di Giovanni Palombarini
La commozione per la strage di Torino, che andava esaurendosi, si è purtroppo rinnovata per la morte del quinto operaio ustionato. Anche per questo è legittimo sperare che si possa mettere in moto un processo di miglioramento della sicurezza nei luoghi di lavoro. E' vero che il capo dello Stato già nei primi mesi del suo settennato aveva lanciato numerosi appelli per un impegno forte su questo fronte di tutte le istituzioni, che peraltro non avevano trovato molto ascolto; che il presidente del consiglio Romano Prodi alcuni mesi fa, in occasione di un'altra tragedia, ebbe a definire "martiri" i morti sul lavoro, senza che ne derivassero novità positive; che i massimi dirigenti di Cgil, Cisl e Uil all'inizio dell'anno avevano definito un cancro che distrugge il paese le morti sul lavoro senza poi mettere in campo una dura iniziativa conseguente; che in molti uffici giudiziari ci si ripromette oggi di organizzarsi meglio per garantire la tempestività di controlli e inchieste, rinnovando così precedenti propositi rimasti largamente sulla carta.
E però, dopo Torino, è possibile che ancora una volta non si verifichi nulla di nuovo? La vicenda torinese, anche perchè preceduta e seguita da altri eventi luttuosi in varie regioni del paese, e perchè ripresa con inconsueta ampiezza dai media, ha destato un'attenzione di larghi strati dell'opinione pubblica che difficilmente potrà andare frustrata.
Certo, l'attuale situazione è molto difficile, e non potrà bastare per modificarla l'iniziativa del ministro del lavoro Damiano di assumere alcune decine di nuovi ispettori del lavoro. Intanto, l'Italia è al settimo posto in Europa per il fenomento infortunistico nel suo complesso, e la situazione appare ancora più grave con riferimento agli infortuni mortali. Di cinque persone che muoiono sul lavoro nel nostro continente, una perde la vita sul territorio italiano (la percentuale esatta è del 21,1%). Il rilievo si fa drammatico per quanto riguarda la mortalità minorile, che è doppia rispetto alla media europea.
Al di là dei dati pur allarmanti, vi è da misurarsi con una logica di fondo, economica e sociale, che regola l'organizzazione del lavoro avendo come parametri ineludibili le esigenze del mercato e la crescita del pil. Nella società di oggi il lavoro è drasticamente marginalizzato, con un progressivo abbandono delle previsioni costituzionali che lo vorrebbero valore centrale dell'organizzazione sociale. Così i bisogni e gli interessi dei lavoratori dipendenti, e di molti di quelli che impropriamente vengono definiti autonomi, non trovano rappresentanza se non in ristretti settori sindacali.
Alcuni dati della normale organizzazione economico-sociale evidenziano i caratteri di questa logica, che è necessario contrastare.
Si prenda il settore delle costruzioni. Qui all'impresa classica si vanno spesso sostituendo soggetti finanziari legati a banche o a imprese di altra natura o a studi legali che dispongono al massimo di qualche buon direttore di cantiere. Per il resto nel cantiere (o in cantieri che s'intrecciano fra di loro, quando si tratta di grandi opere) sono coinvolti in intricate catene di subappalti una miriade di soggetti medi e piccoli, a volte piccolissimi, che spesso non dispongono di molte risorse (a ogni passaggio di subappalto corrisponde un taglio del prezzo della singola voce produttiva) - per cui è grande la tentazione di risparmiare dove è più facile - e qualche volta neppure di adeguate professionalità. Una situazione del genere, economicamente utile a molti, determina una difficoltà di fondo nella gestione del cantiere e una drastica limitazione, anche per i migliori fra i responsabili della sicurezza, delle possibilità di controllo preventivo dei soggetti coinvolti. E' ovvio che per le opere specialistiche l'appaltatore debba rivolgersi a propri fornitori; ma non si vede perchè non si possa prevedere come obbligatorio per tutte le imprese lo svolgimento di almeno una parte consistente dell'opera, con la possibilità di cessione delle rimanenti lavorazioni a imprese esecutrici che però non possano a loro volta subappaltare.
Ma poi andrebbe rivista la normativa vigente in materia di orario e di lavoro straordinario, dettata dalla logica di un mercato indifferente ai pesi e alle conseguenze dello sfruttamento. Per effetto di leggi e di contratti collettivi si era giunti nel 1997 a 40 ore settimanali di lavoro (36, in alcuni settori), alle quali si poteva aggiungere lo straordinario per non oltre due ore al giorno. Con un decreto legislativo del 2003 tutto si è flessibilizzato. E' stato cancellato il limite giornaliero di durata della prestazione lavorativa, che secondo molti andrebbe individuato in 13 ore per effetto della norma di legge che prevede il diritto a 11 ore di riposo consecutivo: per cui, togliendo alla giornata di 24 ore questo periodo di riposo, si può lavorare in tutto il tempo residuo. La legge fissa un tetto di 250 ore annue di straordinario, che può essere derogato in peggio dai contratti collettivi. Così si spiega come le vittime di Torino fossero alla dodicesima ora di lavoro quando s'è verificata la tragedia. Molti in Italia hanno sorriso o si sono addirittura scandalizzati quando anni fa venne introdotto in Francia il limite settimanale delle 35 ore di lavoro; e però è facile capire che si trattava di una misura che aveva molto a che fare con la qualità della vita di chi lavora.
Dunque, l'aumento del numero degli ispettori del lavoro è importante (com'è importante impedire che alcuni di loro si mettano a fare i consulenti delle imprese). Ma è sui dati strutturali e normativi appena indicati che è necessario intervenire affinchè la speranza di un cambiamento positivo non vada delusa.
Giovanni Palombarini