di Carlo De Chiara
Penso anch’io che l’impegno culturale e politico per i diritti sia per noi un tratto irrinunciabile di identità.
Penso anzitutto a nuovi diritti per i soggetti senza potere: gli immigrati, i lavoratori precari o irregolari, i diversi”, quelli che partono svantaggiati nella competizione… Ma penso anche ai diritti tradizionali”, ai diritti fondamentali, talora attaccati oltre l’immaginabile.
Mi basta ricordare la cinica strumentalizzazione del terrorismo internazionale, che apre squarci di Medioevo in pieno 21° secolo, se è vero che nell’Occidente civile e progredito si è finiti col discutere nientemeno che dei limiti entro cui è legittima la tortura.
E chi avrebbe mai immaginato, fino a qualche anno fa, che un progetto di stravolgimento della Costituzione nata dalla Resistenza sarebbe stato approvato in doppia lettura dal Parlamento? Per fortuna ha poi funzionato la mobilitazione delle organizzazioni democratiche. Ed è bello poter dire, con orgoglio, che tra esse c’era anche MD. Di questo dobbiamo essere particolarmente grati all’Esecutivo uscente e al Segretario Juanito Patrone.
Dunque l’impegno e la vigilanza per la promozione e la difesa dei diritti, anche al di là dei temi e delle sedi interne alla magistratura, costituisce ragione di esistere di MD. Senza di questo non varrebbe la pena di farne parte.
MD, peraltro, è un gruppo di magistrati, cioè di persone che hanno l’opportunità di mettere in pratica questo impegno e questa vigilanza anche nel loro lavoro quotidiano. Questa è una felice particolarità di MD, che ne amplifica il ruolo e l’incidenza nella società. Ma è anche una responsabilità. Allora MD non può non impegnarsi anche all’interno della magistratura, in tutte le sedi in cui le si aprano spazi; e dunque negli uffici, nelle istituzioni dell’ordinamento giudiziario, nell’ ANM, negli osservatorii”…
E oggi proprio su questo versante – io credo – si pone per noi la sfida più urgente, anche se non esclusiva, che riguarda l’insostenibile, vergognosa, frustrante lungaggine dei processi. Perché questa si traduce direttamente in mancanza di effettività dei diritti, e le spese le fanno i soggetti più deboli, quelli che non hanno potere, perchè chi ha potere non ha bisogno dei diritti, non si mette in fila ad aspettare una sentenza. C’è un collegamento immediato tra efficienza della giurisdizione e tutela dei diritti, che è la ragion d’essere di MD.
Certo, il problema dell’inefficienza della giustizia non può risolverlo da sola la magistratura, e tantomeno MD.
Una sua causa è la dissennata farragine delle procedure, una volta soprattutto in penale ed oggi anche in civile, dove la frenesia riformista a buon mercato dell’ultimo scorcio della passata legislatura ha prodotto un moltiplicarsi di riti speciali utile solo a disorientare gli operatori. Un’altra causa è la scarsità di risorse e la loro cattiva distribuzione. Tutti fattori che richiamano pesanti responsabilità del potere politico, indifferente per decenni al problema – salvo lodevoli parentesi – e negli ultimi anni totalmente preso dall’urgenza di ridimensionare la giurisdizione come potere di controllo, piuttosto che di potenziarne l’efficienza come servizio per la collettività.
Ma, detto questo, siamo sicuri che la magistratura, dal canto suo, non abbia nulla da rimproverarsi? Siamo sicuri che non ci siano, al suo interno, atteggiamenti, prassi, mentalità da modificare?
E’ vero che il problema non si risolve senza immettere nel sistema tutte le risorse necessarie e senza distribuirle razionalmente – e questo la magistratura deve, con forza, pretendere dal potere politico. Ma è anche vero che le risorse, materiali e umane, vanno in concreto organizzate per il meglio, e questo è compito essenzialmente nostro, perché i capi degli uffici sono magistrati, magistrati sono i componenti dei consigli giudiziari, magistrati la maggioranza dei componenti del Consiglio superiore. L’organizzazione degli uffici, la nomina dei capi, la professionalità dei magistrati, da cui pure dipende l’effettività della giustizia, sono responsabilità primaria dell’autogoverno della magistratura.
Sulle valutazioni di professionalità dei magistrati e sulla nomina dei capi degli uffici, però, il bilancio di alcuni decenni di autogoverno è deludente, pur dovendosi dare atto della particolare complessità dei problemi, perché le carriere dei magistrati, per i valori che vi sono sottesi, non possono essere gestite come quelle dei prefetti.
Per parte mia, resto convinto che in magistratura meno esiste una carriera” e meglio è. Resto convinto che non solo le ordinarie verifiche di professionalità, ma anche i passaggi verticali” di funzioni (appello, cassazione), non debbano servire a selezionare i migliori”. Per la determinante ragione che non è affatto vero che le decisioni più difficili si assumano in appello o in cassazione, anzi spesso è vero l’esatto contrario. Quello che conta, allora, è selezionare le attitudini e le competenze tecniche, anche specifiche, e rispettare uno standard adeguato di capacità e laboriosità. Dopo di che si può lasciare ampio spazio all’anzianità.
Il criterio dell’anzianità è tutt’altro che disprezzabile. Ha una sua interna saggezza, proprio come tecnica di gestione del personale: sia perché all’anzianità si accompagna, di regola, una maggiore esperienza, che spesso è necessaria; sia perché si tratta di un criterio che, per la sua oggettività, si presta ad essere accettato da tutti, e dunque stempera tensioni, contrasti deleteri, frena quella corsa alla carriera per la quale si sarebbe indotti a pagare dei prezzi anche sul piano dell’indipendenza, per compiacere chi ci può favorire.
Quando, però, si tratta della nomina dei capi degli uffici, il discorso è diverso. Perché un conto è stabilire se un magistrato vada destinato a determinate funzioni; tutt’altro conto è stabilire se gli si debbano affidare le sorti di un ufficio giudiziario. Nel primo caso si tratta di valutarlo pur sempre come magistrato, cioè nel lavoro che tutti dobbiamo saper fare, sia pure nelle varie specialità; nel caso della nomina a un ufficio direttivo si tratta, invece, di verificare soprattutto un’attitudine che non tutti abbiamo né dobbiamo necessariamente avere, cioè l’attitudine a dirigere, a organizzare una struttura anche complessa – non di rado assai complessa – mettendola in condizioni di rendere un servizio adeguato. Qui il cerchio si deve stringere, la selezione non può essere soltanto negativa. Qui non c’è ragione di non selezionare il meglio”. Anzi, selezionarlo è necessario e doveroso, perché si tratta di far rendere al massimo possibile le risorse a disposizione, che appartengono alla collettività. Qui l’anzianità conta davvero poco (anche se eviterei l’eccesso di considerarla addirittura un handicap, come di recente si tende a fare). Se è opportuno dare a tutti i magistrati meritevoli la prospettiva di un ordinario cursus in quanto magistrati, perché il carrierismo produrrebbe soltanto dei guasti, viceversa non ha alcun senso garantire una carriera di capo.
Nessuna ragione di principio, quindi, impedisce di selezionare i dirigenti degli uffici in base al criterio delle maggiori attitudini e capacità (ferme, ovviamente, le precondizioni dell’indipendenza, della correttezza e di un’adeguata professionalità come magistrato).
Nella realtà, invece, troppo raramente viene fatta la selezione negativa e troppo raramente, quanto ai dirigenti, una felice selezione positiva.
Un forte senso corporativo, la mancanza di capacità o voglia di fare valutazioni, la logica di protezione degli amici o del gruppo, fanno sì che i rapporti dei capi degli uffici dicano poco dei reali trascorsi di ciascun magistrato. E se, a volte, abbondano di dati quantitativi, poco illuminano sulla qualità del suo lavoro, mentre è normale che anche macroscopiche inettitudini, pigrizie, negligenze, cadute deontologiche, non vengano segnalate (e magari, le volte in cui ciò avviene, c’è poi qualche anima buona che rimedia in Consiglio Giudiziario o in Consiglio Superiore). Così si può arrivare all’età giusta per un incarico direttivo avendo ampiamente demeritato, ma con un curriculum adamantino pronto per il giudice amministrativo nell’eventualità che quell’incarico sia negato dal CSM.
Va dato atto degli sforzi notevoli che il Consiglio superiore ha fatto – da ultimo nelle delibere del 2003 e del 2005 sui pareri dei capi e dei consigli giudiziari – per definire regole sempre più stringenti e criteri sempre più elaborati di valutazione. Ma è come se, poi, a quelle raffinate architetture normative, che destano l’ammirazione dei visitatori, si preferissero, quando piove, ricoveri più modesti ma più collaudati: il corporativismo, il clientelismo, la lottizzazione.
MD è da tempo sensibile ai temi dell’organizzazione e della tempestività della giustizia. Basti ricordare il suo impegno negli osservatrorii, l’elaborazione di progetti di riforma processuale, sia in civile che in penale, l’elaborazione sull’ufficio per il processo e, da tempi ormai storici, gli sforzi per l’affermazione della cultura tabellare, che è anche cultura di organizzazione.
Su questa strada dobbiamo andare avanti. Ma dobbiamo anche, in tutte le occasioni, marcare sempre più una netta diversità rispetto a logiche corporative, clientelari o lottizzatorie, contro cui da sempre ci siamo battuti. Perché una cosa è il dovere di discutere con le altre componenti, nei consigli giudiziari e nel Consiglio superiore, alla ricerca delle soluzioni più giuste (di cui non abbiamo noi l’esclusiva); altra cosa è accettare compromessi al ribasso.
Il rinnovamento delle prassi dell’autogoverno è una questione non eludibile, perché anche da lì passa la strada per l’affermazione dei diritti.
Carlo De Chiara