Il caso Welby


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Tribunale Roma, 15 dicembre 2006 - Ordinanza

 

          Tribunale Roma, 15 dicembre 2006 - Giud. Salvio,

                             Welby c. Antea e altro

1. Con ricorso ex art. 700 cpc proposto ante causam dal sig. Piergiorgio Welby nei confronti della Antea Associazione Onlus e del dott. G. C. è stato chiesto «accertato e dichiarato il diritto del ricorrente ad autodeterninarsi nella scelta delle terapie mediche invasive alle quali sottoporsi e, quindi, il diritto del medesimo ricorrerete di manifestare il proprio consenso a taluni trattamenti ed il rifiuto ad altri; preso atto ed accertato, altresì che il signor Piergiorgio Welby ha espresso, e ribadisce con il presente atto, la propria libera, informata, consapevole e incondizionata volontà a che sia immediatamente cessata l'attività sulla propria persona di sostentamento a mezzo di ventilatore artificiale mentre sia proseguita e praticata la terapia di seduzione terminale; sia ordinato al dott. G. C. e alla Antea Associazione Onlus, soggetti che hanno in cura il ricorrente, di procedere all'immediato distacco del ventilatore artificiale che assicura la respirazione assistita del signor Welby, contestualmente somministrando al paziente terapie sedative che, in conformità con le migliori ed evolute pratiche e conoscenze medico scientifiche, risultino idonee a prevenire e/o eliminare qualsiasi stato di sofferenza fisica e/o psichica del paziente stesso con modalità tali da rispettare momento per momento, sia all'atto del distacco dal respiratore che successivamente, il massimo rispetto delle condizioni di dignità e di sopportabilità del suo stato da parte del paziente; disporre, in ogni caso, tutte le misure ritenute più adeguate a dare concreta attuazione agli interessi e ai diritti esercitati dal ricorrente».

Il ricorrente ha esposto: di essere affetto da anni da un gravissimo stato morboso degenerativo, clinicamente diagnosticato quale "distrofia fascioscapoloomerale; che il progredire della malattia, seguendo un decorso non inatteso, ha comportato che, allo stato odierno, al ricorrente è inibito qualsiasi movimento di tutto il corpo, ad eccezione di quelli oculari e labiali, e la sua sopravvivenza è assicurata esclusivamente per mezzo di un respiratore automatico al quale è collegato dal 1997; che la tipologia del morbo è tale che, sulla base delle attuali conoscenze medico scientifiche, i trattamenti sanitari praticabili non sono in condizione di arrestarne in nessun modo l'evoluzione e, quindi, hanno quale unico scopo quello di differire nel tempo l'ineludibile e certo esito infausto, semplicemente prolungando le funzioni essenziali alla sopravvivenza biologica e il gravissimo stato patologico in cui versa il ricorrente; che, nonostante sia, nel fisico, completamente immobilizzato, il deducente conserva intatte le proprie facoltà mentali ed è, dunque, in grado di esprimere una volontà pienamente informata e consapevole circa l'accettazione o il rifiuto dei detti trattamenti, che, in considerazione del suo grave e sofferto stato di malattia in fase irreversibilmente terminale, dopo essere stato debitamente informato dei trattamenti praticabili e delle relative conseguenze, ha consapevolmente ed espressamente richiesto alla struttura ospedaliera e al medico dai quali è professionalmente assistito, di non essere ulteriormente sottoposto alle terapie di sostentamento in atto e di voler ricevere assistenza nei limiti in cui sia necessario a lenire le sofferenze fisiche; che il ricorrente, in particolare, ha dichiarato, in data 24 novembre 2006, con volontà chiaramente e univocamente espressa, che non consente a proseguire l'utilizzo, sulla propria persona, del ventilatore polmonare, chiedendo espressamente che si proceda al distacco di tale apparecchio, peraltro «sotto sedizione terminale», e, dunque, con espressa indicazione circa la contestualità tra i1 distacco medesimo e il trattamento sedativo teso a scongiurare ulteriori patimenti; che la struttura ospedaliera e il medico curante, in data 25 novembre 2006, hanno, per iscritto, opposto un rifiuto alla richiesta del sig. Welby, assumendo di non poter dare seguito alla volontà espressa dal paziente, in considerazione degli obblighi ai quali si ritengono astretti; che, in particolare, il medico curante, pur non negando di essere «obbligato per legge a rispettare la volontà» del sig, Welby, e dunque ad essere obbligato al distacco del ventilatore polmonare sotto sedazione, rilevato che ciò comporta «pericolo di vita», ha opposto che quando il paziente fosse sedato, e dunque «non più in grado di decidere» scatterebbe immediatamente in relazione al rischio della vita, l'obbligo di «procedere immediatamente» a riattaccare il ventilatore polmonare medesimo al fine di «ristabilire la respirazione»; che il rifiuto opposto alla richiesta del ricorrente è ingiustificato in base alle seguenti argomentazioni: 1) è principio pacifico che il consenso informato costituisce la base di ogni trattamento terapeutico; 2) che esso riceve protezione direttamente da norme di rango costituzionale (artt. 2, 13 e 32 Cost.) e ne consegue che ogni persona può vantare un vero e proprio diritto perfetto a liberamente e consapevolmente determinarsi in ordine al compimento o al rifiuto del compimento di qualsiasi attività invasiva di trattamento o terapia di natura medica e che tale diritto comprende quello di interrompere le terapie alla cui somministrazione sia stato in precedenza, manifestato il proprio assenso - cosa che, tra l'altro non è dato riscontrare nella specie in quanto l'applicazione, all'epoca, del respiratore automatico non venne preceduta da assenso del ricorrente, trovandosi in quel momento nella impossibilità di esprimerlo; 3) che il rapporto tra la libertà di disporre consapevolmente in ordine ai trattamenti terapeutici e la tutela del bene vita deve essere riconsiderato alla luce della evoluzione scientifica che incide sugli eventi naturali, quali il concepimento e la morte, qualificati, per i riflessi che hanno su di essi i progressi scientifici, quali "processi gestibili" e che, in conseguenza, di ciò si chiede, non tanto di opporsi agli eventi naturali, bensì di potere interloquire con quei soggetti (medici) che gestiscono la fase terminale della vita; 4) in forza del diritto ad autodeterminarsi nella scelta sulle caratteristiche, sui termini e sui limiti dei trattamenti cui il paziente intende sottostare, il principio del consenso informato alla interruzione della terapia comporta che il rifiuto cosciente e volontario dei trattamenti sanitari non desiderati viene espresso anche per la situazione successiva alla seduzione, in quanto ben rappresentata ed attuale nella coscienza e volontà del soggetto allorquando consente alla interruzione, e i successivi eventi non costituzione situazioni nuove od imprevedibili rispetto al momento in cui il consenso cosciente e volontario è stato manifestato; che sussiste la necessità di protezione urgente dei diritti del ricorrente, risultando particolarmente intollerabile, a livello psicologico, dover sottostare a terapie sanitarie che egli, a ragione, considera quale indebita ed illecita intrusione nella propria sfera personale e che ritiene, stante la loro sostanziale inutilità per il miglioramento della propria salute, profondamente lesive della propria dignità in quanto non utili neppure a perseguire benefici in termini di qualità della vita, e che il pregiudizio può essere rimosso solo rimuovendo senza indugio le cause che Io determinano.

2. Instauratosi il contraddittorio, si sono costituiti la Antea Associazione Onlus e il dott. G. C., medico e coordinatore della Associazione stessa, e hanno richiesto, in via preliminare, rigettare la domanda per difetto di legittimazione passiva; nel merito, respingere il ricorso. Il pubblico ministero è intervenuto in giudizio, ai sensi dell'art. 70 cpc ed ha concluso che, sotto il profilo dell'esistenza del diritto ad ottemperare il trattamento terapeutico non voluto, con le modalità richieste, il ricorso è ammissibile e va accolta; per ciò che riguarda la possibilità di ordinare ai medici di non ripristinare la terapia il ricorso è inammissibile, perché trattasi di scelta discrezionale del medico.

3. (...) Il principio dell'autodeterminazione e del consenso informato è una grande conquista civile delle società culturalmente evolute; esso permette alla persona, in un'epoca in cui le continue conquiste e novità scientifiche nel campo della medicina consentono di prolungare artificialmente la vita, lasciando completamente nelle mani dei medici la decisione di come e quando effettuare artificialmente tale prolungamento, con sempre nuove tecnologie, di decidere autonomamente e consapevolmente se effettuare o meno un determinato trattamento sanitario e di riappropriarsi della decisione sul se ed a quali cure sottoporsi.

Nel corso degli anni è profondamente mutato il modo di intendere il rapporto medico - paziente, e il segno di questa trasformazione è proprio nella rilevanza assunta dal consenso informato, che ha spostato il potere di decisione del medico al paziente, in cui quest'ultimo è diventato protagonista del processo terapeutico.

Il quadro di riferimento dei princìpi generali si rinviene innanzitutto negli artt. 2, 13 e 32 Cost., e abbraccia la tutela e promozione dei diritti fondamentali della persona della sua dignità e identità, della libertà personale e della salute .

La giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte costituzionale ha fatto emergere l'ampiezza di tale principio, nel senso che qualsiasi atto invasivo della sfera fisica, sia di natura terapeutica che non terapeutica, non può avvenire senza o contro il consenso della persona interessata, in quanto l'"inviolabilità fisica" costituisce il "nucleo" essenziale della stessa libertà personale; mentre, l'imposizione di un determinato trattamento sanitario può essere giustificato solo se previsto da una legge che lo prescrive in funzione di tutela di un interesse generale e non a tutela della salute individuale e se è comunque garantito il rispetto della "dignità" della persona (art. 32 Cost.).

Il principio trova riconoscimento nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e nella Convenzione europea sui diritti dell'uomo e la biomedicina di Oviedo del 1997, ratificata con legge 28 marzo 2001, n. 145, nel Codice di deontologia medica, in molte leggi speciali, a partire da quella istitutiva del Servizio sanitario nazionale.

Il codice di deontologia medica prescrive al medico di desistere dalla terapia quando il paziente consapevolmente la rifiuti (art.32) e, inoltre, nel caso in cui il paziente non è in grado dì esprimersi, la regola deontologica prescrive al medico di proseguire la terapia fino a quando la ritenga «ragionevolmente utile» (art. 37).

Pertanto, il principio dell'autodeterminazione individuale e consapevole in ordine ai trattamenti sanitari, può considerarsi ormai positivamente acquisito ed è collegato al dovere del medico di informare il paziente sulla natura, sulla portata e sugli effetti dell'intervento medico, che è condizione indispensabile per la validità del consenso, ed è il presupposto dialettico del rapporto medico-paziente nonché fondamento di obblighi e responsabilità di quest'ultimo; esso, tuttavia, presenta aspetti problematici in termini di concretezza ed effettività rispetto al profilo della libera e autonoma determinazione individuale sul rifiuto o la interruzione delle terapie salvavita nella fase terminale della vita umana.

Ritiene il giudicante - alla stregua dei principi sopra richiamati e considerati i seguenti elementi: 1) le applicazioni pratiche che dei detti princìpi ha effettuato la giurisprudenza che ad esempio, per quel che più può interessare il caso oggetto di esame, ha ritenuto sussistere in capo alla persona un vero e proprio diritto soggettivo perfetto a rifiutare liberamente e consapevolmente la terapia, anche nel caso in cui quest'ultima consentirebbe di salvare la vita al paziente (ad esempio rifiuto della trasfusione per motivi religiosi), ravvisando il reato di violenza privata nel comportamento del medico che imponesse la terapia contro la volontà del paziente (ad es . Cass, sez. 1, 11 luglio 2002, n. 26646) o che ha ritenuto scrutinate dal consenso informato del paziente prestato prima dell'anestesia tutte le attività mediche, i trattamenti e i rischi prevedibili al momento della prestazione del consenso, che siano stati preventivamente illustrati al paziente e volontariamente accettati prima della perdita di coscienza (v. fra le altre Cass., sez. III, n. 14638/2004); 2) le indicazioni contenute nel codice di deontologia medica, che all'art. 34 prescrive: «se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso»; 3) la disposizione di cui all'art. 9 della Convenzione di Oviedo (ratificata, arche se mancante dell'attuazione della delega di cui all'art. 3 della legge 28 marzo 2001, 145), che dispone che in caso di perdita irreversibile della coscienza bisogna tener conto delle direttive precedentemente espresse dal paziente ; 4) l'intervento del Comitato nazionale per la Bioetica (18 dicembre 2003) che si é occupato delle «dichiarazioni anticipate di trattamento», affermando che esse di iscrivono in un positivo processo di adeguamento dell'atto medico al principio di autonomia decisionale del paziente - che non possa negarsi la rilevanza centrale assunta dal consenso informato del paziente e la positivizzazione del principio dell'autoderminazione della persona in ordine ai trattamenti sanitari nella sua massima espansione, fino a comprendere il diritto di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico e di terapia, di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interrompere la terapia, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale, in cui deve, ritenersi riconosciuta all'individuo la libertà di scelta del come e del quando concludere il ciclo vitale, quando ormai lo spegnimento della vita è ineluttabile, la malattia incurabile e per mettere fine alle proprie sofferenze.

Il tema della rilevanza della volontà individuale nel caso dei malati terminali da tempo anima il dibattito scientifico, filosofico, religioso e giuridico - anche sulla spinta del confronto con le esperienze di altri Paesi europei e non, in cui in qualche misura si é colto l'impegno negli ultimi anni per la predisposizione di una regolamentazione della materia: v. in particolare Olanda, Belgio, Stati Uniti, Canada, Australia, Inghilterra - e appare segnato da questioni eticamente laceranti, che tuttavia non possono essere ignorate perché già penetrate profondamente nella coscienza civile e nella pratica della medicina, specie laddove la terapia di mantenimento in vita viene continuata contro la volontà del paziente, quando si trovi in condizioni talmente gravi da far ritenere di voler negare al malato una morte dignitosa, prolungando una sofferenza oramai insostenibile .

4. Il nodo centrale è che, siccome l'ordinamento giuridico va considerato nell'intero complesso, appare non discutibile che esso non preveda nessuna disciplina specifica sull'orientamento del rapporto medico-paziente e sulla condotta del medico ai fini dell'attuazione pratica del principio dell'autodeterminazione per la fase finale della vita umana, allorché la richiesta riguardi il rifiuto o l'interruzione di trattamenti medici di mantenimento in vita del paziente; anzi, il principio di fondo ispiratore è quello della indisponibilità del bene vita: v, art. 5 del codice civile, che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente e, soprattutto gli artt. 575, 576, 577, 1 comma, n. 3, 579 e 580 del codice penale che puniscono, in particolare, l'omicidio del consenziente e l'aiuto al suicidio.

Rispetto al bene vita esiste, altresì, un preciso obbligo giuridico di garanzia del medico di curare e mantenere in vita il paziente: «anche su richiesta del malato non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a procurare la morte» (art. 35 del codice deontologico) e «in caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera all'assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità della vita. In caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile. Il sostegno vitale dovrà essere mantenuto sino a quando non sia accertata la perdita irreversibile di tutte 1e funzioni dell'encefalo» (art. 37 del codice deontologico).

E allora lo sforzo di attuazione del principio della libertà individuale e di elaborazione del "contenuto" del consenso per le scelte di trattamento medico di fine vita nei malati terminali, tema molto presente nella sensibilità culturale, scientifica, etica e religiosa generale, richiede necessariamente il superamento della impostazione formale della generale doverosità giuridica del mantenimento in vita del paziente e il leale ripensamento delle categorie distintive fra comportamenti passivi e comportamenti attivi del medico, in particolare valorizzando l'essenza e il rispetto della dignità umana, la qualità della vita e facendo ricorso ai concetti di futilità o inutilità del trattamento medico, di incurabilità della malattia, dì insostenibilità della sofferenza e di condizioni degradanti per l'essere umano .

Il Comitato nazionale per la Bioetica è intervenuto muovendo dalla premessa che la morte non può essere considerata come un mero evento biologico o medico, essendo essa portatrice di un significato nel quale deve essere individuata la radice della dignità dell'essere umano. La morte assegna all'essere umano un compito morale, che é quello di trovare un senso che guidi ed assicuri la sua libertà.

Alla luce di questa visione, il CNB considera criticamente ogni ipotesi di accanimento terapeutico, che volendo prolungare indebitamente il processo irreversibile del morire si pone contro la consapevolezza del soggetto alla propria invincibile caducità. L'accanimento terapeutico viene definito come un trattamento di documentata inefficacia in relazione all'obiettivo, a cui si aggiunge la presenza di un rischio elevato per il paziente di ulteriori sofferenze, in un contesto del quale l'eccezionalità dei mezzi adoperata risulta chiaramente sproporzionata rispetto agli obiettivi .

L'art. 14 del codice deontologico medico vieta l'accanimento diagnostico­-terapeutico: «1l medico deve astenersi dall'ostinazione in trattamenti, da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita».

Alcuni spunti di elaborazione, del tutto condivisi da questo giudicante, possono trarsi dal decreto della Corte d'appello di Milano del 26 novembre 1999 (anche se riguarda un caso differente di paziente in stato vegetativo persistente, per il quale era stata richiesta l'interruzione delle cure mediche che consentivano il protrarsi dello stato vegetativo, nonché l'alimentazione artificiale): «Il dovere giuridico, etico, deontologico del medico si arresta di fronte all'íncurabilità della malattia, giacché ogni protrazione della terapia, trasformando il  paziente da soggetto ad oggetto, viola la sua dignità. Nell'accezione più accreditata invero l'accanimento terapeutico, si presenta come una cura inutile, "futile", sproporzionata, non appropriata rispetto ai prevedibili risultati, che può, pertanto, essere interrotta, perché incompatibile con i principi costituzionali, etici e morali di rispetto, di dignità della persona umana, di solidarietà».

Può, pertanto, affermarsi che il divieto di accanimento terapeutico è un principio solidamente basato sui princìpi costituzionali di tutela della dignità della persona, previsto nel codice deontologico medico, dal Comitato nazionale per la Bioetica, dai trattati internazionali, in particolare dalla Convenzione europea, nonché condiviso anche in prospettiva morale religiosa.

5. Esso, tuttavia, sul piano dell'attuazione pratica del corrispondente diritto del paziente ad "esigere" e a "pretendere" che sia cessata una determinata attività medica di mantenimento in vita (il problema si è posto, in particolare, per l'alimentazione e l'idratazione forzate e, come nel caso di specie, per la respirazione assistita a mezzo dì ventilatore artificiale), in quanto reputata di mero accanimento terapeutico, lascia il posto alla interpretazione soggettiva e alla discrezionalità nella definizione di concetti si di altissimo contenuto morale e di civiltà e di intensa forza evocativa (primo fra tutti "la dignità della persona") ma che sono indeterminati e appartengono a un campo non ancora regolato dal diritto e non suscettibile di essere riempito dall'intervento del giudice, nemmeno utilizzando i criteri interpretativi che consentono il ricorso all'analogia o ai princìipi generali dell'ordinamento.

Ciò perché i princìpi sono incerti ed evanescenti, manca una definizione condivisa e accettata dei concetti di "futilità" del trattamento, di quando l'insistere con trattamenti di sostegno vitale sia ingiustificato o sproporzionato, degli stessi concetti di insostenibilità della qualità della vita o di degradazione della persona da soggetto ad oggetto e perché non esistono linee-guida di natura tecnica ed empirica di orientamento dei comportamenti del medici che, in definitiva, riempiano di contenuti il "divieto di accanimento terapeutico" e il correlativo diritto a far cessare l'accanimento stesso con la richiesta di interruzione della terapia di sostentamento vitale (va ricordato, altresì  che non sono ancora stati emanati i decreti per l'attuazione della legge 145/2001).

Siccome un diritto può dirsi effettivo e tutelato solo se l'ordinamento positivamente per esso preveda la possibilità di realizzabilità coattiva della pretesa, in caso di mancato spontaneo adempimento alla richiesta del titolare che intenda esercitarlo, va osservato che, nel caso in esame, il diritto del ricorrente di richiedere la interruzione della respirazione assistita ed distacco del respiratore artificiale, previa somministrazione della sedazione terminale, deve ritenersi sussistente alla stregua delle osservazioni di cui sopra, ma trattasi di un diritto non concretamente tutelato dall'ordinamento; infatti, non può parlarsi di tutela se poi quanto richiesto dal ricorrente deve essere sempre rimesso alla totale discrezionalità di qualsiasi medico al quale la richiesta venga fatta, alla sua coscienza individuale, alle sue interpretazioni soggettive dei fatti e delle situazioni, alle proprie concezioni etiche, religiose e professionali (come dimostra anche il diniego alla richiesta del sig. Welby da parte del dott. G. C. che, come egli ha chiarito in udienza, è anche collegato alle sue personali convinzioni etiche e professionali, essendo un sostenitore della cura dei malati terminali con cure palliative e che ha affermato che nel caso di Welby «non c'è accanimento terapeutico perché il respiratore non é "futile". Se io stacco il respiratore il paziente muore»: v. dichiarazioni a verbale effettuate all'udienza del 12 dicembre 2006).

In altri termini, in assenza della previsione normativa degli elementi concreti, di natura fattuale e scientifica, di una delimitazione giuridica di ciò che va considerato "accanimento terapeutico", va esclusa la sussistenza di, una forma di tutela tipica dell'azione da far valere nel giudizio di merito e, di conseguenza, ciò comporta la inammisibilità dell'azione cautelare, attesa la sua finalità strumentale e anticipatoria degli effetti del futuro giudizio di merito.

Solo la determinazione politica e legislativa, facendosi carico di interpretare la accresciuta sensibilità sociale e culturale verso le problematiche relative alla cura dei malati terminali, di dare risposte alla solitudine e alla disperazione dei malati di fronte alle richieste disattese, ai disagi degli operatori sanitari e alle istanze di fare chiarezza nel definire concetti e comportamenti, può colmare il vuoto di disciplina, anche sulla base di solidi e condivisi presupposti scientifici che consentano di prevenire abusi e discriminazioni (allo stesso modo in cui intervenne il legislatore per definire la "morte cerebrale" nel 1993) .

Considerate la delicatezza e la novità della questione appare equo disporre la integrale compensazione delle spese di. lite fra le parti

 

per questi motivi

 

visto l'art. 669 septies cpc;

il giudice, pronunciando sul ricorso ex artt. 669 ter e 700 cpc proposto dal sig. Piergiorgio Welby nei confronti della Antea Associazione Onlus e del dott. G. C., ogni altra istante disattesa, così provvede:

dichiara la inammissibilità del ricorso e compensa integralmente le spese processuali fra le parti

17 10 2007
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