di Michela Pereira
Il ‘soffitto di cristallo' è una realtà ben nota in tutti i contesti
della vita pubblica, sia nelle professioni che in politica e
nell'ambito della formazione superiore, dove alla formale parità delle
possibilità d'accesso e delle condizioni di lavoro per donne e uomini
-in genere conquista piuttosto recente- si accompagna la tensione fra
la presenza numerica delle donne e la possibilità del loro accesso ai
livelli dirigenziali; tensione che si fa più evidente col passare del
tempo, perché è soltanto dopo un certo numero di anni di permanenza in
un contesto lavorativo o di rappresentanza politica che si può
constatare, sia soggettivamente che oggettivamente, il divario fra le
possibilità nominalmente inerenti l'accesso a una professione o a una
carriera politica e la loro effettiva realizzazione. Dove ha origine
questa tensione, qual è il suo significato, quale uso è possibile
farne?
Nel 1919, concludendo il suo studio, Working life of women in
the seventeenth century, -un classico della storia delle donne - Alice
Clark scriveva: «Possiamo chiederci se l'instabilità, la superficialità
e la povertà spirituale della vita moderna non derivino
dall'organizzazione di uno Stato che prende in considerazione gli scopi
della vita soltanto dal punto di vista maschile, e forse possiamo
sperare che quando questo meccanismo sarà stato rimpiazzato da
un'organizzazione che tenga conto dell'intera realtà, che è sia
maschile che femminile, l'umanità vedrà rinnovarsi l'energia che la
renda capace di fronteggiare la forza cieca del capitalismo.» Per
quanto scritte quasi un secolo fa, queste parole mi sembra tocchino un
punto sul quale ancor oggi si può utilmente riflettere, ovvero la
matrice unilaterale -maschile- degli obiettivi che informano la vita
pubblica. Se è vero, come asserisce Geneviève Fraisse, che non si può
certo definire ‘patriarcale' la società in cui viviamo, essendo venuta
a cadere l'identificazione ideologica fra sovranità e paternità,
dobbiamo constatare che questa disidentificazione non ha prodotto un
riassetto degli obiettivi e delle strutture simboliche, sia nell'ambito
della politica che nel mondo del lavoro, delle professioni e della
formazione superiore. La solidarietà fra uomini, il contratto sessuale
che Carole Pateman ha individuato all'origine dello Stato moderno,
permane e con essa l'esclusione delle donne in quanto tali dal potere
di contrarre il patto fondativo.
Come sinteticamente scrive Anna Loretoni: « ... la costruzione
dell'ordine pubblico ha infatti lasciato fuori l'ordine domestico,
privato, pensato in termini di naturalità. La donna non partecipa allo
spazio pubblico e alla sua costruzione proprio in quanto legata ad una
dimensione in cui non si dà scelta, responsabilità, ma destino,
necessità, natura ...Alla sfera pubblica, in quanto sfera in cui agiscono
soggetti uguali, liberi e responsabili, viene contrapposta la sfera
privato/domestica, in quanto ambito di azione di soggetti la cui
attività è sottoposta alla necessità determinata dalla natura, ed è
quindi non libera per definizione ... se la sfera privata riceve valore
da quella pubblica, solo quest'ultima è il vero centro dell'azione
dell'essere umano nel mondo ... Se così stanno le cose, rispetto alla
soggettività femminile esclusa dallo spazio pubblico, occorre operare
allora non un semplice riconoscimento, ma un nuovo riconoscimento,
quello di una soggettività arricchita di nuovi contenuti ...» Non una
semplice inclusione delle donne nello spazio pubblico, una sussunzione
del femminile all'universale neutro-maschile, ma un'operazione nuova e,
sicuramente, complessa.
Assumere il ‘punto di vista maschile' come universale è certamente
un'operazione possibile alle donne, esseri umani raziocinanti: molte
individualmente lo hanno fatto e lo fanno -ne siano coscienti o meno-,
e del resto possiamo in questi termini caratterizzare, sul piano
collettivo, la spinta ugualitaria del primo femminismo moderno (dalla
rinascimentale querelle des femmes al suffragismo di fine Ottocento
all'emancipazionismo del secondo dopoguerra). Come ha osservato ancora
la filosofa Geneviève Fraisse, «nel quadro dell'universalismo si
potevano porre delle richieste forti di diritto, ragionando in termini
universali». Ma l'assunzione del punto di vista maschile, la
rivendicazione dell'uguaglianza, lascia nel non-detto tutti gli aspetti
simbolicamente femminili, cioè collegati alla riproduzione della vita e
alle relazioni -quello che Elena Pulcini chiama Il potere di unire- che
la modernità ha collocato nell'ambito privato, e che il riconoscimento
della differenza introdotto dal secondo femminismo, il femminismo degli
anni Settanta, ha segnalato come problema fondamentale anche dal punto
di vista teorico. Il problema, che enunciato filosoficamente è quello
di ‘come collocare la differenza nell'universale', ha un peso non solo
teorico nella vita di tutte, dove si articola come tensione fra la
percezione di sé come individuo (essere umano libero e ‘uguale') e
quella di sé come donna.
Nelle conclusioni di una recente indagine focalizzata a mettere a fuoco
Come si perpetuano le disuguaglianze nei luoghi di lavoro?, Francesca
Giovani segnala che «le scale di autovalutazione delle capacità
professionali di donne e uomini sono risultate pressoché identiche.
L'unica differenza di rilievo tra i due gruppi riguarda un minor grado
di fiducia da parte della componente femminile nei confronti delle
proprie capacità.» Possiamo sensatamente chiederci se il ‘minor grado
di fiducia' che le donne esprimono in relazione alle proprie capacità
di lavoro non sia espressione della consapevolezza di una discrasia
strutturale fra l'affermazione della propria soggettività femminile
-ovvero di una differenza irriducibile all'universale, che nel panorama
italiano è stata introdotta dagli studi di Luce Irigaray e a cui dedica
la sua riflessione da anni la comunità filosofica di Diotima- e i
valori che governano, esplicitamente o implicitamente, la sfera
pubblica in tutte le sue espressioni. Consapevolezza acquisita
anch'essa nel tempo, perché nel momento dell'affermazione forte della
soggettività delle donne -nel secondo femminismo dei ‘mitici' anni
Settanta, caratterizzato da due slogan significativi per questo
discorso: «il privato è politico» e «io sono mia»- l'energia
sprigionata dalla riappropriazione della differenza sembrava in grado
di abbattere le montagne; mentre oggi, a una generazione di distanza,
misuriamo il limite e il prezzo di ogni conquista fatta. Lo misuriamo
nella lontananza fra la generazione che ha vissuto quel femminismo e le
più giovani, lontananza che si esprime come difficoltà a trasmettere il
significato di quell'esperienza; lo misuriamo nel continuo vederci
riproporre in forma banalizzata o come puro e semplice pregiudizio
(nella scienza, nella politica, nei media) i frutti della nostra
riflessione: i temi del corpo, della maternità, della cura; lo
misuriamo nella distanza dal potere, nonostante la presenza nell'agenda
politica, e non solo europea, della problematiche dell'empowerment e
delle pari opportunità, che sono affermate come temi mainstream quando
ancora la loro realizzazione è parziale e imperfetta (come, fra
l'altro, ci ricorda Franca Borgogelli nell'intervento a questo stesso
seminario).
Uguaglianza, differenza, potere sono tre termini chiave per
caratterizzare il posizionamento delle donne nella vita pubblica. Tre
termini che ritroviamo anche nelle ricostruzioni dei percorsi delle
donne nella storia, effettuati negli studi storici degli ultimi decenni
impostati a partire dai temi della differenza e del genere. Alla forte
sottolineatura della differenza nell'antichità, emblematicamente
raffigurata nella separazione degli spazi domestici e rafforzata da
mille elementi simbolici, si contrappone l'affermazione
dell'uguaglianza ‘di fronte a Dio' nel primo cristianesimo. Ma le donne
erano pur sempre escluse dall'esercizio del potere, tanto nella vita
della polis quanto nell'ecclesìa. L'innesto dell'elemento barbarico,
nei primi secoli del medioevo, introduce aspetti di ascendenza
matriarcale che riconosciamo nelle vicende delle regine merovinge e
delle sante fondatrici alto-medievali, di fronte ai quali i padri della
chiesa si interrogano però chiedendosi «se una donna possa essere
compresa nel termine homo», che indica l'umanità tout-court. Nel
monachesimo le donne possono accedere a posizioni di effettivo potere
anche all'interno della chiesa, ma mai al sacerdozio; e a partire dal
Duecento si ritrovano escluse dall'alta cultura e da ogni sfera
decisionale, tanto da far sorgere a livello storico un interrogativo
radicale: did women have a Renaissance? No, rispondono molte ricerche
storiche: mentre il corpo delle donne è assoggettato al controllo
maschile e la differenza femminile diviene segregazione, le donne
-quelle poche in grado di prendere la parola nella cosiddetta querelle
des femmes- iniziano quella rivendicazione dell'uguaglianza che
ritroveremo nei femminismi dell'età moderna, da Olympe de Gouges al
suffragismo, mentre la dicotomia privato/pubblico racchiude la
differenza femminile e i valori ad essa collegati nell'ambito della
vita familiare, dove si sviluppa il ‘potere di riscatto' delle donne
legato alla potenza materna. La storia dell'Occidente, sorvolata a volo
radente da uno sguardo femminile, si mostra come una contraddittoria
altalena che nell'Ottocento sfocia nella complementarietà fra
l'immagine idealizzata dell'Eterno Femminino (proiezione
dell'immaginario maschile) e la domanda freudiana senza risposta, «che
cosa vuole la donna?»; mentre il Novecento, con la massiccia uscita
delle donne dalle case durante le due guerre mondiali e l'accesso
all'istruzione e alle professioni, vede crearsi le condizioni perché
l'esperienza femminile si scontri con un mondo pubblico declinato al
maschile: le condizioni cioè perché si crei la tensione fra la presenza
delle donne nella sfera pubblica e il loro accesso al potere.
Perché questo sembra in questione: forse le donne vogliono
semplicemente, come gli uomini, ‘il potere', cioè «la capacità e la
possibilità di influire sulle decisioni negli ambienti in cui si opera»
, secondo la definizione accolta da Vittoria Franco. Ma come esercitare
potere, una volta uscite dalle case dove nel corso dei secoli avevano
imparato a tessere coi fili della loro potenza materna un potere
obliquo rispetto al mondo esterno, un potere fatto di gestione del
corpo proprio e di quello dei figli, dalla nascita e per tutta
l'infanzia, fatto di relazioni e parole fra donne? « In alcune sessioni
di presa di coscienza dei primi anni Settanta, scrive la storica Luisa
Passerini, affiorava la convinzione che il tipo di potere ottenibile
con la parità non fosse sufficientemente desiderabile, anche qualora
quella parità fosse stata davvero completa e impeccabile. La
condivisione del potere esistente appariva del tutto insufficiente, non
solo da una prospettiva ‘a valle', per usare una terminologia di quel
decennio, cioè una prospettiva volta verso un futuro che ci si
immaginava aperto a grandi e radicali cambiamenti anche nella gestione
del potere, ma soprattutto in senso antropologico, da una prospettiva
‘a monte', che tenesse conto della soggettività delle donne così come
si era esplicitata storicamente.» Una riflessione sul rapporto fra
donne e potere l'avevamo impostata, un gruppo di storiche e filosofe
riunite nel ‘Laboratorio sul genere' dell'Istituto Gramsci Toscano, una
decina d'anni fa, con la precisa intuizione che fosse possibile uscire
dalla rigidità di un'idea di potere immutabilmente connotata al
maschile, senza però approdare ad una dicotomica contrapposizione di
categorie: di questa riflessione abbiamo dato conto in un volume
collettivo pubblicato dieci anni fa, Il femminile fra potenza e potere.
Ho letto continuità con i risultati di quella riflessione nelle parole
di Vittoria Franco, componente del Laboratorio, quando più di recente
scrive che le donne «esprimono una diversa concezione del potere, che
non è esclusiva, che non è manifestazione di potenza individuale. Per
le donne esso corrisponde più facilmente a esercizio di autorevolezza,
che non perde mai la dimensione delle relazioni.» Anche un altro
contributo di una delle componenti del Laboratorio sul genere, Anna
Scattigno, mi conforta nel provare a prendere come segnale, per una
ricerca del potere ‘dal punto di vista delle donne', proprio il termine
di autorevolezza, che nella più immediata delle accezioni significa
«stima, credito, fiducia che si impongono in quanto fondati sulla
personalità di chi ne gode» (Devoto-Oli) e ci riporta dunque alla
problematica della percezione che le donne hanno di sé in relazione al
mondo. Anna Scattigno utilizza il termine ‘autorevolezza' a proposito
dell'azione riformatrice di Maria Maddalena de' Pazzi, che con forte
presa simbolica affermava che «gli uomini si servono e del lume della
luna e di quel del sole, massimo si servono di quel della luna nel
tempo della notte» per sottolineare la diversità di sapere e di potere
tra maschile e femminile nell'ambito religioso e civile. Prima dell'età
moderna, in special modo ma non solo nel contesto della vita religiosa,
troviamo più di un esempio di donne che, attribuendo autorevolezza alla
propria esperienza femminile, hanno saputo esercitare un potere inteso,
secondo la definizione che ne abbiamo data, come «capacità e
possibilità di influire sulle decisioni negli ambienti in cui si
opera»; una potere che si esprime attraverso la presa di parola
pubblica, ma che viene accolto dal mondo degli uomini quasi
esclusivamente come rimedio eccezionale, ‘profetico', nei contesti di
crisi, ambiguamente valorizzato e sottoposto a controllo. Un esempio di
profezia femminile del passato molto noto e valorizzato dagli studi
delle donne è la badessa benedettina Ildegarda di Bingen, vissuta nel
XII secolo; pur sottolineando le difficoltà e i pericoli del muliebre
tempus nel quale viveva, e la debolezza della sua figura di paupercula
mulier, e senza sottrarsi ai vincoli del suo mondo, con la sua presa di
parola Ildegarda costruì il presupposto teorico e operò tenacemente per
costruire una realtà duale, ma non dualista, in cui la forza maschile e
la delicatezza femminile si integrassero a tutti i livelli, dal cosmo
al corpo umano al percorso della storia. Analizzando da vicino i suoi
scritti e la sua biografia, si vede bene come in epoca premoderna
potesse interagire col mondo una ‘coscienza femminile': definizione che
non equivale (per James Hillman, e anche per chi scrive) alla coscienza
che accompagna il sesso biologico femminile ma alla «coscienza che ha
un aspetto femminile integrato», ovvero alla capacità di attribuire
valore alla corporeità, alla funzione materna, alla relazione
intendendoli nella loro trascendenza come funzioni dello spirito.
Lo sguardo psicologico di Hillman, che suggerisce di guardare
alla storia come ad un ‘viale degli archetipi', permette di comprendere
quali possibilità siano date, nel presente, dall'approccio a figure
femminili del passato che propongono al nostro immaginario modalità di
rapporto col reale al di fuori degli schemi di oggi. Ma in questo sta
anche il limite di questo approccio, perché è oggi che la questione del
rapporto delle donne col potere si pone e, al di là di ogni suggestione
proveniente dal passato, è una risposta per il nostro tempo quella che
andiamo cercando.
Allora, come costruire oggi un'autorevolezza che doti le donne
della fiducia necessaria per provare a spezzare il ‘soffitto di
cristallo'? La traccia di una risposta possiamo trovarla
nell'esperienza della prima teorica italiana del femminismo degli anni
Settanta, Carla Lonzi, che lucidamente ha riconosciuto come
«l'uguaglianza tra i sessi sia la veste in cui si maschera oggi
l'inferiorità della donna». La differenza sessuale coscientemente
assunta mette in questione l'universale, non per sostituire un
universale con un altro, un potere femminile ad un potere maschile, ma
collocandosi asimmetricamente rispetto alla definizione stessa, quella
maschile, del potere come dominio: «sul piano donna-uomo non esiste una
soluzione che elimini l'altro». La posizione di chi si riconosce
differente non mira ad inserirsi, diventando uguale, o ad assumere il
dominio perseguendo un semplice mutamento di segno dell'unilateralità,
ma vuole piuttosto «operare un mutamento globale della civiltà che l'ha
escluso»: è proprio qui che la differenza donna/uomo mostra la sua
valenza radicale, paradigmatica rispetto alla possibilità di pensare
ogni differenza. Da sempre peraltro, sostiene ancora Carla Lonzi, le
donne hanno contribuito al mondo degli uomini mettendo a disposizione
il ‘di più' che è proprio della relazione, rimanendo tuttavia al di
fuori della costruzione del sapere. Il momento chiave è allora, per
lei, l'esperienza del confronto reciproco nei gruppi, «momento non
prestigioso» ma essenziale di una trasformazione globale, perché rende
possibile evidenziare, scrive Maria Luisa Boccia, «come la relazione su
cui si incardina tutta la sfera pubblica, che determina il primato
dell'agire politico, sia del tutto opaca rispetto al problema della
donna (duplicare la coscienza del mondo)».
Quello che troviamo negli scritti di Carla Lonzi, e
nell'esperienza delle relazioni fra donne che ha costituito l'asse
portante della presa di coscienza di una soggettività differente, non è
una ‘ricetta dell'autorevolezza', un pensiero in qualche modo
normativo, ma l'indicazione di un percorso di costruzione di coscienza,
in cui il passaggio tra donne dei saperi ricavati dalla propria
esperienza -e oggi in special modo le attività di formazione, dove
avviene la trasmissione dei saperi e la condivisione di percorsi di
donne di generazioni diverse- riveste un'importanza fondamentale. Solo
il riconoscimento della diversità tra le donne, infatti, e il confronto
continuo fra i tanti modi diversi di vivere la tensione fra i valori
dell'uguaglianza e quelli della diversità, può produrre nel mondo le
trasformazioni necessarie perché ciascuna (e ciascuno) sia messa in
grado di percepire e valorizzare appieno le proprie capacità. In questo
contesto ogni strumento, se consapevolmente assunto come tale, con un
preciso calcolo delle potenzialità e dei rischi che contiene per
l'integrazione della differenza femminile nella vita pubblica, può
essere utile: leggi e organismi di parità, azioni positive, forse anche
le quote (strumento a mio avviso il più rischioso di tutti, per il suo
elevato tasso di ambiguità). Ma nessuno strumento è di per sé
sufficiente a esprimere una ‘coscienza femminile' capace di dare
continuità e valenza politica alla trasmissione dei saperi prodotti
dalle donne, di integrarne i contenuti alla realtà sociale senza
adeguarli, più o meno coscientemente, al sistema simbolico dominante
ancora impregnato dell'equazione ‘umano=maschile', di operare una
trasformazione che faccia dello spazio pubblico il luogo di confronto
di una realtà che è due, e che proprio per questo può aprirsi alla
pluralità.