Intervento dell'avv. Alessandro CAJOLA nel Convegno organizzato e promosso dall' Associazione Nazionale Giuristi Democratici Q


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a cura del gruppo civile

Intervento dell'avv. Alessandro CAJOLA nel Convegno organizzato e promosso dall' Associazione Nazionale Giuristi Democratici Quale Giustizia per l'Unione Restaurare la Legalità e la Giustizia, Promuovere i Diritti sabato 29 ottobre 2005 h. 9,30 - 18,00 Sala Gonzaga, via della Consolazione 4, Roma

"Giustizia civile: alcune priorità"
Cari amici
E' una attesa occasione questa per noi civilisti di trovarci finalmente ad un confronto diretto con alcuni rappresentanti del mondo politico soprattutto adesso che è stato approvato il nuovo assetto del processo civile italiano.
E' tanto pi importante aprire adesso un confronto perch, ed è bene dirlo subito in apertura di questo intervento, non si è trattato di una riforma che nella grande maggioranza gli operatori del diritto civile hanno visto con favore n sono stati chiamati a partecipare, nonostante che sia stata approvata da una troppo larga maggioranza parlamentare.
Qui ci siamo trovati di fronte a un dato, quello del consenso che ha avuto la riforma, che per noi è stato preoccupante.
Cioè aver notato che prima che la larga mobilitazione da parte di associazioni come gli Osservatori desse i suoi frutti migliori in termini di sottolineatura del disastro dell'amministrazione della giustizia, sicuramente prima di ciò, vi era stata una disattenzione trasversale della politica ai problemi della giustizia civile e del diritto processuale civile in generale, considerando che tutto sommato l'impegno militante dovesse soffermarsi sull'aspetto sostanziale del diritto e che il diritto processuale sia un affare di tecnici di poca incidenza sui valori giuridici sostanziali.
E' stato un atteggiamento sbagliato che ha condotto parte della sinistra a non accorgersi che dietro il progetto di riforma si mascherava un intenzione non differente da quella che animava nel suo nascere i propositi governativi su tutto il quadro politico nazionale, dalla riforma del lavoro a quella della scuola alla gestione dell'economia.
Quando noi leggiamo le intenzioni che hanno sorretto la politica italiana in questo ultimo quinquennio, ma anche prima guardate, noi scopriamo una continuità con idee affermazioni e contenuti che un ventennio fa circolavano riassunte nello slogan meno Stato pi mercato.
Quello che ci appare pi di un sospetto è che brani della riforma del processo civile predispongano non solo condizioni di favore per la parte pi forte ma un indebolimento della pretesa pubblica della Giustizia a favore della gestione privata del conflitto tra le parti con tutto ciò che ad essa consegue.
Il momento tecnico dunque non può prescindere da quello politico e dalla valutazione politica che la tecnica esercita sui fatti del diritto. Se guardiamo al lavoro compiuto in questi ultimi anni da associazioni, da movimenti di giuristi come gli Osservatori sulla giustizia civile, che hanno lavorato sui problemi delle prassi giudiziarie e sulla pratica quotidiana, ci accorgiamo che la sostanza del nostro lavoro non può prescindere da un impatto sulle idee di riforma del processo e che il lavoro sulle prassi non è fine a se stesso.
Esso sottende innanzitutto una concezione generale del processo che ruota intorno a quelli che abbiamo individuato come capisaldi irrinunciabili perchè la Giustizia civile italiana resti prima di tutto una Giustizia.
Perch, vedete, la pratica quotidiana disastrosa e disastrata, e lo dico per chi della Giustizia civile non ha esperienza diretta, finisce per minare, in primo luogo attraverso "l'impraticabilità" della Giustizia civile, l'eguaglianza dei soggetti del processo e crea false e precostituite situazioni di vantaggio per la parte pi forte.
In questa frattura, tra l'essere e il dover essere, è la faglia sotterranea che mina questa riforma. Perch il dover essere nel diritto non è solo quello oggettivo del dettato normativo, ma quello dell'azione processuale. E' anche a vedere riconosciute le proprie ragioni, quando esse vi siano, in un processo che sia un servizio pubblico efficiente e garantito da una prassi ispirata a principi etici e deontologicamente corretti, aspettativa di fatto che viene disattesa in un sistema che patteggia queste ragioni nel nome di un processo votato a finalità quasi aziendali e non all'asseveramento della giustizia.
Come non si può governare l'Italia come un azienda, non si può governare il meccanismo processuale con standard aziendali.
Noi che viviamo sempre pi spesso le difficoltà economiche dei nostri clienti sappiamo quanto un processo troppo lungo si trasformi in un processo censitario, per chi se lo può permettere, per chi ha la capacità economica per pagarlo, mentre al contrario il principio di eguaglianza dell'art. 3 della nostra Costituzione deve informare di s anche il processo civile come giusto processo tra le parti come strumento di garanzia di diritti e di libertà.
Nelle tante incertezze della quotidianità del processo civile noi abbiamo cercato di dare voce alle certezze, come ho detto irrinunciabili, dell'ordinamento. Innanzitutto l'assunto costituzionale dell'art. 111: fare vivere il processo e farlo funzionare equamente. L'attuazione dunque costituzionale del diritto.
Noi sappiamo che l'attività giurisdizionale attua il diritto ma allo stesso tempo l'attuazione del diritto  nella concretezza e nella fattibilità dell'azione giudiziaria. Se questa non si realizza, se rimane postulazione teorica di diritti o doveri anche il diritto con essa fallisce, non si dichiara, viene meno la sua funzione . Nella dichiarazione della sentenza c' dunque l'affermazione del diritto, ma il cammino che conduce ad essa, al farsi immanente del diritto, deve essere un cammino equo, giusto, garantito. Un processo dunque equo, giusto, fonte e risultato al tempo stesso di garanzie, nel quale la Giustizia civile si riconosca nella definizione coessenziale alla sua funzione: quella di SERVIZIO PUBBLICO per gli utenti di questa giustizia, sottoposto a regole certe, innanzitutto regole costituzionali. Questo ci impone degli obblighi, che non sono solo deontologici, di corrispondere alle attese dei suoi fruitori.
Ora sapete bene come i problemi principali della giustizia civile possono riassumersi nell'elevatissimo numero di cause che ciascun giudice è chiamato a trattare, o per meglio dire nell'eccessiva durata dei processi e nei loro corollari della carenza di risorse, finanziarie, di personale e di strutture.
Le risposte del governo a questi nodi critici sono corse lungo almeno tre direttrici.
A monte vi è il problema delle carriere e dei criteri di valutazione dei giudici. Attraverso la riforma dell'ordinamento giudiziario si accelera un processo di dequalificazione del corpo giudicante chiamato a essere valutato soprattutto in ragione della sua produttività, del numero di cause decise. Si accentua la dipendenza dai meccanismi di carriera che a ben ragione possono farci temere una tendenza a quello che è chiamato il carrierismo.
Sul piano processuale si è voluto riformare il processo di cognizione ordinario in primo luogo riducendo gli spazi di confronto e di dialettica processuale delle parti in nome di un processo tutt'altro che orale ridotto a scambio di scritti difensivi. Quindi introducendo per la tutela dei medesimi diritti un altro rito a cognizione piena, quello societario, in alternativa al rito ordinario. Un rito quello societario che muove critiche tra gli operatori del diritto e che nella sua applicazione pratica ha sollevato numerosissime difficoltà sulle quali non mi dilungo.
L'alternativa tra i due riti a scelta delle parti, posta dalla riforma, altro non è che il tentativo di sottrarre il processo attraverso il radicamento del rito societario al potere direttivo del giudice e affidarlo alla forza delle parti.
A un ulteriore smantellamento della giustizia civile non piccolo contributo viene dato poi dal tentativo, dietro il pretesto di edificare filtri magici precontenziosi, di portare la conciliazione al di fuori del processo per affidarne la gestione ad organismi privati. Ecco questo è uno dei punti che qualificano questa riforma e che ci fa comprendere quale sia l'ispirazione piè profonda di questo piano di rimaneggiamento del processo civile, che, come per certi versi avviene per la nostra Costituzione, scavalca tutto e tutti.
Ecco io credo che rispetto a queste scelte un progetto politico sulla giustizia civile debba procedere in direzione opposta e contraria.
Cosa fare allora? Di fronte a questi disastrosi interventi in che modo possiamo superare da subito almeno in parte i gravi disagi esistenti e migliorare la qualità del servizio pubblico Giustizia?
Il lavoro sulle prassi etiche portato avanti dagli Osservatori in questi ultimi anni non ha solo aperto le parti del processo ad un nuovo costume giudiziario, non è stato solo strumento di attuazione costituzionale del diritto, ma ha dimostrato che il processo orale quale disegnato dal legislatore con la novella del 1995 può funzionare molto meglio di quanto si pensi, che bene congegnato sulla carta nel suo assetto generale è naufragato nelle cattive abitudini e nella ignavia dei suoi interpreti che ne hanno fatto tutt'altro sino a rinnegarlo nei suoi principi e a trasformare il Giudice in un dispensatore di termini processuali.
Se dunque questo processo non ha dato buona prova di s lo si deve all'incapacità dei suoi soggetti di farlo funzionare con una buona organizzazione del lavoro. Lo si deve in altri termini ad un sistema che ha preteso dai giudici innanzitutto numeri anzich decisioni di qualità, che non ne ha mai riconosciuto le competenze organizzative ma ha preteso che la Giustizia si trasformasse in una catena di montaggio purchè qualcosa funzionasse anche a danno di libertà e diritti dei suoi utenti.
Occorre perciò il coraggio di riformare il processo in senso autenticamente orale, di riconoscere nell'organizzazione del lavoro, e dunque di riflesso nella gestione dell'udienza le priorità indispensabili nel funzionamento della Giustizia, cancellando immediatamente la deriva regressiva del nuovo processo a cominciare dal suo perno autentico ovvero l'art. 70-ter delle disposizioni di attuazione al codice civile, quello per intenderci sul rito alternativo, e dal nuovo art. 183 c.p.c. che da subito andrà riformulato limitando l'innovazione alla unificazione delle due udienze della fase introduttiva (art. 180 c.p.c. e art. 183 c.p.c.).
Dunque il processo di cognizione attuale (destinato a morire con la riforma che entrerà in vigore a gennaio del 2006) deve essere invece la trama sulla quale tessere regole che lo valorizzino che lo rendano effettivamente praticabile, che mutino radicalmente l'approccio al lavoro delle parti del processo e con esso i criteri di valutazione della loro professionalità.
In questo progetto di un processo autenticamente dialogante la Conciliazione e con essa l'interrogatorio libero delle parti che ne è presupposto necessario, devono tornare a far parte a pieno titolo di questo processo, perch si abbia la garanzia che la Conciliazione, che ha la forma di una mediazione ma la sostanza di una decisione, non si traduca in una mera composizione contrattuale ma in una composizione che si preoccupi della sua giustizia.
E' necessario che strumenti di decisione alternativi alla sentenza come l'art. 281-sexies c.c. che ha dato ottima prova di s, possano trovare migliore collocazione fino a potersi proporre, e penso ad esempio alle innumerevoli cause seriali che investono il lavoro di talune sezioni, come la conclusione naturale di un processo orale e dialogante. Bisogna opporsi inoltre alla pluralità dei riti che oltre a significare una crescita esponenziale dei problemi organizzativi è un segno manifesto di inciviltà giuridica .
In conclusione bisogna ricordare che l'iter della riforma non ha mai conosciuto il dibattito parlamentare il confronto con le parti e soprattutto il confronto non dico l'approvazione con noi operatori del diritto. Mi sembra che di tutte le manchevolezze che si possano imputare ad una riforma , la piè grave sia quella di essere costruita da tecnici all'interno del Palazzo avulso da un confronto pubblico. Le conseguenze di questa frattura sono per noi una emergenza istituzionale ed occorre che essa non si vada sedimentando nella cultura del diritto italiano.
Ecco questi di oggi sono solo brevi appunti che ci richiamano però alla responsabilità che sentiamo di assumere per metterci tutti insieme a costruire una ipotesi di lavoro che corregga quanto il governo, come il piccolo scrivano fiorentino, ha voluto farci trovare bello e fatto al mattino.
Davvero di questa bontà non abbiamo bisogno.

Avv. Alessandro Cajola

12 11 2005
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