di Magistratura democratica
Le cronache di questi giorni ci consegnano la negazione, sempre più
nitida, della nostra "civiltà del diritto", di quell'insieme di princìpi
e di regole su cui si è fondata la promessa di libertà delle democrazie
costituzionali.
Rinchiudere coattivamente persone in centri variamente denominati in
assenza di qualsiasi intervento di un giudice è vietato dalla nostra
Costituzione. E la situazione non cambia se i centri sono dislocati
fuori dei confini nazionali. Quel "rinchiudere" potrà essere chiamato in
modi diversi, ma gli eufemismi più sofisticati non ne cambiano la
natura: resta una limitazione della libertà personale, che può essere
legittimamente disposta solo sulla base di una legge e con l'intervento
di un giudice nell'ambito di un giusto processo.
Aprire le porte a chi, nel proprio paese, è perseguitato è un dovere
per gli ordinamenti democratici: lo impongono le norme nazionali, come
l'art. 10 della nostra Costituzione, ma anche le fonti internazionali su
cui si fonda la promessa dell'universalismo dei diritti inviolabili
della persona.
Le libertà e le garanzie fondamentali devono valere per qualsiasi
persona, indipendentemente dal luogo di nascita. Se ciò non accade, esse
si trasformano in privilegi che perpetuano forme di razzismo
neo-coloniale, non scalfito dall'emozione, di tanto in tanto, per
l'ultimo naufragio.
Le storie e il destino dei migranti sono il banco di prova per l'idea di
"sacralità" e di primato della persona, affermata dalla Costituzione
repubblicana. Per questo l'immigrazione è la vera questione delle
democrazie contemporanee.
Ottobre 2004