Costituzione, politica, giustizia


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di Gianfranco Viglietta - congresso nazionale

  1. Dai fini dello stato alla costituzione senza fini
    Non si può parlare di un tema come “la forza dei diritti” senza rendersi conto del contesto nel quale i diritti vengono proclamati e devono affermarsi. Occorre essere consapevoli che non ci troviamo in presenza di uno dei tanti periodi di “riflusso” della storia del secondo dopoguerra. Siamo di fronte, pur tra contraddizioni ed incertezze, ad un tentativo di chiudere l’esperienza della costituzione nata dalla resistenza e dal compromesso tra ispirazione liberaldemocratica e istanze del movimento socialista.
    La costituzione materiale è profondamente cambiata in Italia. Non solo perchè si è imposto il sistema maggioritario in un’accezione ignota ai modelli anglosassoni e priva di contrappesi ( chi vince non ha alcun limite e l’investitura data dalla sovranità popolare prevale sull’autonomia degli organi di garanzia e controllo), ma perchè sono radicalmente cambiati i fini che si attribuiscono alla politica e allo stato: ha perso quindi significato quel complesso di norme finalistiche che caratterizzano la costituzione in senso dinamico, come necessità di realizzare, per quanto possibile, l’uguaglianza di fatto dei cittadini. I principi di retribuzione sufficiente, diritto alla salute, diritto alla sicurezza sociale sono stati leve potenti di trasformazione sociale, e avevano come strumenti i contratti collettivi nazionali di lavoro, il Servizio Sanitario Nazionale, la Scuola pubblica, il processo del lavoro. La funzione del sindacato e la stessa possibilità della sua esistenza, almeno nelle forme storiche dell’azione sindacale, sono oggi radicalmente messi in discussione dalla precarizzazione dei rapporti di lavoro. Con un progetto articolato la maggioranza cerca di chiudere la divaricazione tra Costituzione formale e poteri reali con le riforme costituzionali: il federalismo della “devoluzione”, il presidenzialismo plebiscitario, la riforma dell’ordinamento giudiziario in senso verticistico, la legittimazione del conflitto di interessi e il superamento del pluralismo istituzionale, il depotenziamento della Corte costituzionale e la sua “regionalizzazione”. Al di là delle leggi ad personam e dei provvedimenti contingenti, c’è una logica e una coerenza nel disegno restauratore capace di coniugare una concezione plebiscitaria della democrazia con un’accezione esasperatamente liberista che riduce le tutele e crea emarginazione e disgregazione sociale. Alla precarizzazione dei rapporti di lavoro in nome di una fittizia eguaglianza tra le parti sociali si accompagna il diritto di cittadinanza parziale dello straniero, limitato nel tempo alla durata del contratto di lavoro, e nei contenuti. I progetti di ripristino del manicomio sono illuminanti sulle dimensioni della revisione culturale del modello di società. Certo, possiamo e dobbiamo difendere il modello costituzionale vigente. Ma la Costituzione o le leggi non vivono solo perchè proclamate. Le norme finalistiche della Costituzione erano ritenute programmatiche, e non immediatamente precettive, dallo stesso vertice della giurisdizione, fino all’inizio degli anni 70. E’stata la forza della sinistra e del movimento sindacale ad imporre un relativo adeguamento della costituzione materiale a quella formale dalla fine degli anni 60 alla metà degli anni 80. Ciò ha avuto una potente ricaduta sui magistrati, che hanno contribuito al processo con gli strumenti propri dell’interpretazione adeguatrice e della questione di legittimità costituzionale, ma anche, per quanto riguarda MD, con gli strumenti della critica, dell’associazionismo e della politica, a costo della rottura della corporazione. Nulla, nella realtà, risponde ad un progetto preciso, studiato a tavolino e privo di contraddizioni. Tuttavia si creano sinergie e compatibilità tra progetti diversi, in relazione ad un clima culturale.

  2. Crisi della sinistra e crisi della politica

    L’accettazione del modello liberista, compiuta da quasi tutta la sinistra tradizionale italiana, ha tolto significato alla visione finalistica dello stato: il liberismo può accettare un sistema di regole, ma non di fini extraindividuali. L’uguaglianza è così di nuovo uguaglianza formale di fronte alla legge. Del resto tutto ciò è stato avviato largamente dal centrosinistra. La precarizzazione dei rapporti di lavoro senza garanzie e la disponibilità alla revisione dell’art. 18 sono incompatibili con una prospettiva di raggiungimento dell’uguaglianza sociale. Nello stesso linguaggio della sinistra il termine eguaglianza è stato rimosso e sostituito con quello di solidarietà sociale. Sostituzione non da poco, perchè la solidarietà implica l’accettazione della disuguaglianza, di cui cerca di temperare gli effetti. Anche sul piano della limitazione dei poteri della maggioranza, il centro sinistra, con le leggi Bassanini, ha aperto la strada allo Spoil sistem. Il problema dell’accesso all’informazione non è stato neppure affrontato.
    Ciò non vuol dire che non esistano differenze e varianti anche tra modelli liberisti, e in particolare tra quello del centro sinistra e quello del centro destra, soprattutto in relazione alle autonomie e al pluralismo istituzionale, al modo di concepire il mercato come regolato o come terreno di lotta senza esclusione di colpi. Da questo punto di vista è evidente che pur nel quadro della vittoria, in occidente, del modello neoliberista, esistono particolarità della destra italiana, quali il conflitto di interessi e la tendenza ad eliminare o ridurre qualunque contrappeso istituzionale ai poteri dell’esecutivo e della maggioranza che lo esprime. Negli Stati Uniti non sarebbero neppure pensabili un presidente con una concentrazione di interessi come quelli dell’On. Berlusconi, nè un conflitto con la magistratura come avviene in Italia ( mentre in quel paese il giudice può addirittura sospendere gli atti del congresso), e neppure una sostanziale abrogazione delle regole che disciplinano il mercato, come avvenuto con la pratica depenalizzazione del falso in bilancio. Ma se le differenze culturali rispetto al modello di società sono tendenzialmente limitate, anche la politica tende a ridursi ad amministrazione. Del resto il riflusso e la fine dei movimenti e il sistema maggioritario hanno accelerato la disaffezione per la politica, vissuta come attività da delegare ai professionisti, quando non, addirittura come malaffare. Spoliticizzazione e squalifica della politica che hanno fornito l’humus per l’attacco ai magistrati “politicizzati” e l’invocazione di una nuova neutralità del giudice, proveniente anche dalla sinistra, con una confusa indistinzione tra i concetti di imparzialità e apoliticità penetrata anche nell’Associazione Magistrati, fino al divieto di iscrizione ai partiti. Questo processo regressivo non è stato efficacemente combattuto: lo stesso Consiglio Superiore non è riuscito a fondare una politica dell’autogoverno se non nei momenti di conflitto violento con l’esecutivo: nella quotidianità lo ha vissuto spesso come lottizzazione o difesa corporativa.
    La Carta di Nizza e la Costituente europea sono certamente passaggi importanti da seguire con grande interesse, ma non vorrei che venissero colti come una prospettiva salvifica, indistintamente unitaria. Il processo costituente è nato male, se non altro perchè i costituenti sono delegati dei governi europei (prevalentemente di destra !), e non essendo stati eletti non hanno alcuna legittimazione popolare, e perchè è difficile trovare già a livello culturale un accordo con paesi come il Regno Unito che non hanno una tradizione di costituzione scritta. La discussione in corso sul valore ( programmatico o precettivo: tutto si ripete!) della Carta, è certamente allarmante. Condivido il recente articolo di Rodotà sull’importanza delle leggi che affermano nuovi diritti, e della lotta per farli rispettare. Rodotà cita Jhering. Si potrebbe risalire pi indietro, alle lotte dei plebei per la legge scritta e alle XII tavole, ma qui non sono in questione diritti individuali, ma diritti sociali la cui configurazione dipende dalle lotte sociali e dalle sintesi politiche (anche a livello istituzionale) che i partiti sono in grado di operare: insomma, dai modelli di società che si vengono affermando. Senza una sinistra non subalterna al modello liberista e un forte movimento sindacale a livello europeo, nonostante l’importanza del riconoscimento formale dei diritti non possiamo aspettarci miracoli neppure dalle proclamazioni pi solenni. Perchè la carta abbia braccia e gambe, in tema di diritti sociali, sono necessarie la mobilitazione di forze politiche e sindacali a livello continentale, e la costruzione di percorsi di giustiziabilità. Sotto questo aspetto un notevole contributo potrebbe offrirlo MEDEL.

  3. Processi di revisione costituzionale e giurisdizione
    Dunque la discrasia tra costituzione formale e costituzione materiale tende a chiudersi, adeguando la costituzione formale. Il principio di sussidiarietà e la “devolution” sono esattamente questo: la sterilizzazione del principio di uguaglianza sostanziale in relazione a fondamentali diritti individuali e sociali.
    Tutto ciò non è privo di ricadute sulla giurisdizione, in tutti i campi. In fondo, se si sposta l’attenzione dalle pi volgari leggi ad personam del governo, una coerenza di fondo si può cogliere: l’indipendenza del giudice e la sua funzione di dare attuazione alle norme finalistiche della costituzione, attraverso l’interpretazione, sono in contrasto con l’ideologia liberista, come lo sono i poteri officiosi del giudice del lavoro e di quello civile: se il giudice non ha il compito di controbilanciare la disugualianza sociale tra le parti, che sia un arbitro che decida la contesa proclamando vincitore il contendente pi bravo, pi fornito di mezzi, dotato dei migliori consulenti. E anche a livello ordinamentale il modello continentale di separazione delle carriere e di controllo dell’esecutivo sul PM sono le forme tradizionalmente prevalenti (anche se si va affermando, a livello europeo, l’esigenza di garantire una sfera di indipendenza al pubblico ministero). E ancora, se viene meno la concezione del giudice come garante quanto meno dell’uguaglianza delle opportunità, che senso ha un tribunale per i minori che accerti, con poteri officiosi e l’intervento di esperti, l’interesse del minore? Si tratterà di accertare quale dei maggiorenni contendenti ha un prevalente diritto sul minore; anche le adozioni vanno ricondotte al diritto del cittadino di adottare un bambino, possibilmente biondo, con gli occhi azzurri e di pura razza ariana.
    Il clima di generale omologazione rispetto al modello liberista ha alimentato la crisi della politica, ridotta a mera amministrazione, ma anche accentuato quella della giurisdizione. La “politicizzazione dei giudici” dalla fine degli anni 60 in poi era nutrita dei valori finalistici della costituzione, di rispetto della politica come attività nobile, di consapevolezza dei limiti della giurisdizione penale e della distinzione tra responsabilità politica e responsabilità penale, di denuncia delle subalternità e dei collateralismi occulti dei magistrati. La politica ha delegato interamente fenomeni come la mafia alla giurisdizione penale; di fronte a fenomeni come tangentopoli non si è posta neppure il problema di affrontarli sul piano politico, amministrativo e legislativo, ma ha preferito prima ignorarli e poi gridare al complotto. Oggi si è giunti al punto di censurare l’interpretazione del giudice con una risoluzione del Senato, o di progettare una Commissione parlamentare d’inchiesta sui giudici e i processi.
    La responsabilità politica si è confusa con quella penale: il garantismo è stato trasposto nel linguaggio politico, come divieto di valutare negativamente, anche a livello politico, un parlamentare o un membro del governo fino a che non fosse stato condannato irrevocabilmente in un processo penale. Qualunque assoluzione, anche per prescrizione, si è trasformata in una patente di verginità politica; ma d’altra parte si è diffusa, tra i cittadini, ma anche tra i magistrati, l’idea che il malcostume politico-amministrativo possa essere fronteggiato solo attraverso la giurisdizione penale, e si è grandemente attenuata la consapevolezza del carattere del tutto residuale del processo. Questa cultura ormai radicata nel paese ha prodotto rilevanti guasti anche nella giurisdizione. L’indipendenza da garanzia funzionale per molti è stata vissuta spesso come una garanzia di status, gli sconfinamenti nella amministrazione sono numerosi e le vere subalternità passano sotto silenzio. Basta pensare ai molti processi per abuso che in realtà si pongono come contestazione di scelte discrezionali della pubblica amministrazione. Occorrerà pur dire che a Napoli la Procura della Repubblica ha sistematicamente costruito processi per abuso del tutto infondati su quasi tutte le delibere della giunta Bassolino, dall’affitto degli spazi pubblicitari dello stadio all’emissione e collocazione dei BOC. Egualmente occorre dire che spesso il tema connivenze politica-mafia è stato ricondotto forzatamente nello schema dei reati associativi, con l’incoraggiamento della stessa politica: basta pensare a figure di reato come il voto di scambio, che normativizzano un dato di elementare correttezza politica. In questo processo di indistinzione di responsabilità è deperito proprio il garantismo nella giurisdizione penale, sostituito con un esasperato formalismo paralizzante. Credo che occorrerebbe un’approfondita analisi del modo di essere della giurisdizione in questi ultimi anni. Lo vado chiedendo da tre congressi, ma finora l’esigenza di difendere l’assetto ordinamentale e l’indipendenza ha prevalso sulla necessità di un’analisi spassionata dei mutamenti, a livello culturale e, direi, anche sociologico, intervenuti nella magistratura. Ho preso atto con soddisfazione della recente apertura di Claudio Castelli su questi temi, dopo la sentenza Andreotti e la misura cautelare contro i “No global”. L’una e l’altro sono segni di grave perdita di cultura costituzionale. Sui reati di cospirazione o di associazione sovversiva tentammo di proporre perfino un referendum abrogativo. L’esigenza di difendere la giurisdizione dagli attacchi del Polo ha quasi azzerato il controllo critico sulla giurisprudenza, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Anche se non mancano neppure i segni positivi: l’ondata di questioni di legittimità costituzionale sulla legge Bossi-Fini fanno sperare sulla resistenza di larghi settori della magistratura al mutamento della costituzione materiale, e indicano una viva sensibilità per i diritti dell’uomo, da quello di asilo alla cittadinanza alle libertà individuali. Occorre però che si riprenda sistematicamente la strada della critica e dell’orientamento della giurisprudenza verso i principi costituzionali.

  4. Che fare oggi?

    Credo che non abbiamo alternative: difendere nel dibattito culturale e politico, le ragioni della nostra cultura politico-costituzionale, con lo schieramento che si va confusamente definendo: le associazioni del volontariato e del mondo cattolico, le forze della sinistra e del movimento sindacale che si richiamano alla cultura della Costituzione del ’48 e alle sue istanze emancipatrici, e sono disposte ad una battaglia per la difesa e l’estensione dei diritti e delle tutele, quanto, nella galassia indistinta dei movimenti, esprime un’ispirazione antiliberista assimilabile nei valori della costituzione, gli intellettuali e i costituzionalisti che non hanno abbandonato la cultura politico-istituzionale della Resistenza e della prima repubblica, quei larghi settori dell’opinione pubblica, non politicamente caratterizzati, ma sensibili ai valori costituzionali che sono scesi in piazza in difesa dell’indipendenza della magistratura e del pluralismo nell’informazione, o della pace e dell’art. 11 della costituzione. Dimostrando che il c.d. realismo della sinistra in realtà fa perdere di vista ciò che fermenta nel paese e la spinge ad adattarsi alla sconfitta di un modello di società e di equilibri istituzionali prima di combattere. Si tratta di una battaglia tutta culturale, senza collateralismi e nella piena autonomia di ogni organizzazione.
    Fare chiarezza sul significato della devolution, della delega sul lavoro, della riforma costituzionale è perfino pi importante della difesa contro le riforme dell’ordinamento giudiziario, perch le prime non riguardano gli strumenti, lo stato ordinamento o il procedimento legislativo, ma l’attuazione dei pricipi fondamentali che la stessa Costituzione indica come fini dello stato. Dobbiamo recuperare il senso alto della politicità della giurisdizione ( e quindi anche dei limiti della giurisdizione penale), anche se ciò, probabilmente, ci creerà seri problemi con le altre componenti associative. Nascondendoci, accelereremo la sconfitta. Rivendicando la nostra identità, accetteremo le incognite della storia, che, contrariamente a quanto pensavano gli esegeti del pensiero unico alla caduta del muro, non è finita.
    E tuttavia, sia ben chiaro, MD non è un partito politico, n ha il compito di rifondare la sinistra. Ha il dovere di affermare e realizzare, sul piano della cultura e mediante la giurisdizione, con un corretto uso degli strumenti propri di essa, i valori fondanti della Costituzione repubblicana tuttora vigente, con l’ausilio di chiunque, singolo, movimento, associazione o partito, in essi si riconosca. Certo, oggi si considera eversivo anche manifestare esibendo una copia della Costituzione, ma la storia di MD è fatta di battaglie non facili, di discriminazioni e persecuzioni disciplinari, di anticonformismo e pensiero laico, di rotture con la corporazione. La destra ci accusa continuamente di essere conservatori, perchè ci opponiamo a stravolgimenti della Costituzione, di “fare politica” e quindi di non essere imparziali. Le prime due affermazioni sono assolutamente vere: essere conservatori rispetto ai valori di fondo della costituzione, per il giudice che ad essa ha giurato fedeltà, è un dovere: difenderli è fare politica, perchè essi stessi sono valori eminentemente politici. L’imparzialità non ha alcuna attinenza con tutto ciò. La stessa costituzione ci vieta di giudicare i cittadini secondo le loro opinini politiche, e chi lo facesse si porrebbe al di fuori della legalità. Come ha autorevolmente osservato l’On. Rognoni all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Milano, l’imparzialità non significa che il magistrato sia un cittadino muto e fuori della società e della storia. Ma la distinzione sembra troppo complessa per il Ministro Castelli.
  5. Alcuni spunti di riflessione
    Questo è il quadro in cui ci troviamo ad operare, irto di difficoltà ed incognite. Ciò peraltro non ci esime dall’obbligo di una riflessione spregiudicata sulla giurisdizione.
    Occorre avere il coraggio di analisi approfondite, prima di tutto al nostro interno. Mi limito ad indicare alcuni problemi.
    Ci dobbiamo domandare, ad esempio, perchè, dopo una fase iniziale all’epoca di tangentopoli, la magistratura e le posizioni che l’Associazione o la corrente sostiene hanno avuto scarso sostegno tra i cittadini.
    Una prima risposta, vera ma non esauriente, risiede nell’inefficienza del sistema. Ma non sono solo il sovraccarico o la macchinosità delle procedure, o l’incapacità della pubblica amministrazione a tutelare i bisogni che deve soddisfare a produrre inefficienza. Anche la cultura dei giudici, la loro deontologia, la serietà delle analisi che sono in grado di produrre hanno responsabilità non irrilevanti. Le stesse discussioni sull’obbligatorietà, che pure teoricamente è il sistema pi conforme al principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, dimostrano che si sono spesso voluti eludere problemi reali. Anni addietro fu la stessa magistratura progressista a porre il problema delle priorità per le procure. Certo oggi porre il problema dell’obbligatorietà ci esporrebbe a rilevanti rischi, poichè non dubito che il progetto reale di questo governo sia il controllo politico sul PM. Tuttavia bisogna essere consapevoli che l’obbligatorietà non è stata seriamente in discussione finchè il sistema è stato periodicamente quasi azzerato ( nei reati che costituiscono il valore modale della giustizia penale) dalle ricorrenti amnistie e indulti, e il ceto politico era garantito dall’autorizzazione a procedere. E’bastato che questo meccanismo si inceppasse per un decennio per arrivare ad una situazione ingovernabile, e ad un numero di detenuti non fronteggiabile con le strutture attuali e tra i pi alti d’Europa in termini percentuali. Nelle condizioni attuali, con una maggioranza che ha pi volte legiferato a tutela di posizioni individuali, l’abbandono dell’obbligatorietà non sembra proponibile, anche se, teoricamente, la discrezionalità non significa arbitrio ed è legislativamente orientata ed esistono paesi indubbiamente democratici che hanno fatto questa scelta. Il problema è l’indipendenza del PM e la controllabilità delle scelte. Ma allora occorre veramente prefigurare percorsi di obbligatorietà realmente praticabile, e non sembra che la strada maestra siano solo ulteriori depenalizzazioni ( l’unica quantitativamente rilevante sarebbe la liberalizzazione delle droghe). Occorrono anche strumenti di flessibilità nel singolo processo ( principio, forse ancora troppo timidamente, affermato dalla Commissione Grosso), oltre alla riforma del codice di procedura che attui il principio della ragionevole durata, disboscando il processo da adempimenti formali, riti incidentali e garanzie tipiche del sistema inquisitorio. Medio tempore, tuttavia, il problema dell’amnistia e dell’indulto è ineludibile. Se non altro, perchè lo stesso Ministero, sotto il Governo di centro sinistra, stabilì, a livello di regolamento, che le strutture carcerarie potevano ospitare non pi di 41.500 detenuti in condizioni decenti, e il livello di affollamento attuale provoca centinaia di suicidi all’anno.
    Anche la discussione sulla separazione delle carriere mi sembra male impostata. Intanto la questione non è nominalistica. Non è che chiamandola rigida distinzione delle funzioni il problema sia risolto o cambi aspetto. In sè la separazione non è indice di regime illiberale, e la “cultura della giurisdizione” che invochiamo come esigenza da tutelare, è formula generica. Meglio sarebbe parlare di cultura del processo e della prova. Ma non si può negare che lo stesso modello accusatorio crea una quanto meno una specificità culturale rilevante. Il problema è chi garantisce l’indipendenza del PM. La linea del Piave è questa: un unico consiglio superiore per magistrati e pubblici ministeri. In alcune risoluzione l’U.E. raccomanda di assicurare anche ai PM la necessaria indipendenza, e la stessa tendenza si verifica a livello internazionale, con l’istituzione delle procure presso i tribunali sovranazionali. Il Presidente del Consiglio progetta di incardinare il PM presso l’Avvocatura dello Stato. Quanto alla cultura della prova e del processo, credo che sarebbe assai meglio garantito da una riforma che imponesse di assegnare i nuovi magistrati per cinque anni ad un tribunale, rinviando a tale termine le scelte individuali.
    L’associazione, negli ultimi due o tre anni, ha fatto grandi passi in avanti sul piano delle proposte in tema di valutazioni professionali. E’un approdo tardivo, ma importante. Tuttavia non è stato veicolato nell’opinione pubblica, forse perchè MD ha trovato non poche resistenze nelle altre componenti associative. Del resto, anche la moralizzazione e responsabilizzazione dei magistrati sono state portate avanti in modo assai discontinuo dalla Procura generale e dalla sezione disciplinare, e il sistema di selezione dei dirigenti degli uffici è stato largamente insoddisfacente e improntato spesso a logiche di appartenenza e lottizzazione. Oggi che l’ordinamento giudiziario è al centro dei disegni controriformatori del governo il sistema dell’autogoverno deve fare un deciso salto di qualità.

24 01 2003
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