo riconoscere il suo carattere identitario? Per Pino Borré (indimenticato “compagno di strada”) la demistificazione (ossia, il disvelamento che non tutti i diritti erano tutelati in modo eguale) è stata una delle acquisizioni più importanti nella produzione culturale di Md, soprattutto quando si è tradotta in una presa di distanza dentro lo stesso ceto professionale dei magistrati. Ed accanto ad essa egli poneva la riscoperta della politicità intesa come indipendenza e, quindi, come disobbedienza a ciò che legge non è (e ricordava la disobbedienza al pasoliniano “palazzo”, ai potentati economici, alla stessa interpretazione degli altri giudici, in nome del pluralismo delle idee). A sua volta, Luigi Ferrajoli ha più di una volta sottolineato come nella costruzione teorica elaborata da Md spiccasse, per un verso, il forte richiamo all’effettività del diritto ed ai rapporti sociali ad essi sottostanti, che chiamava in causa il superamento dello scarto esistente tra i contenuti della Costituzione e la realtà effettuale delle istituzioni giuridiche e della struttura dei rapporti sociali; e, per altro verso, il riferimento al “punto di vista esterno” all’ordinamento, cioè al punto di vista della società ed in particolare dei suoi soggetti più deboli, che si veniva a saldare con il punto di vista interno della Costituzione e capovolgeva così l’immagine tradizionale del giudice, attribuendogli un ruolo non più di conservazione, bensì di contestazione e trasformazione dell’ordine giuridico esistente.
Ebbene, non penso affatto che l’impegno sotteso a queste coordinate teoriche possa ritenersi esaurito per il raggiungimento – per così dire – dello “scopo sociale”. Credo piuttosto che sia da considerare che, quale che sia l’entità delle tracce impresse nella giurisdizione dalla forza d’urto di quelle idee (che, beninteso, hanno coinvolto via via fasce sempre più ampie della magistratura), esse conservino, con gli ovvii adattamenti alle mutate dinamiche istituzionali e sociali, una pregnante attualità, e che, semmai, la minore capacità aggregativa di Md possa piuttosto addebitarsi ad un calo di tensione nella sua azione concreta. Un calo di tensione che in molti settori dell’ordinamento (infortuni sul lavoro e malattie professionali, ad esempio) ha condotto ad un arretramento delle garanzie e, in altri, alla mancata emersione di diritti che, seppure non disciplinati esplicitamente dalla normativa vigente, avrebbero dovuto trovare, tuttavia, un’adeguata tutela attraverso un’interpretazione orientata al rigoroso rispetto dei principi sanciti dalle norme costituzionali, dalle direttive comunitarie e dalla giurisprudenza delle Corti europee (e qui il pensiero corre anzitutto al caso Welby ed alla condizione dei precari e dei migranti).
Ho detto che la tenuta di quelle idee fondanti è di pregnante attualità riflettendo sui compiti, ancor più incisivi che nel recente passato, che a mio avviso saranno inevitabilmente attribuiti in questa fase alla giurisdizione. Cerco di spiegare il senso di questa affermazione.
Ha scritto anni addietro Pierre Bourdieu che esiste oggi una “politica senza anima e senza qualità”, la quale è andata perdendo il rapporto con la vita, con l’etica pubblica e con il bene comune. Ed è del resto sensazione diffusa che il sistema politico, in Italia come altrove, soffra di una grave crisi di rappresentanza, che peraltro - come si legge nella postfazione di Cotturri all’ultimo libro di Giovanni Palombarini (La variabile indipendente, Bari, 2006) - avrebbe un carattere strutturale in quanto essa non sarebbe più in grado di includere nella governance la complessità del sociale (le sue “infinite pretese”). Se il quadro descritto risponde alla realtà, ne viene allora di conseguenza che la magistratura finirà per assumere una ben più forte esposizione e tanto di più essa è destinata, quindi, ad essere interpellata dalla società come strumento di soddisfazione di antichi e nuovi bisogni che reclamino legittimamente protezione. Ma ciò comporta anche che la riflessione e l’azione di Md non conoscano momenti di discontinuità rispetto alla sua linea portante, nei termini indicati.
Ha osservato Mario Tronti subito dopo il voto elettorale dello scorso aprile (Se le cifre sono come i lampioni, in Democrazia e diritto, n.1/2006) che un po’ tutte le componenti del centrosinistra sono caratterizzate da una “sorta di analfabetismo analitico di ritorno”, una volta che la società italiana è sconosciuta anche a chi dovrebbe governarla, e che quindi la sinistra, prima ancora che una “fabbrica del programma”, avrebbe dovuto mettere in piedi “una fabbrica della conoscenza”. Ora, se non vogliamo sottrarci a questo severo giudizio non possiamo non compiere uno sforzo per riappropriarci appieno di quegli strumenti critici necessari a portare avanti un’opera di scavo dei problemi posti dai diversi settori dell’ordinamento, a formulare le conseguenti indicazioni ed a tradurle in coerenti risposte nel quotidiano esercizio della funzione giurisdizionale.
Perché tanto possa realizzarsi occorre certamente disporre di mezzi e strutture che sorreggano una organizzazione degli uffici proiettata verso la più alta efficienza. Ma se si vuole evitare che le nostre sacrosante battaglie su quel versante si risolvano nel dar vita al funzionamento di una macchina giudiziaria “priva di anima” (come la politica di cui parlava Bourdieu), ossia non caratterizzata, anche agli occhi dei cittadini, da una forte idealità, è nel contempo essenziale la presenza di un altro “ingrediente”: è necessario, cioè, che sia rimessa in moto un’attività giudiziaria sorretta da un’elevata professionalità ed insieme capace di assumere nel procedimento interpretativo, ove la discrezionalità che gli è propria lo consenta, quelle opzioni etico-politiche (rubo ancora una espressione a Ferrajoli) sostanziate dalle rivendicazioni sociali ed individuali dei titolari di diritti fondamentali; operazione, questa, mediante la quale la giurisdizione riafferma giorno per giorno, del resto, il proprio fondamento assiologico. Ed è evidente che una prospettiva del genere – se non mi illudo – finirebbe per attribuire alla giurisdizione – uso una parola grossa – una funzione “dialettica”, nel senso che essa avrebbe in sé la potenzialità di richiamare anche altre istituzioni al rispetto dei valori fondanti del nostro vivere civile e di proporre, a quelle fasce sociali disorientate dall’assenza di “stelle polari” nel cielo della politica, un approccio alternativo al lessico corrente.
Ed allora - se così è - occorre forse spostare più in alto – e non più in basso - l’asticella della nostra analisi e decostruire il racconto dominante secondo cui il declino di Md sarebbe da imputare all’aver essa dedicato troppo spazio, troppe energie, troppe risorse agli aspetti, latu senso politici, ai quali ho qui fatto riferimento.
Mi sono soffermato su queste tematiche anche perché mi sembra che sia in atto il tentativo di ricondurre la magistratura ad una condizione di isolamento, di edificare un nuovo “monachesimo” giudiziario: i sintomi, in effetti, non mancano. In primo luogo, è noto che in buona parte del Consiglio superiore della magistratura si va manifestando una forte resistenza all’autorizzazione di incarichi extragiudiziari, riproponendosi in sostanza la concezione di un giudice relegato nel proprio limbo professionale, lontano dalle “tentazioni” dell’impegno culturale e sociale. Inoltre, in assenza di quegli strumenti elementari per esercitare dignitosamente il proprio lavoro si sviluppa, in tanti magistrati, l’inclinazione a percepirsi (cito il documento precongressuale della sezione romana di Md) come dei qualsiasi travet, anziché quali titolari di un potere costituzionale diffuso, con una spinta irresistibile verso il modello del giudice “burocrate”. Infine, il divieto di iscrizione ai partiti politici, voluto anni fa dall’Anm (ed ora trasfuso nel decreto legislativo sul “disciplinare”) senza che in Md si esprimessero se non isolate voci contrarie, rischia di incoraggiare la tendenza, sempre presente nella corporazione (oltre che nel paese), a diffidare della politica tout court e nel contempo di fornire nuova linfa alla mai sopita aspirazione (anche in parte della sinistra) ad un ritorno alla condizione di neutralità del magistrato, che ha da sempre agito, in realtà, quale copertura al conformismo e potrebbe tradursi oggi in un fattore di inaridimento della tensione ideale dei giudici. Laddove una sacrosante battaglia che l’Anm dovrebbe avviare è quella preordinata ad introdurre nel nostro ordinamento l’istituto della dissenting opinion, che garantirebbe trasparenza alle decisioni e moltiplicherebbe i momenti dialettici destinati verosimilmente ad immettere elementi di dinamismo in orientamenti giurisprudenziali - di merito come di legittimità – troppo spesso espressione di pigrizia intellettuale.
In conclusione, ha davvero ragione Giancarlo Scarpari quando sottolinea in un recente scritto (La Magistratura democratica di Giovanni Palombarini, Il Ponte, n.1/2007, p.39) che per un lungo periodo abbiamo sbagliato a credere che l’antico dilemma “magistrati o funzionari” fosse in Italia definitivamente risolto e che in realtà “diritti e democrazia non sono dati una volta per sempre”. Credo, quindi, che tanto più questo Congresso debba con forza ribadire la necessità di continuare a tessere quel filo rosso che ci ha impedito finora di smarrire il ruolo essenziale e la funzione costitutiva di Md.
Sergio Mattone