Andreotti. Dove abita la verità


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del presidente Livio Pepino

ANDREOTTI.
DOVE ABITA LA VERITÀ

di
Livio Pepino

Dopo dodici anni, tre
dibattimenti e un milione e 426 pagine di atti processuali –
come puntigliosamente precisato dai media - il processo a carico del
senatore Andreotti per partecipazione ad associazione mafiosa si è
concluso, il 15 ottobre scorso, con la conferma, in Cassazione, della
sentenza di appello che ha ribadito l'assoluzione pronunciata in
primo grado con riferimento al periodo successivo alla primavera del
1980. La stessa sentenza ha, peraltro, dichiarato non doversi
procedere nei confronti dell'imputato in ordine al reato di
associazione per delinquere, commesso fino alla primavera deI 1980,
per essere lo stesso reato estinto per prescrizione. Le aule di
giustizia, dunque, non hanno più nulla da dire al riguardo e
devono ora parlare la politica e la storia.
Ma il giudizio politico e
quello storico non possono ignorare i fatti accertati in sede
giudiziaria, così riassunti nella pagine finali della sentenza
di appello:

   
«Una autentica, stabile ed amichevole disponibilità
dell’imputato verso i mafiosi non si (è) protratta oltre
la primavera del 1980.

   Eventuali – non compiutamente dimostrate
– manifestazioni di disponibilità personale del sen.
Andreotti successive a tale periodo sono state semplicemente
strumentali e fittizie, comunque non assistite dalla effettiva
volontà di interagire con i mafiosi anche a tutela degli
interessi della organizzazione criminale: anzi, in termini oggettivi
è emerso un, sempre più incisivo, impegno antimafia,
condotto dall'imputato nella sede sua propria della attività
politica.

   Deve, dunque, escludersi che sia rimasto dimostrato che il
sen. Andreotti abbia, nel periodo successivo alla primavera del 1980,
coltivato amichevoli relazioni con gli esponenti di
Cosa Nostra,
abbia palesato una sincera disponibilità nei confronti dei
medesimi, abbia concretamente agito per agevolare il sodalizio
criminale, abbia arrecato un contributo al rafforzamento dello
stesso. (...)

   Per contro, in relazione al periodo precedente la
Corte ha ritenuto la sussistenza: - di amichevoli ed anche dirette
relazioni del sen. Andreotti con gli esponenti di spicco della cd ala
moderata di
Cosa Nostra Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti,
propiziate dal legame del predetto con l’on. Salvo Lima ma
anche con i cugini Antonino ed Ignazio Salvo, essi pure, peraltro,
organicamente inseriti in
Cosa Nostra; - di rapporti di
scambio che dette amichevoli relazioni hanno determinato: il generico
appoggio elettorale alla corrente andreottiana (...); il solerte
attivarsi dei mafiosi per soddisfare, ricorrendo ai loro metodi,
talora anche cruenti, possibili esigenze – di per sé,
non sempre di contenuto illecito – dell'imputato o di amici del
medesimo; la palesata disponibilità ed il manifestato buon
apprezzamento del ruolo dei mafiosi da parte dell'imputato, frutto
non solo di un autentico interesse personale a mantenere buone
relazioni con essi, ma anche di una effettiva sottovalutazione del
fenomeno mafioso, dipendente da una inadeguata comprensione - solo
tardivamente intervenuta - della pericolosità di esso per le
stesse istituzioni pubbliche ed i loro rappresentanti; - della
travagliata, ma non per questo meno sintomatica ai fini che qui
interessano, interazione dell'imputato con i mafiosi nella vicenda
Mattarella, risoltasi, peraltro, nel drammatico fallimento del
disegno del predetto di mettere sotto il suo autorevole controllo la
azione dei suoi interlocutori ovvero, dopo la scelta sanguinaria di
costoro, di tentare di recuperarne il controllo, promuovendo un
definitivo, duro chiarimento, rimasto infruttuoso per l’atteggiamento
arrogante assunto dal Bontate.

   I fatti che la Corte ha ritenuto provati dicono che il sen. Andreotti ha avuto piena consapevolezza
che suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con
alcuni
boss mafiosi; ha, quindi, a sua volta, coltivato
amichevoli relazioni con gli stessi
boss; ha palesato agli
stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché
non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi
agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito
con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione
alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in
definitiva, ad ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite;
ha indotto i medesimi a fidarsi di lui ed a parlargli anche di fatti
gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella
sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati;
ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare
in relazione all’omicidio del presidente Mattarella, malgrado
potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza.
(...)
   Dovendo esprimere una valutazione giuridica sugli stessi fatti,
la Corte ritiene che essi non possano interpretarsi come una semplice
manifestazione di un comportamento solo moralmente scorretto e di una
vicinanza penalmente irrilevante, ma indichino una vera e propria
partecipazione alla associazione mafiosa, apprezzabilmente
protrattasi nel tempo».

*
* * * *

La citazione – della cui
lunghezza ci scuseranno i lettori – è esplicita e
univoca: fino alla primavera del 1980, e per un periodo apprezzabile,
c'è stata, da parte del sen. Andreotti, «una vera e
propria partecipazione alla associazione mafiosa», che si è
interrotta solo in tale anno, quando l'ex presidente del Consiglio ha
infine percepito la pericolosità di Cosa Nostra ed ha mutato
atteggiamento ponendo in essere anche atti politici diretti a
contrastarla. Questo è quanto accertato in sede giudiziaria.
Ovviamente si tratta di un accertamento e di un giudizio suscettibili
di critica: sia nella valutazione della portata e del significato
delle condotte del senatore Andreotti anteriori al 1980 sia nella
verosimiglianza della avvenuta percezione da parte sua della
pericolosità di Cosa Nostra solo dopo anni di omicidi
"eccellenti" e documentate denunce della Commissione
antimafia. Ma ciò che non è lecito fare – per un
elementare rispetto della verità – è dire che la
sentenza della Corte d'appello di Palermo (confermata dalla
Cassazione) ha «assolto il senatore Andreotti», «posto
fine a una persecuzione e a un calvario», «riabilitato la
Democrazia cristiana», «restituito credibilità
alle istituzioni». Eppure sono queste le affermazioni che, oggi
come all'indomani della sentenza di appello, hanno dominato la scena;
e a pronunciarle sono stati non solo alcuni tra i più
autorevoli opinion makers ma anche politici di primo piano e
persino alcuni vertici istituzionali. Non essendo pensabile che essi
non conoscano il diverso significato dei termini «assoluzione»
e «prescrizione» e non abbiano letto i passaggi
fondamentali della sentenza, c'è da chiedersi la ragione di
questa operazione di "occultamento della verità". Ed
è questo – ci pare – il problema politico
fondamentale posto dalle ultime propaggini del "caso Andreotti".
Proviamo ad abbozzare una risposta.

1. La verità e la
politica stanno sempre più imboccando strade diverse e
opposte. Lo ha dimostrato in modo evidente, sul piano internazionale,
la vicenda della guerra all'Iraq e delle (false) ragioni addotte a
sua giustificazione. La logica, anche in questa vicenda, è la
stessa: non interessano i fatti ma la realtà virtuale,
costruita a beneficio e a vantaggio del potere. C'è chi
sostiene, senza pudore, che si tratta di una necessità per
mantenere il consenso dei cittadini. Siamo, al contrario, convinti
che sia una tappa della trasformazione dei cittadini in sudditi e del
deperimento della democrazia (che smette di essere tale senza
trasparenza e verità).

2. Dire che il
senatore Andreotti è stato "assolto" anche in
relazione ai fatti anteriori al 1980 significa – come, del
resto, è stato esplicitamente affermato - "assolvere"
un sistema di governo, un modo di fare politica: non solo e non tanto
per il passato, quanto per il presente e per il futuro. Significa
abbattere il discrimine tra morale e immorale e tra legale e
illegale. Se frequentare mafiosi, chiedere e offrire loro favori,
discutere con loro finanche di omicidi – condotte tutte
ritenute provate nella sentenza della Corte di appello di Palermo - è
considerato lecito sotto il profilo politico e giudiziario (come
implica il termine "assoluzione"), allora questo può
essere un metodo di azione politica e non deve destare scandalo se
così fanno o faranno - non ieri, ma oggi o domani - politici
di primo piano nel panorama nazionale e in quello siciliano.

3. Questo costume e
questa cultura, ancorché alle porte, incontrano tuttora, tra
gli altri, un ostacolo: alcune leggi e chi è chiamato ad
applicarle e lo fa con rigore e fermezza. Sta qui la ragione
fondamentale della "falsificazione" dell'esito del
processo, necessaria per condurre una ulteriore opera di
delegittimazione di chi ha doverosamente condotto le indagini (e,
insieme, dei magistrati che continuano a credere nei principi di
legalità e uguaglianza).

Per questo chiedere che
l'analisi del "caso Andreotti" avvenga a partire da carte
vere e non da "carte false" è un problema di
democrazia e non un inutile (e meschino) accanimento nei confronti di
un notabile ormai estraneo ai circuiti del potere reale.
Livio Pepino

07 11 2004
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