di Franco Ippolito
Contro lo stravolgimento della democrazia costituzionale<1.
C’è stato un tempo in cui padrone del diritto era
il legislatore. Oggi non è più così. “Oggi
il legislatore deve rassegnarsi a vedere le proprie leggi trattate
come parti del diritto, non come tutto il diritto.”
Lo Stato costituzionale di diritto (l’insieme di limiti e di
vincoli posti al potere del legislatore, ossia al potere di
maggioranza) ha mutato irreversibilmente sia il rapporto
giudice/legge sia la concezione della democrazia, di cui è
certamente parte imprescindibile il consenso e l’investitura
popolare, ma sono altrettanti essenziali: la tutela di diritti
fondamentali dei cittadini come limite alla politica e al potere di
maggioranza; la separazione dei poteri, nessuno dei quali (neppure il
potere legislativo) è sopraordinato agli altri; la garanzia
dei diritti e l’interpretazione delle leggi affidate ad
istituzioni autonome e indipendente dal circuito della maggioranza
politica.
Questo non significa che al potere padronale del
legislatore ottocentesco si sia sostituito quello dei giudici. “I
giudici non sono i padroni del diritto come lo era il legislatore
nell’800. Essi sono i garanti della complessità
strutturale del diritto nello stato costituzionale… Tra Stato
costituzionale e qualunque padrone del diritto vi è assoluta
incompatibilità. Non ci sono padroni del diritto, così
come non ci sono servi del diritto.”
Sono citazioni tratte dalla ultime pagine de Il
diritto mite. E’ forse per queste limpide affermazioni che
l’elezione unanime a presidente della Corte costituzionale di
Gustavo Zagrebelsky, uno dei più prestigiosi
costituzionalisti, è stata valutata come un “atto
d’ostilità” al Governo e alla maggioranza
politica?
Come cittadini e come magistrati esprimiamo convinta
solidarietà non solo al neo presidente, ma all’intera
Corte costituzionale, senza il cui ruolo di difesa della Costituzione
repubblicana verrebbe meno lo stesso senso della giurisdizione.
2.
“E’ mai concepibile, nel 2004, prevedere come illecito
disciplinare la violazione della lettera o della volontà della
legge?”. Se lo domanda incredulo il prof. Alessandro Pace,
e con lui Franco Cordero, e Giuseppe Zaccaria… di fronte a
questa trovata “che fa sorridere”, a questa
riproposizione anacronistica di uno dei più vieti e falsi
corollari del positivismo giuridico più cieco ed ottuso. E con
incredulità si pone la stessa domanda chiunque conosca
l’alfabeto giuridico elementare e abbia sentito almeno nominare
Emilio Betti, Tullio Ascarelli, Giovanni Tarello, per limitarci a tre
classici studiosi italiani.
Un produttore di testi legislativi che pretende
reprimere come illecito disciplinare l’attività
interpretativa che viola la lettera o a volontà della legge è
vittima insieme di un’ignoranza e di un’illusione.
Ignora intere biblioteche di studi sull’interpretazione. Ignora
che nessun è in grado di sapere quale sarà l’esito
effettivo della volontà del legislatore tradotta in una legge,
giacché il testo, per vivere ed essere applicato, deve essere
innanzi tutto interpretato e inserito in un complessivo sistema
giuridico. Ignora che l’interpretazione letterale è la
più debole ed evanescente delle interpretazioni, giacché
la lettera vive solo nel contesto storico e sociale. Ignora che
“diritto vivente” non è quello che esce
dalle aule parlamentari, ma è quello che vive nelle aule di
giustizia, attraverso il complesso rapporto tra testo legislativo e
processo d’interpretazione, di competenza dei tribunali e delle
corti, influenzati dalle interpretazioni degli studiosi e degli
avvocati. Ignora che già dalle primissime sentenze del ’56
la Corte costituzionale ha fatto riferimento all’interpretazione
“dominante”, con ciò presupponendo una pluralità
d’interpretazioni che, a volte, da minoritarie e marginali
sono, con il tempo, divenute dominanti. Ignora che di differenti
interpretazioni è fatta la storia del diritto e delle
giurisdizioni (si pensi soltanto al braccio di ferro tra Corte
costituzionale e Cassazione in tema di garanzie nell’istruttoria
penale sommaria nella seconda metà degli anni ’60).
Ignora il momento più alto della storia della
magistratura italiana, il congresso di Gardone (1965), nel quale i
magistrati italiani s’impegnarono ad
interpretare ogni legge in conformità con i principi
costituzionali. E, a proposito di storia, se il Ministro, invece
di limitarsi al titolo, avesse letto il libro di Giovanni
Palombarini, avrebbe scoperto che il mondo non è nato a
Pontida e che la storia dell’associazionismo giudiziario è
fatta di cultura civile e professionale, di tensione e d’impegno
per l’effettività dei diritti dei cittadini.
Si può avventurare a
riproporre un divieto di interpretazione soltanto chi ignora che ben
altri legislatori (da Giustiniano a Napoleone) tentarono inutilmente
di immobilizzare il diritto e inibirne ogni interpetazione.
E
si illude quel legislatore. Si illude di produrre leggi che
vorrebbero precostituire l’esito di processi in corso e viene
smentito dalle Sezioni unite della Corte di cassazione sulla “legge
Cirami” e dalla Corte costituzionale sul “lodo Schifani”,
non avendo fatto i conti con la complessità dello Stato
costituzionale e del sistema giuridico e con l’insopprimibile
autonomia delle sue istituzioni, in cui operano Corti che hanno la
competenza, il potere e il dovere, la lealtà di interpretare
le leggi e verificarne la conformità alla Costituzione, senza
farsi condizionare dagli intenti di chi le ha proposte ed approvate.
3.
Se fosse soltanto problema di ignoranza e inconsapevolezza
culturale, si potrebbe rimediare facilmente: come il Presidente
Marvulli ha sollecitato una colletta dei consiglieri per poter
rinnovare l’abbonamento delle riviste giuridica della
biblioteca della Cassazione, Bruti Liberati e la giunta della ANM
potrebbero inviare in omaggio ad alcuni componenti della Commisione
giustizia qualche buon libro, per esempio il manuale di Viola e
Zaccaria su Diritto e interpretazione.
E nel disegno di legge, accanto alla bizzarria
sull’interpretazione c’è la svalutazione del ruolo
del CSM in materia di formazione e di selezione; c’è il
potenziamento del Ministro nel procedimento disciplinare, e il
rispristino della selezione-cooptazione tramite concorsi, e la
gerarchizzazione del PM, e la restaurazione della piramide
burocratica incentrata sul “capo” e sul vertice (con il
successivo incredibile tentativo di strizzare l’occhio ai
consiglieri di cassazione anche sul piano economico).
E’ stupefacente
che il Ministro rivendichi a suo merito che il previsto
concorso è solo facoltativo e consiglia i magistrati di stare
tranquilli, giacché, volendo, possono continuare a progredire
nella carriera economica senza temere controlli di professionalità.
Ma è proprio questo il problema, su cui ha tanto insistito il
prof. Silvestri e su cui l’ANM ha prodotto, superando anche
resistenze corporative, le nuove proposte sulle verifiche di
professionalità. Il Ministro immagina concorsi facoltativi
che, mentre spingono al carrierismo sfrenato, lasciano privi di ogni
controllo coloro che rifiutano si sottoporsi alla frenesia
concorsuale. Noi, con il professor Silvestri, proponiamo che il
massimo di indipendenza di magistrati consapevoli del ruolo
costituzionale della giurisdizione si accompagni al massimo di rigore
valutativo della professionalità da parte dell’organo
costituzionalmente competente, il CSM.
4.
Questa regressione non si limita alla riproposizione del vecchio
regime giudiziario. Va emergendo una più generale
concezione della democrazia antitetica a quella pluralistica
delineata dalla Costituzione della Repubblica. Quella
costitituzionale è fondata sul primato dei diritti e sulla
separazione dei poteri, tra cui non c’è alcuna gerarchia
e alcuna primazia, ma equilibrio e controllo reciproco (con pesi
e contrappesi). La concezione che si vuole imporre è
fondata soltanto sulla legittimazione elettorale e sul primato della
politica (di maggioranza) anche sulle istituzioni di garanzia.
I
magistrati devono avere la piena consapevolezza che la partita è
a questo livello, va ben oltre lo scontro tra settori della
politica e magistratura ordinaria. Non si attaccano più
soltanto i pubblici ministeri e le “toghe rosse”, ma si
contesta il connotato intrinseco e ineliminabile di ogni
giurisdizione, il potere di interpretazione della legge come attività
distinta e autonoma dalla legislazione. Il bersaglio non è
più “una minoranza politicizzata”, ma sono
tutti i magistrati, anche le Sezioni unite della Cassazione, la
stessa funzione giurisdizionale, la stessa Corte costituzionale, che
non si adeguano acriticamente alle intenzioni espresse dal
legislatore, ossia dalla maggioranza parlamentare che ha approvato
una legge.
Basti pensare alle pulsioni illiberali espresse
dall’interrogativo, che qualcuno non si è vergognato di
porre pubblicamente nelle settimane scorse: “Chi sono questi
15 signori che alla Consulta osano ribaltare la volontà di 450
rappresentanti del popolo?”
Dieci
anni fa, al primo ministro francese Balladur, il quale polemizzava
con il Conseil costitutionnel che aveva affermato il suo ruolo
di difesa rigorosa dei diritti fondamentali anche contro la volontà
parlamentare, Michel Rocard replicò che il primato della
Costituzione e dei diritti fondamentali della persona sulla
politica "è scoperta ancor troppo recente e mal
sopportata da alcuni settori politici". L'annotazione di
Rocard esprime bene l'insofferenza di alcune componenti del potere
politico verso un ruolo rilevante e indipendente del potere
giurisdizionale che prende sul serio i suoi compiti istituzionali. Ma
la situazione italiana è ben più allarmante, giacché
da noi non si esprime un ritardo culturale nell’assimilare le
novità del costituzionalismo, ma si mira a ribaltare l’assetto
equilibrato dei poteri pubblici e si punta sull’assolutismo
maggioritario della politica:
E’ qui il vero nodo del conflitto e riguarda la
separazione dei poteri e la salvaguardia dei diritti fondamentali dei
cittadini, ossia l’essenza del costituzionalismo, inteso come
sistema di limiti e vincoli al potere di maggioranza.
Nessuno di noi mette in dubbio che la sovranità
appartiene al popolo, ma la sovranità del popolo non è
potere assoluto, giacché essa esercita soltanto nelle forme e
nei limiti della Costituzione (art. 1 Cost.). La giustizia è
amministrata in nome del popolo, ma non in nome della maggioranza (di
ieri, di oggi o di domani). E, in nome del popolo, la giustizia è
amministrata dalla magistratura, autonoma e indipendente, non eletta
dal popolo, ma reclutata fuori delle logiche e dal potere di
maggioranza.
5. Di fronte
all’emergere di una concezione della democrazia ridotta
soltanto a consenso elettorale, che farebbe inorridire anche Hamilton
(che scriveva di dispotismo del legislatore) e Tocqueville
(che denunciava il rischio di tirannia della maggioranza), noi
ci rivolgiamo non soltanto all’opposizione, ma a tutti i
cittadini e a tutte le forze culturali, sindacali, politiche,
professionali; a quanti in Parlamento, a sinistra, al centro, a
destra, sono allarmati per la deriva verticistica e populistica di
tale concezione: tutti richiamiamo all’esigenza di attivarsi
oggi, non domani, per salvare il valore democratico
dell’indipendenza della magistratura e del ruolo della
giurisdizione a garanzia d’ogni cittadino e d’ogni
minoranza (di oggi o di domani).
Il Presidente della Repubblica costituisce una garanzia
di salvaguardia costituzionale. La Corte costituzionale continua ad
esercitare con rigore la sua essenziale funzione di controllo di
costituzionalità. Il CSM è garante di
indipendenza per ogni magistrato. La Corte di cassazione non si
lascia intimidire dal coro mediatico delle attese. I
costituzionalisti e i processualisti fanno sentire la loro voce. I
magistrati continuano a svolgere il proprio lavoro e a tenere fede
all’impegno di interpretazione costituzionale delle norme e di
attivazione della Corte costituzionale quando dubitano motivatamente
della costituzionalità di una legge. Gli avvocati criticano la
gerarchizzazione del Pubblico Ministero e sono preoccupati per
l’attentato che il progetto di riforma porta all’indipendenza
dell’interpretazione e alla libertà di manifestazione
del pensiero dei magistrati. I dirigenti amministrativi esprimono il
loro disagio di fronte alla mancanza di progetti organizzativi della
macchina giudiziaria.
Di tutto questo dobbiamo tenere conto anche nella
ricerca delle alleanze e nella costruzione di un fronte più
largo, la cui possibilità non è indipendente dai
contenuti e dalle modalità delle iniziative di mobilitazione e
di sciopero.
La difesa dell’indipendenza sarà tanto più
forte quanto più sarà larga, e sarà tanto più
larga quanto più sarà credibile l’azione della
magistratura nella difesa dei diritti dei cittadini. Noi giustamente
sottolineiamo che la garanzia dei diritti richiede l’indipendenza
dei magistrati. Ma opportunamente il professor Luigi Ferrajoli ci
ricorda che è vero anche il reciproco: l’indipendenza
dei magistrati presuppone ed implica l’effettiva garanzia dei
diritti dei cittadini. Solo questa è la condizione per far
vivere l’indipendenza come valore sociale e collettivo.
Venezia 7 febbraio 2004