di Daniele Cappuccio
Noi che ci impegniamo “da sinistra” nell’associazionismo giudiziario viviamo giorni non facili … il disorientamento, la perdita di entusiasmo di tanti che hanno lavorato insieme a noi in passato, la difficoltà di trovare nuovi compagni di strada, di coinvolgere i magistrati più giovani nell’impegno associativo… questo, in un contesto più generale di progressivo ma, almeno in apparenza, inesorabile deterioramento delle condizioni di lavoro negli uffici… l’incomunicabilità con la politica, la sfiducia nella politica, la difficoltà nel rapportarsi a strati ancora minoritari ma, purtroppo, via via più larghi, di colleghi, giovani e meno, che, per varie ragioni ed in esito ai percorsi più disparati, si lasciano tentare da una concezione conformista e burocratica del nostro ruolo, e, magari, sedurre dalle sirene di chi - ancora qualche anno fa lo avremmo reputato impossibile - costruisce il proprio successo sulla strumentale enfatizzazione di questioni, pure importanti, quale quella retributiva e della sostenibilità dei carichi di lavoro, che noi ci sforziamo, invece, di leggere in un quadro complessivo ed armonico.
Questi sono fattori che incidono deprimendolo – e non potrebbe essere diversamente, possiamo convenirne - sullo stato d’animo anche del più convinto dei militanti di un gruppo come magistratura democratica, che inducono riflessioni, ripiegamenti, allarme ma che, almeno in me, generano anche una gran voglia di reagire, di trovare stimoli e di dare nuovo slancio all’impegno individuale e collettivo.
Sì, perché, se l’alternativa è quella del rifugio di ciascuno nel privato, nell’ambito strettamente professionale, nelle quattro mura degli uffici, io, allora, non ho alcuna remora nello scegliere una strada diversa e, oggi, più faticosa, che mi porti, come è stato da quando, uditore senza funzioni, ho cominciato a partecipare alla vita associativa, a cercare nel confronto con gli altri – se del caso, altamente dialettico – l’essenza più intima e, in uno, la dimensione sociale del lavoro che svolgo.
E’ un bisogno che nasce dal mio modo di essere, dall’educazione che ho ricevuto, dai valori e dalle idee che mi sono stati inculcati e che – magari con contraddizioni e poca linearità - ho praticato.
Ma è un bisogno (che oggi traduco in una nuova candidatura al consiglio nazionale) che è ancora più forte in ragione del fatto che ho vissuto sinora tutta la mia esperienza di magistrato in Calabria e Sicilia, nelle regioni dell’estremo Sud, meno ricche ed evolute, gravate dalla presenza della criminalità organizzata, cui spesso fanno da contraltare l’assenza dello Stato e delle sue istituzioni, quel Sud dove può sembrare addirittura canzonatorio parlare di sintesi tra la legittima aspirazione dei cittadini alla sicurezza, da un lato, ed alla giustizia sociale, dall’altro, e dove, piuttosto, devastanti sono gli effetti dell’incombente processo di marginalizzazione della giurisdizione, della crescente sottrazione di spazi di intervento alla tutela dei diritti, specie quelli degli ultimi e dei più indifesi.
Un Sud dove c’è ancora tanto bisogno di md, delle cose che ha detto e di quelle che ha da dire, e dove eclatante è l’impatto dei temi di questo congresso.
E così, sul versante dell’organizzazione, parliamo pure di efficienza, cioè della necessità di allestire un servizio più funzionale ed effettivo, e parliamone come valore positivo, mentre, al contrario, qualifichiamo in senso deteriore come efficientismo un approccio burocratico e miope, finalizzato soprattutto a far sparire, a qualunque costo, un fascicolo dalla nostra scrivania, un approccio che diviene fonte di diseconomie – e, quindi, di inefficienze - nel momento in cui l’ansia quantitativa e produttivistica (che a volte mi sembra si stia impadronendo anche dei migliori tra noi) finisce con il generare in progressione geometrica incidenti ed impugnazioni, oltre che, effetto ancora più deleterio, sostanziali e profonde ingiustizie.
Ma, se md vuole parlare, come fa egregiamente, di organizzazione ed efficienza, non può trascurare cosa si nasconde dentro le pieghe del sistema, come, ad esempio, nel settore penale, il processo, che pure è zeppo di istituti che si dice essere posti a presidio del contraddittorio e del diritto di difesa e che, visti nel loro complesso, ne rallentano la marcia (Juanito ha parlato, ancora nella relazione di ieri, di corsa ad ostacoli), sia molto efficiente, io dico troppo efficiente, quando ad essere toccate sono le fasce della popolazione svantaggiate dal punto di vista economico e sociale, gli immigrati, i criminali da strada ma, dobbiamo dirlo, anche la manovalanza spicciola al servizio delle compagini mafiose, grandi e piccole.
Diversamente, il sistema penale diventa sempre più lento, farraginoso, estenuante in misura direttamente proporzionale alla potenza economica, al rango sociale, alla rete di protezioni dei soggetti che da esso vengono toccati, sino a giungere sovente alla paralisi quando si lambiscono i santuari della politica e dell’amministrazione e delle loro cointeressenze con i poteri illegali che, in certe zone, governano il territorio.
Inefficienze, difficoltà, che sono tanto più esiziali in quanto privano di effettività un intervento, quello giurisdizionale, che spesso costituisce – e certo non per volontà dei magistrati, ma piuttosto per la colpevole latitanza delle altre istituzioni preposte – l’unico presidio contro il dilagare dell’abuso e della prevaricazione nell’esercizio dei pubblici poteri.
Non dissimili sono le peculiarità delle questioni che afferiscono all’autogoverno: penso, tra le altre, alla nomina dei dirigenti, attività che, in determinati contesti ambientali e sociali, assume rilevanza e delicatezza più spiccate, tanto da convincermi che, in tempi in cui le differenze tra gli schieramenti politici si sono edulcorate, a volte la scelta di un Procuratore della Repubblica o di un Presidente di Tribunale ha incidenza sulla vita di una città e dei suoi abitanti maggiore di quella del Sindaco o del Presidente della Provincia.
Qui, secondo me, occorre aprirsi alle sollecitazioni che provengono da altri settori della magistratura progressista e chiedersi se esista o meno, dentro md e la sua dirigenza, il tabù della primazia della matrice culturale, quando non addirittura dell’appartenenza correntizia, sulle qualità personali e professionali dei candidati.
Il problema ha portata più generale, e investe un’amplissima gamma di scelte compiute nell’autogoverno: la formazione, centrale e decentrata, gli uffici di collaborazione, il comitato scientifico, e l’elenco potrebbe continuare…
Sul punto bisogna essere chiari, anche a costo di risultare sgradevoli: nelle assemblee, negli uffici ed in ogni luogo di discussione è diffusa la contestazione, nei confronti del nostro gruppo, di avere abbinato – io direi tradito - l’affermazione orgogliosa dei principi con l’adesione a prassi non sempre nobilissime, vale a dire di avere privilegiato oltremodo canoni di omogeneità, anche quando la specificità della funzione di cui si discuteva era neutra rispetto all’orientamento ideale ed al vissuto associativo dell’aspirante.
So bene che, riportata in modo così brutale, l’affermazione può essere facilmente tacciata di qualunquismo e di non rispondenza alla realtà; io, però, l’ho voluta menzionare ugualmente perché, se vogliamo veramente affrancarci dal rischio dell’elitarismo e dell’autoreferenzialità, dobbiamo sapere cosa gli altri pensano di noi e chiederci, subito dopo, con franchezza e senza infingimenti, fino a che punto siamo alieni da critiche e reprimende per poi concretizzare i frutti della nostra riflessione nell’orientare le condotte future, nella consapevolezza che su questo terreno si gioca la nostra credibilità di gruppo che fa dell’etica e della trasparenza vessilli irrinunciabili.
E allora – mi fermo qui con gli esempi per contenere l’intervento nei tempi stabiliti – la crisi, il disagio, l’esitazione non afferiscono, a mio giudizio, al catalogo dei valori di eguaglianza e solidarietà ai quali md si ispira; né ha senso discorrere di fuga dall’ideologia in un frangente in cui i riferimenti ideali, per chi ha la fortuna di averli, rappresentano appigli che danno un minimo di conforto e sicurezza, e che, se sciaguratamente abbandonati in ossequio ad un ottuso modernismo, esporrebbero il gruppo al rischio dello svuotamento culturale e programmatico e, in definitiva, dell’omologazione, della fine della felice eresia di cui magistratura democratica è stato ed è frutto fecondo.
Stretti, quindi, tra le opposte prospettive, secondo me entrambe nefaste, del sacrificio dell’identità e dell’arroccamento, non resta, credo, che praticare la terza via dell’apertura e dell’umiltà, del dialogo a tutto campo e soprattutto, lo ripeto, della virtuosa applicazione, nella quotidiana attività che ciascuno di noi svolge negli uffici giudiziari prima ancora che nei luoghi dell’autogoverno e dell’associazionismo, dei principi ispiratori che costituiscono la ragion d’essere di magistratura democratica.
Così facendo – parlo per slogan, o meglio prendo a prestito qualche titolo famoso - continueremo ad essere giudici a sinistra, scomodi e curiosi, e custodi dei diritti, equilibrati e corretti nell’esercizio del mestiere ma forti dal coraggio di chi, senza sentirsi investito di una missione, ha ben presente la valenza sociale delle proprie decisioni.
In conclusione, il dilemma che si pone a questo congresso non va letto nella mera chiave del recupero del consenso – obiettivo che, fintantoché ci rivolgeremo all’intera categoria, sarà primario ma che, se devo essere sincero, in questo momento, date le contingenze, non può che restare sullo sfondo – giacché occorre, piuttosto e preliminarmente, comprendere se ci sentiamo pronti ad affrontare una sfida nuova e terribile ma avvincente, quella di seguitare a rappresentare, come i più anziani di noi hanno saputo fare da venti, trenta, quarant’anni a questa parte, speranza e punto di riferimento per la parte sana della magistratura e di tutta la società civile del nostro paese.
Quindi, schiena dritta, confrontiamoci a viso aperto, facciamo le scelte necessarie, in termini di programmi, nomi, alleanze, e poi cerchiamo di ripartire, forti della coscienza di ciò che md è stata ed è ma al contempo risoluti a misurarci su percorsi inesplorati o, comunque, per noi meno consueti.
Del resto, la crisi di md riflette in sedicesimo la decadenza morale, culturale, intellettuale della società italiana, incapace di formare una classe dirigente che sia all’altezza di quella che ha guidato il paese nei decenni trascorsi e, al contempo, degli interlocutori internazionali.
In questo contesto le nostre chances sono, lo ammetto, assai limitate: la storia farà il suo corso, la società si evolverà, l’italia continuerà a decadere o forse risorgerà; tutto ciò accadrà al di sopra delle nostre teste, ma, se saremo tenaci e lungimiranti, almeno potremo dire di aver fatto, fino in fondo, la nostra parte.
Daniele Cappuccio