relazione introduttiva di Claudio Castelli
MAGISTRATURA DEMOCRATICA
XV CONGRESSO NAZIONALE
(Palermo, 5 – 8 maggio 2005)
UGUAGLIANZA, DIRITTI, GIUSTIZIA
relazione del segretario generale Claudio Castelli ( * )
I.
Una stagione di disuguaglianza e l'indebolimento dei diritti
II.
I mutamenti del ruolo della giurisdizione e il contesto istituzionale
IV.
La magistratura e Magistratura democratica
V.
Punto di vista esterno, alleanze e società civile
I.
Una
stagione di disuguaglianza e l'indebolimento dei diritti
1. Una stagione radicalmente
diversa dal passato
Viviamo una stagione
radicalmente nuova. L'oggetto del confronto (o, più
esattamente, dello scontro) politico è la stessa Costituzione,
quella materiale e quella formale e i valori che essa incarna. Sono
in gioco il sistema dei diritti, le regole della cittadinanza,
l'assetto dello Stato e in questo contesto, per quanto più
direttamente ci riguarda, il ruolo e la garanzia della giurisdizione.
é in crisi, anzitutto, l'uguaglianza, che da un decennio ormai
ha cessato di essere un valore. Eppure disuguaglianza significa
aumento della povertà e divisione della società tra un
pugno di ricchi e chi vive in una sempre maggiore precarietà.
Secondo l'Eurispes (2004), in Italia oltre 4.700.000 famiglie (circa
il 22% del totale) e oltre 14 milioni di persone sono povere o quasi
povere; la società, inoltre, è spaccata tra un terzo di
benestanti blindati”, un terzo di ceti medi sempre più
a rischio di povertà 'fluttuante', e un terzo di poveri. Il
nostro è un Paese dove la classe media è schiacciata
sempre di più verso la povertà, con le retribuzioni da
lavoro dipendente erose dalla forte perdita del potere d'acquisto e
quelle per gli 'atipici' inconsistenti, tali da non permettere ai
giovani di progettare il proprio futuro. Il vero problema è
che sono saltati i meccanismi di redistribuzione della ricchezza".
2.
La doppia cittadinanza
Il
punto di crisi più acuta del nesso tra uguaglianza, diritti e
giustizia sta nella normativa sull'immigrazione. Di più, la
condizione giuridica dei migranti ha rappresentato e rappresenta una
sorta di laboratorio per politiche del diritto orientate alla
costruzione di un vero e proprio doppio livello di
cittadinanza”. Ciò è stato, da subito,
particolarmente evidente nel diritto penale dello straniero,
caratterizzato dalla moltiplicazione delle misure coercitive e dallo
svilimento della garanzia giurisdizionale, stigmatizzato in recenti,
esplicite sentenze della Corte costituzionale (anche per questo
soggette, come prima i magistrati che avevano dubitato della
costituzionalità delle norme, ad attacchi forsennati). Ma
anche le sentenze del giudice delle leggi sono state disattese ed
hanno, anzi, rappresentato l'occasione per un aumento della
disuguaglianza: alla dichiarazione di incostituzionalità
dell'arresto obbligatorio dello straniero per mancata ottemperanza
all'ordine di allontanamento, si è risposto trasformando la
violazione in delitto ed aumentando congruamente la pena (sino a
renderla superiore a quella del falso in bilancio); a quella in tema
di (necessaria) convalida dell'accompagnamento alla frontiera, si è
risposto attribuendo tutte le competenze in materia di controllo
sulle espulsioni al giudice di pace (scelta inaccettabile non già
per sfiducia nei confronti della magistratura onoraria, ma perché
– come abbiamo puntualmente denunciato - «è il
volto mite della giurisdizione di pace a renderla
incompatibile con l'attribuzione ad essa delle competenze in materia
di convalida dell'accompagnamento coattivo alla frontiera e di
trattenimento nei centri di permanenza temporanea dello straniero
destinatario di un provvedimento di espulsione: qui il giudice è
chiamato, così come per la convalida dell'arresto e del fermo,
ad intervenire nel momento più delicato del conflitto tra
autorità e libertà individuale; non deve far
incontrare, conciliare posizioni diverse, ma esercitare il
controllo sulla legittimità della coercizione personale
provvisoria disposta dalla autorità di polizia»).
3.
La carcerizzazione
In
una società disuguale la risposta ai problemi sociali
irrisolti diventa sempre più il carcere. Non solo cresce il
numero dei detenuti, ma si stabilizza la loro tipologia sociale. Già
negli ultimi dieci anni del secolo appena concluso, i detenuti, nel
nostro paese, erano raddoppiati, passando dai 25.804 del 31 dicembre
1990 ai 52.870 della corrispondente data del 1999, e, con i primi
anni del nuovo millennio, le presenze annue si sono attestate sulle
55.000 unità, superando la media europea di un recluso ogni
mille abitanti. Se poi si conteggia anche la cd «area esterna»,
quella cioè delle sanzioni alternative al carcere (48.195 nel
2003, dopo essere state 45.224 nel 2002), il numero delle persone in
esecuzione di pena supera oggi, nel nostro Paese, le 100.000 unità,
avvicinandosi al valore medio di due ogni mille abitanti. Tra i
54.237 detenuti presenti a fine 2003, poi, il 31.35% erano cittadini
extracomunitari e il 26.74% tossicodipendenti; il 15.6% era detenuto
per violazione della legge sugli stupefacenti, il 30.7% per reati
contro il patrimonio, il 14.7% per delitti contro la persona il 2.6%
per associazione di stampo mafioso (la stessa percentuale dei
detenuti per contravvenzioni). E tutto ciò in una situazione
nella quale la curva dei reati è, come trend generale
dell’ultimo decennio, nel nostro paese (e pressoché
ovunque in Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti) stazionaria o
addirittura in discesa (con qualche cenno di ripresa nell’ultimo
periodo solo per alcune tipologie di reato). Bastano questi flash
a dire che il ruolo della giustizia penale come strumento
(prevalentemente) di controllo repressivo della marginalità
sociale non è affatto mutato nell'ultimo decennio o, più
esattamente, si è acuito.
4.
Un sistema penale diseguale
Ma
è l'intero sistema penale ad essere ormai contrassegnato dalla
compresenza di due distinti codici, uno per i briganti e uno
per i galantuomini (destinati, il primo, a segnare la vita e i
corpi delle persone e, il secondo, a misurare l'attesa che il tempo
si sostituisca al giudice nel definire i processi per prescrizione).
V'è, di ciò, un'immagine plastica (e già
ricordata): grazie alle recenti riforme della disciplina dei reati
societari e dell'immigrazione, il falso in bilancio è punito
(assai) meno dell'inottemperanza, da parte dello straniero,
all'ordine del questore di abbandonare il territorio dello Stato (per
cui è prevista la pena massima di quattro anni di
reclusione...). E non basta. Da un lato ci sono la progressiva
depenalizzazione e il depotenziamento dell'intervento penale (e
amministrativo) per una serie di comportamenti illeciti tipici dei cd
ìcolletti bianchi” pur fonte – come i fatti di
questi giorni dimostrano – di vere e proprie tragedie sociali
(dalla riforma dei reati tributari, alla modifica dei reati societari
e alla sostanziale abolizione come reato del falso in
bilancio” fino alle proposte in atto che riducono sensibilmente
le pene per i reati fallimentari e tendono ad una sostanziale
deregulation in tema di normativa antinfortunistica e di
tutela ambientale). Dall’altro vi è l’esaltazione
della tolleranza zero” in punti nevralgici per il
governo dei fenomeni sociali: basti pensare all'immigrazione e al
settore degli stupefacenti, in cui il credo proibizionista viene
portato a livelli paradossali, con il solo effetto di moltiplicare
repressione e sofferenza senza risolvere i problemi individuali, né
aumentare il senso di sicurezza della collettività. L'ultimo
esempio di giustizia diseguale” è il progetto di
legge Cirielli che, se approvato, renderà il sistema penale
ulteriormente privo di effettività nei confronti dei
ìgalantuomini” e implacabile per chi a qualsiasi titolo è
già entrato nel circuito penale. Emerge un nuovo tipo
d'autore, il "recidivo reiterato", destinatario non
solo di pene assai più elevate, ma anche di periodi
prescrizionali più lunghi e di un trattamento penitenziario
molto più severo. E – si badi – il riferimento non
è a criminali incalliti, ma a persone che hanno riportato due
condanne per delitti non colposi, indipendentemente dal tempo
trascorso e dalla natura dei reati commessi. L'impostazione è
quella, demagogica e inefficace, della tolleranza zero”,
adottata, per di più, quando l'esperienza applicativa
decennale ne sta mostrando i limiti anche negli Stati Uniti (che ne
sono il paese d'origine), dopo essersi rivelata illusoria, in tempi
passati, anche nel nostro Paese. Eppure i fatti sono univoci: nessuna
reale dissuasione si è mai ottenuta aumentando le pene e
inasprendo il trattamento penitenziario; il contrasto duraturo
della devianza e della criminalità minore passa per le
ben diverse strade di una seria strategia (specie sociale) di
prevenzione e di integrazione, di controllo del territorio, di
processi più rapidi, di una politica penitenziaria di
recupero. Ma per far ciò non ci sono né investimenti né
volontà. Ciò tra l'altro comporta – è bene
saperlo – la definitiva rinuncia a qualsiasi obiettivo di
processi celeri e la trasformazione della prescrizione, da civile
rinuncia della pretesa punitiva quando appare ormai inutile, in
amnistia permanente. E le ricadute si estendono alla struttura
del processo, in cui la diversa velocità è la
regola: alla celerità dei processi per direttissima o con riti
alternativi fa da contrasto la lentezza dei processi di criminalità
economica ed organizzata.
5.
Latitanza e responsabilità della politica e criminalità
organizzata
Intanto
resta in primo piano la questione della criminalità
organizzata. Non si tratta di una semplice anomalia del nostro paese,
ma dell'esplicazione di un modello di sviluppo inquinato e inquinante
che frena e ostacola lo sviluppo del Mezzogiorno e del paese.
Affrontarla come un semplice accidente o questione da delegare
all'intervento militare o giudiziario è errato e perdente.
Occorre, prima di tutto, una risposta politica forte. Non è
quel che accade. L'attuale politica antimafia è inadeguata,
così come la rappresentazione mediatica del fenomeno,
oscillante fra il silenzio informativo forzato (si pensi ai casi di
censura dei pochi servizi televisivi che hanno cercato di andare al
di là delle verità ufficiali) e il colore noir
sulla stagione di sangue napoletana o il folclore sulla latitanza di
Bernardo Provenzano. Sfugge – non casualmente –
che la mafia è entrata in una fase di mimetizzazione e di
integrazione con articolazioni del potere legale, economico e
politico che condiziona l'intero Paese. Di più, mentre la
legalità non è più considerata un valore,
prevale quella voglia di convivenza con la mafia espressa in
una infelice battuta di un ministro in carica. In questo contesto –
è bene ripeterlo – l'approccio meramente repressivo,
ancorato allo schema della delega a magistratura e forze dell'ordine,
è destinato al fallimento. Occorre interrogarsi sulle ragioni
per cui, dopo il decennio alto dell'antimafia giudiziaria
seguito stagione stragista del 1992-93 (che ha raggiunto, sul piano
repressivo, risultati senza precedenti), la mafia è tornata ad
essere così forte sul territorio. E occorre chiedersi quanto
abbia inciso su ciò l'assenza di altre istanze”
di controllo e intervento, sul terreno delle relazioni
pericolose” fra potere criminale e stanze” del
potere legale. La delega esclusiva al giudiziario in punto
ricostruzione della trama di contiguità e compiacenze verso la
mafia ha sovraccaricato le aule di giustizia di compiti (anche)
impropri, ricollegando all'esito di processi eccellenti (così
circondati da ulteriori attese e polemiche) la responsabilità
politica, anziché attribuire a quest'ultima quell'ambito
autonomo di operatività che le è riconosciuto in tutte
le democrazie mature. Eppure solo in un contesto strategico che
riconosca le organizzazioni mafiose come "strutture di potere"
e vi opponga una azione di contrasto globale possono
collocarsi riforme appropriate della vigente legislazione antimafia e
potenziamento degli strumenti e dei moduli operativi incentrati sul
concetto della circolazione delle informazioni interno agli uffici
giudiziari. Nessuna indicazione in questo senso viene, peraltro, dal
mondo della politica, nel quale le pretese di impunità
sembrano prevalere sull'assunzione di responsabilità, con
conseguente crescita della sovraesposizione di tutti i cittadini (non
solo dei magistrati e degli appartenenti alle forze dell’ordine),
sempre più soli ad affrontare un potere della mafia ogni
giorno più tracotante e impunito.
6.
Guerra e terrorismo
Guerra e terrorismo dominano lo
scenario mondiale. Purtroppo si è verificato sul campo come la
guerra, invece di essere momento di soluzione dei problemi, porti ad
incancrenirli e a moltiplicarli, evocando la necessità di
nuovi conflitti. Vittima di ciò oltre alle tante vite, è
il diritto internazionale, l’ONU e gli organi sopranazionali
creati proprio per evitare il ricorso a nuove guerre. Ciò
sembra ormai dimenticato in una situazione che ha ancora caratteri
bellici. Pochi in Italia ricordano il testo dell’art 11 della
Costituzione L’Italia ripudia la guerra come strumento
di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali…”. Si è
potuto verificare come la guerra non sia neppure servita a combattere
un terrorismo internazionale feroce e pericoloso, cui invece si è
dato alimento. La realtà di un terrorismo internazionale con
caratteristiche in larga parte nuove non può essere in alcun
modo sottovalutata. Occorre attrezzarsi per consentire di
contrastarlo con la necessaria efficacia sia dotandosi degli
strumenti culturali, sia affinando le tecniche investigative, sia se
necessario, operando sul quadro normativo. Le vicende dell’11
settembre 2001 a New York e dell’11 marzo 2004 a Madrid sono
troppo vive nelle nostre menti per sottovalutare questo fenomeno e
tutti noi abbiamo una tragica esperienza, purtroppo non ancora
conclusa, del terrorismo nel nostro Paese. Ma anche da tali
esperienze si ricava che il ricorso alla mera e indiscriminata
repressione è controproducente e illusorio, dovendosi in
primis combattere a livello culturale e politico il terreno di
sviluppo dei fenomeni di terrorismo. Nessuna compressione dei diritti
della persona può essere giustificata e, d’altro canto
si rivelerebbe utile. E’ proprio la necessità di un
adeguato contrasto a questa realtà criminale che deve portare
ad evitare le generalizzazioni, essendo capaci di distinguere tra
terrorismo e comportamenti violenti, tra comportamenti violenti e
atti di dissenso, tra gesti e parole. Nessuna politica improntata
sulla paura ( che costituisce oltretutto il primo risultato che i
terroristi perseguono), nessuna compressione dei diritti di libertà
ci può aiutare in questa battaglia.
7.
La precarizzazione dei rapporti di lavoro
La crisi dell'uguaglianza si
intreccia con l'indebolimento dei diritti. Un esempio per tutti. Da
anni assistiamo al progressivo abbandono della forma classica del
rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, che
aveva raggiunto uno stadio sufficiente di tutela, attraverso una rete
di garanzie che avevano raggiunto il culmine negli anni '70, con il
nuovo rito del lavoro e con lo Statuto dei lavoratori. In quegli anni
era stato fissato uno status accettabile di
cittadino-lavoratore, garantito sia sul piano individuale che su
quello sindacale, in coerenza con il principio costituzionale di
riequilibrio delle condizioni del lavoratore come soggetto debole del
rapporto. Soprattutto l'art. 18, posto a garanzia dei licenziamenti
illegittimi, è stata considerata la norma cardine del diritto
del lavoro, perché senza quello "scudo" di fatto il
lavoratore non faceva valere i propri diritti, né individuali
né collettivi, nel corso del rapporto per paura di essere
licenziato ed era quindi esposto a qualsiasi abuso da parte del
datore di lavoro. Ebbene la legislazione degli ultimi anni sta
provocando l'aggiramento di quella rete di tutele, semplicemente
riducendone il campo di applicazione, dando cioè agli
imprenditori sempre più strumenti per evitare di concludere
rapporti a tempo indeterminato ed utilizzare invece rapporti precari
privi di quelle tutele (soprattutto dell'art. 18) e che non
consentono neppure adeguate difese collettive. Il processo di
precarizzazione è stato portato alle estreme conseguenze
dall’attuale governo con la sostanziale liberalizzazione del
contratto a termine, con la riforma dell'orario di lavoro, che
consente al datore di lavoro una gestione unilaterale più
flessibile e variabile degli orari, e con la c.d. legge Biagi, che ha
consentito forme più elastiche e flessibili di part-time
ed ha introdotto nuovi rapporti, dal "lavoro intermittente",
al lavoro a "prestazioni ripartite" al "lavoro a
progetto". Si tratta di una legislazione incostituzionale nella
sostanza, poiché è evidente che la precarizzazione
allontana l'obiettivo perseguito dalla Costituzione di riequilibrio
delle situazioni di diseguaglianza sostanziale, come quella del
lavoratore, che si trova in posizione di partenza svantaggiata
rispetto al datore di lavoro. Ma la precarizzazione non produce
effetti limitati al rapporto di lavoro, incidendo negativamente sulla
vita complessiva delle persone. Sono noti, infatti, gli effetti della
precarizzazione sulla salute del lavoratore, sulle condizioni di
stress, sui rischi di infortuni, ma anche in generale sulla vita di
relazione (si pensi solo al lavoro intermittente, che non consente al
lavoratore l'organizzazione della propria vita, essendo sempre
esposto alla chiamata del datore di lavoro). Il precario, fra
l'altro, non può permettersi di ammalarsi, non può
ottenere prestiti dalle banche, difficilmente potrà affittarsi
una casa. Aumenta il senso di ansia, insicurezza e di sfiducia,
soprattutto dei giovani i quali non possono più scommettere
sul loro futuro di carriera, di stabilità economica, di
progetto familiare, né possono immaginare di acquisire un
giorno una pensione ragionevole.
8.
Stato etico e fecondazione assistita
Lo
Stato sociale deperisce e ad esso tende a sostituirsi lo Stato
penale. E, sullo sfondo si intravede addirittura lo Stato etico.
Accompagnata da facili slogan propagandistici inneggianti alla fine
per legge” del Far West della maternità artificiale, nel
febbraio del 2004 è stata approvata la nuova normativa sulla
procreazione medicalmente assistita. Una legge pessima, che tradisce
gli auspici di un diritto prudente (un diritto mite, un
diritto leggero, o un diritto elastico, per citare Stefano Rodotà),
capace di porsi come cornice nella quale «possano continuare la
discussione e il confronto tra diversi modelli di regolazione
sociale, tra valori diversi»; che si struttura come un
complesso di divieti, limiti, proibizioni e sanzioni, dimenticando
che «la bioetica, e il diritto della bioetica, conoscono molti
ardui problemi di fronte ai quali l'atteggiamento di vietare per non
regolare non è sempre la via di un più fermo rispetto
dei valori»; che compie scelte violente e discriminatorie,
attraverso le quali si nega alle donne la capacità di
esprimere una volontà libera e autodeterminata per ciò
che riguarda la disposizione del proprio corpo e si pongono limiti
antistorici alla ricerca scientifica sugli embrioni. Le scelte
adottate paiono frutto di un ideologismo che eleva scelte individuali
possibili e legittime a morale di Stato imposta a tutti, riproponendo
uno Stato etico che speravamo dimenticato. Ciò si ricava dalla
priorità comunque attribuita alla posizione giuridica del
concepito (facendo propria la visione metafisica del cattolicesimo),
dal divieto di ricorso alla fecondazione eterologa (che accoglie la
grottesca equiparazione della donazione esterna all'adulterio), dagli
analoghi divieti di ripensamento della donna prima di sottoporsi
all'impianto dell'ovulo fecondato e di ogni indagine su eventuali
malformazioni o anomalie dell'embrione.
II.
I
mutamenti del ruolo della giurisdizione e il contesto istituzionale
9.
Un mutamento di immagine
A
fronte dei fenomeni sin qui descritti sono intervenute (e stanno
intervenendo), sul versante istituzionale, alcune significative ed
eterogenee novità. Partiamo dalla giurisdizione. Negli ultimi
trent'anni il suo ruolo (e la sua percezione sociale) ha subito
mutamenti assai significativi. Basti pensare al capovolgimento,
nell'arco di due o tre decenni, degli atteggiamenti e delle
aspettative dell'opinione pubblica. Ancora nei primi anni ’70
il sentimento prevalente al riguardo era, in ambito progressista, la
diffidenza mentre paladini della giustizia erano i
partiti e i movimenti della destra. In meno di trent'anni tutto
sembra cambiato e, mentre la destra trova il suo principale collante
nel tentativo di paralizzare la macchina giudiziaria, i temi della
giustizia sono tra i pochi che provocano nuove forme di aggregazione
e mobilitazione. Scavando ci si accorge che la realtà è
più complessa, e tuttavia il modello descritto è –
quantomeno – quel che appare. Persino la giustizia penale
suscita attenzioni, speranze, emozioni forti. E tutto ciò è
accaduto e accade pur mentre il sistema giustizia, inteso come
strumento principale (ancorché non esclusivo) di controllo
della legalità e di regolazione dei conflitti, è in
crisi, non solo di funzionamento ma anche di qualità.
10.
Un mutamento di sostanza
Il
cambiamento ha a che fare con le trasformazioni intervenute, nella
seconda metà del secolo scorso, con riferimento al diritto. Le
grandi convenzioni sui diritti umani e le costituzioni nazionali nate
sulle rovine della seconda guerra mondiale hanno, infatti, innovato
il rapporto tra società e diritto, incidendo sul carattere
puramente servente e sovra strutturale di quest’ultimo.
Forse per la prima volta nella storia, il diritto ha cessato di
essere semplice fotografia della realtà e ha assunto un
ruolo di contestazione e di resistenza, seppur debole, in difesa dei
diritti e dell'uguaglianza delle persone. Di questa trasformazione è
emblematico l'art. 3 della nostra Carta fondamentale e soprattutto il
suo capoverso. La novità è evidente e di grande
portata. Il diritto ammette e denuncia la disuguaglianza e, in
conseguenza di ciò, si pone più avanti rispetto
alla società: da fattore di stabilizzazione e
cristallizzazione dell'esistente viene proiettato nella dimensione
del cambiamento. E ciò modifica, inevitabilmente, il ruolo
della giustizia nel sistema. Sia chiaro. Non c'è stata, non
c'è e non potrebbe esserci alcuna sostituzione del diritto (e
della giustizia) alla politica, che è – e resta –
il motore della organizzazione sociale e delle sue trasformazioni. Ma
l'onnipotenza della politica (la sua possibilità, cioè,
avendone la forza e i numeri, di fare e disfare a piacimento) ha
trovato, nella previsione costituzionale, dei limiti: di
metodo e di contenuto. Tra questi limiti c'è l’obiettivo,
per tutte le articolazioni dello Stato, di realizzare una società
nella quale il compiuto riconoscimento dei diritti di libertà
è integrato dalla solenne affermazione del principio di
uguaglianza in senso sostanziale. La cittadinanza diventa uno status
di cui fanno parte, oltre al diritto elettorale, un reddito
decoroso e il diritto a condurre una vita civile, anche quando si è
ammalati, o vecchi o disoccupati; i principi di giustizia
distributiva diventano diritti e le politiche per realizzarli atti
dovuti (pur nelle diversità metodologiche conseguenti alle
diverse impostazioni politiche). Ciò non ha certo cambiato la
società, ma ne ha reso più complesso il governo,
attribuendo al diritto e alla giustizia (intesa come insieme delle
decisioni dei molteplici attori che vi partecipano) un possibile
ruolo attivo e non subalterno alle contingenti maggioranze politiche.
La dimensione del cambiamento è stata – è –
di grande rilievo ed ha superato, anche a livello di percezione, i
confini nazionali, se è vero che, negli ultimi anni, la parte
migliore dell’umanità ha manifestato, ovunque, contro la
guerra perché ingiusta e illegittima e, dunque,
in nome del diritto e della giustizia oltre che della politica.
11.
Il ruolo assunto dall’intervento giudiziario
é
mutato, poi, il ruolo materiale dell'intervento giudiziario
nei meccanismi di funzionamento e negli equilibri dei sistemi
politici (uso il plurale perché la questione è generale
e non solo italiana). Il concorso della giustizia, seppur con
modalità diverse dalla politica, alla realizzazione del
progetto costituzionale è stato da tempo analizzato e
sottolineato in tema di tutela e promozione dei diritti sociali, in
materia di lavoro e nel settore civile in genere. La novità
dell'ultimo scorcio del ventesimo secolo è stata l'affacciarsi
anche del diritto e della giustizia penale oltre i confini
tradizionali del controllo della marginalità. Ho usato non a
caso il termine affacciarsi”, ché di ciò
solo si è trattato (come risulta anche dai dati in precedenza
citati), ma ciò è bastato a produrre effetti di sistema
imprevedibili (o comunque imprevisti). Il cambiamento ha nel nostro
Paese, almeno nella percezione sociale diffusa, un nome e un inizio:
Tangentopoli e il febbraio 1992 (data dell’arresto, a Milano,
del mariuolo Mario Chiesa). L'emergere di una corruzione
diffusa in tutti i settori della pubblica amministrazione, dotata di
una sistematicità codificata, spesso condivisa dalle forze di
opposizione e dagli organi di controllo, esteso alla economia
(pubblica e privata) oltre che alla politica si è
accompagnata, infatti, alla scoperta che essa ha prodotto non
solo arricchimenti e finanziamenti illeciti di proporzioni impensate,
ma anche il condizionamento e lo stravolgimento delle regole
economiche e della dialettica democratica. Di qui due conseguenze: da
un lato, l'assunzione di fatto da parte della giustizia penale
di un ruolo di garante del diritto dei cittadini alla legalità
nei confronti dei poteri forti, sia privati che pubblici, e di
strumento di controllo dell'esercizio di tali poteri; dall’altro,
il porsi in maniera drammatica, in virtù dell'intervento
giudiziario, dell'interrogativo se la situazione svelata
corrispondeva (corrisponde) a una corruzione nel sistema
ovvero a una corruzione del sistema.
12.
Le derive plebiscitarie
C'è
ancora una ragione che spiega il nuovo atteggiarsi della
giurisdizione nel quadro istituzionale. é una ragione connessa
con il processo in atto di trasformazione del sistema istituzionale
in senso plebiscitario, di massiccia concentrazione di potere
economico e politico, di progressiva regressione del nostro Stato di
diritto in Stato patrimoniale. Il nucleo forte di questo
processo, ripetutamente analizzato, sta nel perseguimento
dell'onnipotenza della maggioranza e nella configurazione del suo
capo come rappresentante esclusivo del popolo. In
tale impostazione il voto esaurisce la democrazia e i luoghi del
confronto e della mediazione (a cominciare dal Parlamento) vengono
emarginati e sostituiti dal rapporto diretto del capo del Governo
(sempre più capo tout court) con l’opinione
pubblica e il Paese. Di più. Il dissenso sociale e politico,
tradizionale fattore di stimolo per qualunque maggioranza, viene
trasformato in elemento di disturbo (il famoso «remare contro»)
e poi in attività contraria agli interessi del Paese e
finanche in anticamera del terrorismo. Così la piazza
(l’antica agorà, cuore della democrazia) diventa
sinonimo di violenza: non più fonte (insieme con il voto), di
legittimazione democratica ma avversario da criminalizzare e da
reprimere. In questo contesto, le regole e i limiti diventano
impacci, contrastanti con l'investitura popolare e, dunque,
antidemocratici. Sta qui la radice della pretesa della
maggioranza di essere padrona della legge e di dettarne l’ìesatta
interpretazione”, dell'insofferenza verso la Corte
costituzionale, del conflitto permanente di questo sistema
politico con la giurisdizione. La giustizia in quanto tale, a
prescindere dai suoi standard qualitativi e quantitativi, diventa,
così, uno dei luoghi di resistenza contro le derive
autoritarie del sistema e la magistratura diventa a sua volta, a
prescindere dalle idee e dalle scelte dei singoli magistrati, un
ostacolo alla realizzazione del disegno di riassetto del potere (con
conseguente esposizione a ossessivi tentativi di normalizzazione e di
neutralizzazione: delegittimando l'ordine giudiziario, gettando fango
sui giudici, accusandoli di politicizzazione, di disonestà
professionale, di partigianeria, di eversione ogni volta
che indagano su esponenti del mondo politico, in una sorta di attacco
preventivo alla giurisdizione, per screditarne le possibili
future pronunce sfavorevoli e perché l'assalto alla sfera
pubblica e ai diritti sociali è appena iniziato, e gli
appetiti sono insaziabili).
13.
Il tentativo di distruggere la giurisdizione
Questa
crescita di ruolo della giurisdizione, del diritto e delle regole ha
provocato reazioni forti: non da oggi (ché non furono di
piccolo peso, negli anni '70 e '80, il Piano di rinascita democratica
di Licio Gelli e l'offensiva antigiudiziaria del craxismo); ma certo
quelle odierne sono un unicum nei paesi occidentali. é
in corso, infatti, un tentativo scientifico di distruggere la
giurisdizione come possibilità di far valere i diritti davanti
a un giudice indipendente e imparziale. Si tratta di una vera e
propria campagna con caratteristiche inquietanti e costanti: la
sistematicità dell'opera di delegittimazione dei magistrati;
il disinteresse al merito delle decisioni (tranquillamente ignorato o
falsificato, al punto, per esempio, di trasformare le
prescrizioni in assoluzioni); la volgarità dell'approccio,
teso unicamente a screditare le decisioni sgradite, ignorando la
specificità della giurisdizione (e la sua necessaria
attenzione alle regole e non agli interessi); la demagogia
insita nello sfruttare a proprio favore l'inevitabile complessità
delle vicende giudiziarie. Gli attacchi non riguardano più
soltanto i processi a carico di imputati eccellenti, ma si
strutturano in una campagna di discredito generalizzato anche della
giustizia del quotidiano: con effetti devastanti perché
il cittadino, che difficilmente si identifica con il potente di
turno, è indotto a farlo con le vittime di un sistema
ossessivamente dipinto come fonte di malagiustizia.
L'obiettivo è evidente: alimentare la sfiducia nei magistrati,
indicati come appartenenti a un altro mondo (le teorie sulla
necessità che l'interpretazione sia conforme al «comune
sentire del popolo» si nutre di queste campagne più che
di riletture approssimative di qualche teorico); far sentire ogni
magistrato solo, isolato ed esposto a linciaggio mediatico per
ogni decisione sgradita. Emblematica di ciò è la
manifestazione organizzata dalla Lega Nord a Verona nel febbraio
scorso sulla "giustizia ingiusta" (per la condanna di
alcuni suoi esponenti per istigazione all'odio razziale). Inutile
dire che si sta giocando con il fuoco. Non allarma solo il
cupo richiamo a parametri interpretativi creati in regimi totalitari
e utilizzati, all'epoca, per giustificare e rendere non punibili gli
assalti alle sinagoghe. Lo scatenamento della piazza contro la
giurisdizione risponde anche a un disegno diverso: intimidire oggi,
per trasformare, domani, la magistratura e la giustizia.
14.
La strategia dell’inefficienza
La
delegittimazione, peraltro, non basta. Ad essa si sono, dunque,
affiancati altri interventi. Il primo è la strategia
dell'inefficienza. L'attacco ai diritti e alle giurisdizione in
corso si sostanzia, infatti, in una politica dissennata improntata
alla riduzione delle risorse che costringe gli uffici a un
funzionamento minimale e alla mera sopravvivenza. Il pauperismo
è una delle costanti delle politiche per la giustizia dei vari
governi, ma anche in questo campo con le ultime leggi finanziarie si
è operato un salto di qualità in negativo. Mancano le
risorse, manca un progetto organizzativo in cui inserirle, manca
un'attenzione alla loro qualità e adeguatezza; l'organico del
personale amministrativo presenta una scopertura che si attesta sul
14% a livello nazionale, con punte in alcune sedi del 30%; i progetti
di riqualificazione e formazione sono fermi; i concorsi per
l'assunzione di nuovi magistrati sono stati prima banditi con grande
ritardo e poi nuovamente rinviati; la realizzazione di un'adeguata
rete informatica è in grave ritardo; gli investimenti per il
processo telematico, snodo strategico per il futuro della giustizia,
sono bloccati. E intanto la normalizzazione ministeriale porta alla
rimozione dalla Direzione generale dei sistemi informativi del
magistrato (universalmente apprezzato) che ne ha garantito per anni
standard qualitativi accettabili, sostituendolo con un ingegnere. La
concretizzazione della seconda tranche di aumento di organico,
prevista dalla legge n. 48/2001, si risolverà, a meno di
auspicabili ripensamenti, nell'ennesima occasione sprecata a causa
delle scelte del Ministero che ha dimenticato” il
vincolo previsto dalla legge in favore degli uffici del lavoro ed ha
seguito per la ripartizione dei posti criteri a dir poco singolari e
del tutto avulsi dall'effettivo carico di lavoro dei diversi uffici.
La situazione di crisi del sistema ha ormai superato il livello di
guardia. Le affermazioni del Ministro sulle spese crescenti della
giustizia confermano solo che si è riusciti nel miracolo di
creare un sistema inefficiente e costoso, nel quale crescono solo le
uscite obbligatorie (quali quelle per intercettazioni,
magistrati onorari, difensori di ufficio, interpreti, ausiliari per
la verbalizzazione e le trascrizioni, etc.) mentre nulla si investe
per un progetto razionale (e gli uffici rischiano di bloccarsi a
causa dei locali fatiscenti e per la mancanza di risorse elementari).
La ragione è evidente: l'inefficienza è consapevolmente
perseguita per riequilibrare il rapporto tra politica e
giustizia” o – detto in altri termini – per
eliminare il controllo di legalità diffuso.
15. La controriforma
dell’ordinamento giudiziario
Il secondo punto di attacco è
lo status dei magistrati, per sostituire l'attuale
magistratura, ritenuta incontrollabile e inaffidabile, con un altro
tipo di burocrazia (meno sensibile al
principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e
più propensa ad assecondare la strategia di affievolimento
dei diritti). Su questa linea opera la
controriforma dell'ordinamento giudiziario, provvisoriamente bloccata
dal rinvio alle Camere, da parte del Presidente della Repubblica, del
testo approvato nello scorso dicembre, che ripropone la naturale
consonanza e sudditanza del potere giudiziario nei confronti della
politica. Il testo è ampiamente noto ed ometto quindi di
riassumerlo qui, limitandomi a richiamarne i passaggi fondamentali: i
magistrati, anziché essere «soggetti soltanto alla
legge», come vuole l'art. 101 della Costituzione, saranno
soggetti altresì, seppur indirettamente, ai capi degli uffici
e al ministro della giustizia; l'obbligatorietà dell'azione
penale, proclamata dall'art. 112 della Costituzione, sarà
gestita in modo gerarchico e separato, rischiando così di
ridursi, nei casi che contano, a un guscio vuoto; profili
significativi del governo dei giudici, affidato dall'art. 105 della
Costituzione al Consiglio superiore della magistratura, passeranno
alle Commissioni di concorso e addirittura al ministro (in
particolare in materia di formazione e di nomina dei dirigenti); la
diversificazione dei magistrati solo in base alle funzioni
esercitate, proclamata dall'art. 107 della Carta fondamentale, verrà
sostituita da un cursus honorum che impedirà, tra
l'altro, a chi è in prima linea negli uffici giudiziari più
delicati di aspirare a dirigerli. Gli effetti di tali innovazioni
sono di immediata evidenza e li conoscono tutti da oltre cent'anni,
se è vero che già nel 1903 uno dei più alti
gradi della magistratura dell'epoca, il conte Eduardo Piola Caselli
(che lo stesso ministro Castelli avrebbe difficoltà a definire
"toga rossa" ante litteram), metteva in guardia sul
fatto che «le cariche superiori, che implicano un potere
gerarchico e disciplinare, non solamente possono servire di facile
mezzo al potere esecutivo per esercitare una intensa ingerenza negli
affari giudiziari, ma possono anche in vario modo turbare la serena
indipendenza dei magistrati subordinati» e aggiungeva che «i
gradi e le promozioni suscitano gare ed ambizioni che contraddicono
quello che dovrebbe essere l’atteggiamento mentale appropriato
ad un magistrato e spingono i magistrati a dedicarsi a quelle poche
cause e processi dove possono farsi onore trascurando i minuti affari
di ogni giorno, nel disimpegno dei quali invece sta in massima parte
l'importanza sociale della giustizia». Nella stessa linea opera
il, pur meno noto, progetto di inserire nell'ordine giudiziario 8.500
magistrati di complemento, con l'immediata assunzione di 2500
magistrati onorari senza effettivo concorso. L'obiettivo,
particolarmente pericoloso in un periodo caratterizzato da forti
istanze securitarie e repressive, è, all'evidenza, quello di
creare una magistratura fedele e disponibile.
16.
Lo stravolgimento della Costituzione
é
in questo quadro che sta intervenendo – nel silenzio e nella
disattenzione dei più - la revisione della Costituzione del
1948. La delegittimazione della Costituzione viene da lontano e va
ricordato che l’attuale deriva ha il precedente infausto,
allora quasi unanimemente condiviso dal mondo politico, della
Commissione Bicamerale, nata all’insegna del compromesso, e
chiusasi senza alcun esito. Con la Bicamerale era stato gettato un
seme di discredito della Costituzione, vista come superata ed
inattuale, che ha preparato la strada alle attuali modifiche. Già
allora sia come MD, che come ANM, il nostro dissenso fu radicale. Ed
ancora più lo è oggi a fronte del disegno di legge
approvato dal Senato il 23 marzo scorso che rappresenta un vero salto
di qualità in negativo e che riscrive ben 43 articoli della
seconda parte, con inevitabili riflessi sulla prima. Il nuovo testo
altera, a colpi di maggioranza, l'intero assetto istituzionale,
modificando competenze e regole di formazione e funzionamento di
tutti gli organi costituzionali: del parlamento e del governo, del
presidente della Repubblica e del presidente del consiglio, dello
Stato e delle regioni. é la vecchia idea che Gianfranco Miglio
espresse brutalmente dieci anni fa: la Costituzione non è un
accordo tra tutti sulle regole del gioco ma è un «patto
che i vincitori impongono ai vinti». La concezione di
democrazia accolta dalla Carta del 1948 è quella di un sistema
fondato sui diritti, sulla partecipazione, sull'inclusione, attenta
alle prerogative delle minoranze e a promuovere la partecipazione dei
cittadini nelle scelte fondamentali per la convivenza: e dunque la
concezione dello Stato come rappresentanza pluralistica dei
cittadini, l'uguaglianza delle donne e degli uomini che lo abitano
(ovunque abbiano fissato la loro residenza), un adeguato
bilanciamento di poteri e di garanzie teso a evitare la tirannide
o le prevaricazioni della maggioranza. Opposta, all'evidenza, la
concezione sottesa al progetto di modifica, i cui punti salienti sono
l'abnorme concentrazione di poteri nel Primo Ministro, con riduzione
del popolo a somma di individui chiamati, solo, a designare il
premier e degradazione del Parlamento ad "aula sorda e muta";
la frammentazione, attraverso la devolution, dei diritti
sociali, ridotti ad aspettative di servizi differenziati sul
territorio; il depotenziamento degli organi di garanzia (Presidente
della Repubblica, Corte costituzionale e magistratura), nonostante la
loro necessità per realizzare una democrazia delle regole e
per tutelare i diritti di tutti. In particolare tradizionali organi
di garanzia quali la Corte Costituzionale ed il CSM vengono
indeboliti e politicizzati. L’aumento numerico dei giudici
costituzionali nominati dal Parlamento ( da cinque a sette su
quindici), la nomina dall’alto da parte del Presidente della
Repubblica del Vice Presidente del Consiglio Superiore della
Magistratura ( che ne viene espropriato), la politicizzazione diretta
dei membri laici del Consiglio che non dovranno più provenire,
come oggi, dalla avvocatura o dall’università, sono
altrettanti passi verso organi più controllabili e più
direttamente inseriti nel circuito politico, con relative dipendenze
ed interferenze.
Ebbene,
la Carta del 1948 resta per noi la stella polare, il punto di
riferimento culturale e giuridico. Stanno qui le ragioni del
nostro radicale dissenso dalle proposte di modifiche costituzionali
sul tappeto e dai progetti di riforma” della giustizia
in corso di discussione: non, dunque, in una preconcetta opposizione
politica, ma in una consapevole e doverosa scelta in favore
della Costituzione repubblicana.
17.
La cooperazione giudiziaria internazionale: un passo indietro
dell’Italia
A
rendere il quadro più articolato c'è poi, ormai non più
solo sullo sfondo, l'Europa. In una Unione europea che ha visto un
imponente allargamento delle competenze comunitarie in materie che
toccano direttamente i diritti dei cittadini, la cooperazione
giudiziaria civile e penale non è un optional, ma una
pressante necessità. La costruzione di uno spazio comune di
libertà, sicurezza e giustizia, previsto sin dal Trattato di
Amsterdam, ha avuto in questi anni un andamento per molti aspetti
criticabile, specie dopo gli avvenimenti dell'11 settembre (che hanno
portato le istituzioni comunitarie e molti Governi degli Stati membri
a porre l'accento su esigenze securitarie a scapito della necessità
della costruzione, innanzitutto, di un'Europa di diritto e dei
diritti). Gli stessi atti normativi derivati, prima fra tutti la
decisione-quadro sul terrorismo del 2002, hanno risentito del clima,
culturale prima ancora che giuridico, di guerra permanente”
in cui viviamo. Ma, nello stesso tempo, non sono mancati i progressi,
per esempio sul terreno del riconoscimento reciproco delle decisioni
giudiziarie (reso possibile dalla mutua fiducia tra gli ordinamenti
degli Stati membri) e con creazione, legittimata dalle Conclusioni
del Consiglio europeo di Bruxelles di novembre, delle reti europee
della formazione e dei Consigli di giustizia (entrambe fortemente
volute dal CSM italiano), che dovranno costituire la base per lo
sviluppo della cultura dell’autogoverno e di un pluralismo
ben ordinato” nella cooperazione giudiziaria europea. Di fronte
ai problemi aperti e alle difficoltà di questa delicata
materia, il Governo italiano e la maggioranza che lo sorregge hanno
avuto un atteggiamento per lo più improntato a una pervicace
ostilità verso ogni forma di cooperazione giudiziaria
transnazionale. Non si è esitato, con argomenti a volte
francamente risibili (la cd congiura delle toghe rosse
europee”), ad opporsi, in ogni sede, a qualsivoglia contatto
diretto tra le autorità giudiziarie nazionali, senza il
tramite del Ministro della giustizia (come nella vicenda del mandato
di arresto europeo, ancora non trasfuso dall'Italia, unico Paese
dell'Unione, nell'ordinamento interno); si è impedito a tre
magistrati italiani, vincitori di un concorso europeo per l'Ufficio
antifrode, di prendere possesso del loro incarico mantenendo la loro
qualifica in Italia; si è approvata, approfittando della
ratifica di una Convenzione bilaterale con la Svizzera, una nuova
disciplina sulle rogatorie internazionali in controtendenza con tutti
gli atti internazionali in vigore che ci ha esposto all'umiliante
ritardo di quasi due anni dello scambio degli strumenti di ratifica
da parte della Repubblica elvetica; la stessa Eurojust, esistente sin
dal febbraio 2002, ha visto solo nel 2005 l'approvazione della
necessaria legge interna di attuazione. Infine, il Governo si è
sinora opposto in tutte le sedi, purtroppo con successo, all'adozione
di strumenti normativi comuni contro il razzismo e la xenofobia,
trovandosi al contrario in prima linea nella proposta di misure
comuni per il rimpatrio dei migranti clandestini, e ha caratterizzato
il semestre di presidenza italiana del Consiglio con una sostanziale
inerzia in tutto questo settore. Né tale atteggiamento è
stato, nei fatti, giustificato dalla asserita necessità di
rispettare i diritti fondamentali dei cittadini italiani ed europei,
dato che nello stesso lasso di tempo si sono lasciati incancrenire
problemi da tempo aperti per noi nella giurisprudenza della Corte dei
diritti di Strasburgo: primo fra tutti quello (solo da ultimo
affrontato con un affrettato decreto legge) del processo penale in
contumacia e sino alle recenti condanne per problemi
strutturali” (sentenze che sembrano poter preludere a futuri
sviluppi tutt’altro che positivi per il sistema ordinamentale
nazionale).
III.
18.
I pilastri di un progetto possibile
Un
progetto alternativo a quello sotteso alle controriforme in atto è
possibile, praticabile e si nutre di esperienze ed elaborazioni
consolidate. Da sempre consideriamo perdente e inadeguata una
posizione di conservazione acritica dell'attuale assetto
organizzativo della giurisdizione. Tanto più ne siamo convinti
oggi quando i disegni di legge governativi guardano al passato e sono
ossessionati dalla priorità di riassestare i rapporti tra
magistratura e politica in favore della seconda. Un progetto di vera
innovazione deve muovere anzitutto dalle potenzialità delle
nuove tecnologie e forme di comunicazione. Non si tratta
semplicemente di inserire qualche iniezione di informatica nella
struttura esistente, ma di ripensare tutta l'organizzazione, le
procedure, gli assetti territoriali della giustizia alla luce delle
possibilità fornite da queste tecnologie. L'informatizzazione,
con le sue enormi potenzialità innovative, si è risolta
sinora nella creazione dei registri generali e nella fornitura a
pioggia di personal computer, utilizzati come "macchine da
scrivere evolute", senza incidenza significativa sulla gestione
complessiva degli uffici. Ben altre sono le potenzialità
dell'informatica, a cominciare dall'utilizzazione di una rete
evoluta: e integrarsi in rete non è un processo spontaneo, ma
il risultato una buona architettura, di una formazione continua degli
utenti, di un costante aggiornamento degli strumenti.
Informatizzazione significa, ad esempio, processo telematico, che da
sperimentazione di nicchia deve divenire quotidianità,
e significa, ancora, rivedere le norme procedurali per renderle
compatibili con le nuove tecnologie di comunicazione. In questo
quadro le direttrici di intervento per una vera innovazione sono: la
selezione del contenzioso e la sua canalizzazione, la formazione
(iniziale e permanente) di magistrati e personale amministrativo, la
selezione attitudinale, l'assetto territoriale e organizzazione degli
uffici, la semplificazione delle procedure con interventi mirati in
singoli settori.
19.
Elaborazione, confronto e ricerca
Non
mi soffermo, qui, sull'insieme di questo progetto, facilmente
ricavabile dalla nostra elaborazione, ma solo su alcuni snodi di
particolare novità o rilevanza, facendo presente che sul
terreno delle proposte abbiamo contribuito ad attivare ben due
laboratori di ricerca attualmente in corso: uno nel settore civile,
attivato insieme al Movimento per la Giustizia e agli Osservatori
della giustizia civile, e uno per una giustizia accessibile,
rapida e trasparente”, attivato insieme a Cgil, Arci,
Cittadinanza attiva e diverse associazioni dei consumatori
20.
Scuole di specializzazione
Le
scuole di specializzazione debbono tornare ad essere, come nel
progetto originario, il passaggio obbligato per chi voglia accedere a
professioni giuridiche. In tal modo si potrebbe creare una cultura e
formazione iniziale comune per tutti gli operatori del diritto,
realizzare una didattica più calibrata sulle professioni e
meno universitaria, sperimentare la possibilità di
utilizzazione degli specializzandi come assistenti di studio negli
studi legali o come giudici onorari o vice procuratori (con la
previsione di borse di studio o indennità che contrastino il
rischio di una selezione per censo). Il ritorno delle scuole di
specializzazione al loro progetto originario di filtro per l'accesso
anche alla professione forense è fondamentale altresì
per porre un argine alla crescita inarrestabile dell'avvocatura, che
già attualmente conta 165 mila iscritti e che aumenta a ritmi
del 10% annuo. Certamente la crescita del contenzioso non è
effetto esclusivo di tale fattore (sì che sono inaccettabili
alcune semplicistiche analisi su corrispondenza biunivoca tra i dati
di crescita), ma è indubbio che la presenza di un sempre
maggior numero di professionisti alle soglie della marginalità
agevola l'incremento della litigiosità e la proposizione di
azioni strumentali.
21.
Accesso alla giustizia e strumenti conciliativi
La
risposta all'aumento del contenzioso non può essere la
liberalizzazione delle tariffe (che avrebbe effetti ancor più
negativi sulla sua quantità e qualità) o, ancor peggio,
l'aumento dei costi della giustizia (che contribuirebbe alla
deflazione, ma negherebbe la tutela dei diritti ai non abbienti).
Occorre una svolta, che non può certo esaurirsi nel solo
controllo sull'accesso alla professione attraverso i meccanismi ora
indicati. La presenza di professionisti validi e preparati può
essere un fattore di crescita della giustiziabilità dei
diritti, se l'avvocatura verrà associata a pieno titolo nella
funzione conciliativa secondo prospettive di integrazione tra
risposta giudiziaria e risposta basata su meccanismi di ADR, che
vengono sollecitati dalla sede comunitaria, e per i quali il nostro
Paese è in forte ritardo. In questa prospettiva di
complementarietà ed integrazione tra tutele processuali e non,
l'intero settore della mediazione nel cd "contenzioso di
prossimità" dovrebbe essere terreno di sperimentazione di
quel ventaglio di tutele che, imperniato sugli uffici di
conciliazione presso gli ordini forensi e su di un'estesa gamma di
tutele alternative praticabili presso enti pubblici, uffici del
giudice di pace, ambiti associativi, era previsto nel disegno di
legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 16 giugno 2000 (e da
allora sostanzialmente fermo). é di tutta evidenza che
associare (anche) l'avvocatura in uno sforzo collettivo destinato a
far fiorire la conciliazione avrebbe l'effetto di rendere tutelabili
situazioni che, oggi, non possono passare attraverso il vaglio
giudiziario per ragioni di costi. In prospettiva, ciò potrebbe
contribuire alla maturazione anche presso l'avvocatura di una cultura
della conciliazione, antitetica alla visione esclusivamente
giudiziaria di ogni conflitto interpersonale (che ha precise
responsabilità nelle patologiche caratteristiche e dimensioni
dei flussi giudiziari). Inutile aggiungere che le procedure
conciliative devono essere precedute e assistite da un'adeguata
informazione giuridica, che consenta alle parti di valutare con piena
consapevolezza le possibilità e i rischi dell'accesso alla via
giudiziaria, oppure a quella non contenziosa: il ventaglio di tutele
alternative deve essere frutto di scelte consapevoli ed informate, e
non solo la conseguenza dei costi impraticabili della difesa in sede
giudiziaria. Rendere accessibile la giustizia ai cittadini
presuppone quindi la creazione di una solida rete di referenti
per un'attività di informazione e consulenza, per la quale si
pone il nodo di un sistema di finanziamento che estenda anche alla
sede stragiudiziale l'assistenza oggi garantita - pur con risultati
insufficienti - con il patrocinio a spese dello Stato per le liti.
22.
Le relazioni con il pubblico
C'è
una legge dello Stato che prevede, in tutte le istituzioni, uffici
per le relazioni con il pubblico. L'assenza di regolamentazione e di
investimenti ha fatto sì che sinora essa sia stata quasi del
tutto ignorata negli uffici giudiziari. Si tratta, invece, di
un'importante risorsa la cui realizzazione è per noi un
obiettivo prioritario. Non si tratta solo (ma sarebbe già
molto) di avere nei palazzi di giustizia servizi di informazione
capaci di orientare gli utenti sulla localizzazione dei diversi
uffici, ma di fornire informazioni sui diritti, sui modi per
tutelarli, sull'accesso alla difesa, sui tempi, sullo stato e
sull'esito dei processi. Il servizio in cui andrebbero impegnati
anche avvocati, magistrati togati ed onorari costringerebbe tra
l'altro a un'analisi non autoreferenziale sulle modalità e
sulla qualità del servizio che forniamo e imporrebbe modifiche
organizzative dal punto di vista del cittadino utente. Un ufficio
telematico affidato ai siti diventa strategico per consentire la
conoscenza dall'esterno delle caratteristiche dell'ufficio
giudiziario senza costringere gli utenti ad accedere al palazzo di
giustizia o alle cancellerie.Tramite pagine internet consultabili da
tutti o con chiavi di accesso sarebbe possibile indicare il quadro
dei procedimenti fissati e celebrati, gli eventuali rinvii già
previsti, gli adempimenti, evitando perdite di tempo e consentendo
un'informazione in tempo reale.
23.
L’ufficio per il processo
L'ufficio
per il processo non va inteso come luogo fisico e struttura
burocratica, ma come conferimento funzionale di persone e tecniche
allo scopo di realizzare un processo rapido e funzionale, ragionando
in un'ottica di servizio per l'utenza. Esso si articola su diversi
piani: le tabelle come progetto organizzativo condiviso ed
aperto all'esterno; un ufficio statistico circondariale che
analizzi flussi e tempi di esaurimento del contenzioso (e un analogo
ufficio distrettuale che costituisca struttura servente per la corte
d'appello ed il consiglio giudiziario); tre pilastri,
costituiti rispettivamente da risorse interne (magistrati
professionali, dirigenti, funzionari, personale amministrativo),
esterne (magistrati onorari, componenti esterni) e informatiche (in
primo luogo, il processo telematico); le unità operative
integrate con le sezioni che vanno organizzate in aree per
l'assistenza all'udienza, le relazioni con il pubblico, le ricerche
dottrinali e giurisprudenziali, i rapporti con i consulenti tecnici,
la predisposizione di minute per provvedimenti istruttori/decisori,
gli adempimenti di volontaria giurisdizione e amministrativi, le
statistiche; una nuova figura professionale di assistente di studio.
Un cenno particolare richiede il processo telematico, necessario per
abbreviare la durata dei processi, in particolare eliminando i tempi
morti, e per invertire la tendenza alla dequalificazione del lavoro
dei magistrati e del personale amministrativo. Esso non è
semplicemente una tecnica per semplificare le comunicazioni tra i
soggetti del processo, ma deve contemporaneamente rappresentare un
sistema sinergico cancellerie-magistrato che consenta di realizzare
in un unico contesto obiettivi diversi, come ad esempio statistiche
credibili e agenda del giudice.
Elaborazione,
la presente, tutta condotta sul processo civile, ma è facile
vedere, come facilmente esportabile nel settore penale, con
l'avvertenza che dovrà essere applicata con modalità
inevitabilmente diversificate a tre uffici molto differenti: la
Procura, l'Ufficio GIP e il dibattimento penale.
24.
Magistratura onoraria
La
figura chiave della magistratura onoraria è, evidentemente, il
giudice di pace. Esso va recuperato al suo ruolo civico”
e di prossimità, con riqualificazione della competenza per
materia più che sul solo criterio del valore (pure da
aggiornare); a lui vanno affidati il contenzioso del condominio e del
vicinato (danni, possesso ecc.), quello della circolazione stradale,
quello della famiglia, quando non è controverso l'affidamento
dei figli; va recuperata la sua dimensione di "mediatore
sociale" attraverso un convinto investimento sulla funzione
conciliativa diretta e su quella indiretta (realizzata attraverso la
formazione e la sorveglianza dei soggetti privati che svolgono tale
attività); e occorre procedere al suo riassetto ordinamentale
prevedendo, in particolare, una apposita sezione in seno al consiglio
giudiziario e l'affidamento a un semidirettivo togato della direzione
dell'ufficio. Restano, a fianco del giudice di pace, i giudici
onorari di tribunale, che possono essere mantenuti solo per compiti
di assistenza ai magistrati professionali mirati sulle necessità
di sostituzione in udienza, non surrogabili con gli organici
distrettuali: quindi in una logica di delega di fasi
processuali e non di delega di ruoli; per ribadire la
temporaneità della funzione si può anche pensare al
giudice onorario come a una prima fase delle professioni giudiziarie,
dopo il diploma della scuola di specializzazione, oppure all'interno
del relativo ciclo di studi (una sorta di terzo anno obbligatorio)
che attribuisca titoli preferenziali per l'accesso ai concorsi per la
magistratura onoraria o togata, nel contesto di una sorta di
contratto di formazione-lavoro a tempo pieno.
IV.
La
magistratura e Magistratura democratica
25.
Le tendenze in atto
In questi anni la magistratura
ha affrontato con il potere politico il conflitto più aspro
del dopoguerra, e lo ha fatto con grande compattezza, compostezza e
serietà. Ovviamente questa vicenda ha prodotto effetti
eterogenei. Molti magistrati hanno scoperto l'associazionismo, altri
la politica; la riflessione sul contesto generale e sulle strategie
da adottare si è estesa a strati importanti del corpo
giudiziario e c'è stata, in molti, una radicalizzazione della
propria posizione. Parallelamente, si sono aperte spaccature che solo
una politica intelligente dell'Associazione è riuscita a
comporre e ricondurre a unità. E ci sono sintomi inquietanti
dell'affacciarsi di un nuovo clima (in qualche modo anticipatore
della controriforma ordinamentale perseguita dalla maggioranza): il
carrierismo, la corsa a incarichi e titoli spendibili per il futuro,
la crescente gerarchizzazione degli uffici giudiziari sono già
in atto e vivono negli uffici giudiziari. Di più, molti
magistrati destinati al ministero della giustizia si sono
perfettamente adeguati ai desiderata della maggioranza e hanno
prestato le loro conoscenze tecniche per rendere possibili le
proposte che noi combattiamo. Non solo, ma al Consiglio Superiore
della Magistratura l’aria di restaurazione già si
respira nell’anomala alleanza che si sta determinando sempre
più per la nomina ad incarichi direttivi tra eletti di Unità
per la Costituzione, Magistratura Indipendente e laici della Casa
delle libertà. L’adozione di regole che canalizzano e
vincolano le scelte nella nomina di incarichi direttivi avevano
portato nelle passate consiliature all'85 % di proposte unanimi negli
anni 1994- 1998, scesa al 70 % negli anni 1998 – 2002, al 50 %
nei primi due anni del presente Consiglio ed addirittura al 35 % dal
settembre 2004 ad oggi ( conteggiando sia le delibere che le proposte
già varate). Ciò denota il prevalere di logiche di
gruppo sul dominio delle regole e segna un progressivo allineamento
di gruppi di magistrati ( segnatamente Unità per la
Costituzione e Magistratura Indipendente) alle esigenze e linee dei
laici espressione della destra parlamentare. Sono i laici di destra
il gruppo che ha determinato con maggiore frequenza la nomina di
candidati da loro votati ( circa nel 90 % dei casi) ed il trend delle
nomine è oramai più che preoccupante: su 34 nomine e
proposte relative ad incarichi direttivi dal settembre 2004 ad oggi
vi sono stati solo nel 35 % dei casi proposte unanimi, mentre nel 38
% dei casi si è costituita una solida maggioranza tra
componenti laici espressione della casa della Libertà, eletti
di Unità per la Costituzione e di Magistratura Indipendente.
Se poi si va a verificare vi sono, oltre a casi opinabili su cui le
differenze sono fisiologiche, casi che gridano vendetta e che
calpestano gravemente ogni regola affermando una pura forza dei
numeri. Il sintomo di un riallineamento e di un'insanabile
contraddizione tra chi in Associazione condivide le battaglie comuni
(magari auspicando forme di mobilitazione più radicali) e poi
collabora con la stessa politica governativa (altrove combattuta) al
Ministero, e contratta posti e incarichi al CSM. Una contraddizione
insanabile che va sciolta.
Non
credo comunque che vi sia da illudersi: o saremo capaci di proporre
potenti antidoti culturali o la controriforma e i suoi veleni
lentamente penetreranno nel corpo della magistratura provocandone una
mutazione.
26.
L’associazionismo come baluardo
Il
messaggio che dobbiamo lanciare a tutti i magistrati e sostanziare
con gesti concreti è uno solo: non siete e non resterete
soli. L'associazionismo, la sua capacità di sviluppare un
dibattito culturale e di difendere le condizioni di lavoro dei
magistrati, è un baluardo fondamentale. Ma ciò richiede
un salto di qualità. L’unità costruita in una
lunga battaglia comune in questi anni deve trasformarsi nella
capacità propositiva di un progetto organico. Il metodo da
seguire è stato positivamente indicato dalla stessa
Associazione nella elaborazione di una proposta comune su di una
materia delicata come quella delle valutazioni di professionalità.
Tutti ricordiamo le violenti polemiche dell’allora segretario
di Unità per la Costituzione contro il d.d.l. Flick sulle c.d.
pagelle dei magistrati. Tali posizioni sono oggi lontane ed
abbandonate e è stata costruita una proposta unitaria che
rappresenta un salto di qualità in avanti. E’ questa la
strada da seguire.
E’
poi fondamentale la capacità di interloquire e di incidere
sulla concreta situazione di ogni magistrato (a cominciare dalle
condizioni e dalle qualità del lavoro). Oggi in troppi uffici
vigono situazioni di lavoro intollerabili e sperequate, decisioni a
dir poco discutibili dei dirigenti degli uffici, un'organizzazione
del servizio irrazionale, per non parlare del nonnismo”
e delle discriminazioni di cui troppo spesso soffrono i giovani e le
donne. La sensazione che talora si respira è quella di
rassegnazione di fronte a un CSM lontano, che interviene (quando
riesce a intervenire) tardi e senza incidere sulla realtà.
Orbene tale situazione è intollerabile ed è la prima
ragione della disaffezione di molti: occorre essere negli uffici e
divenire lievito delle denunce, delle proposte, delle idee per
consentire a tutti di lavorare meglio, per evitare disparità
di trattamento nei carichi di lavoro e nei turni, per far funzionare
il servizio facendosi portatori anche delle esigenze degli utenti;
occorre ottenere che il Consiglio svolga con effettività il
suo ruolo di controllo delle tabelle e dei criteri di organizzazione
e che l'Associazione se ne faccia carico. Se così non sarà,
è un onere che dobbiamo assumerci come Md. Se un errore
abbiamo fatto negli ultimi due anni, pressati da mille iniziative, è
stato quello di non avere lanciato una grande campagna
sull'organizzazione degli uffici e costituito nei vari uffici
osservatori capaci di essere punti di riferimento e di
confronto. Questo è uno degli impegni per il futuro. Anche
sotto il profilo dei rapporti con l'esterno è essenziale un
analogo salto di qualità. Ai martellanti e insidiosi
interventi di delegittimazione è necessario contrapporre
alleanze e un'iniziativa organica, anche avvalendosi di esperti, per
una promozione della giurisdizione. Al salto di qualità della
campagna di delegittimazione si deve contrapporre un salto di qualità
da parte nostra: occorre passare dal livello artigianale in cui
sinora abbiamo agito a una vera e propria politica verso
l'informazione.
27.
Le degenerazioni dell’associazionismo
Difendere
e rilanciare in questo momento l'associazionismo richiede che non si
ignorino né si mettano tra parentesi, in nome di una malintesa
unità, le degenerazioni, i clientelismi, le lottizzazioni, le
logiche di protezione che in esso allignano. I casi in cui ciò
si verifica sono forse più limitati della vulgata corrente. E
tuttavia bastano poche decine di decisioni affette da favoritismi e
corporativismi per produrre un effetto devastante sull’intero
sistema, per la sfiducia e il sospetto che gettano su tutta
l’attività degli organi istituzionali e per la
diffusione di una sorta di millantato credito da parte di chi fa
apparire come frutto della propria cura decisioni
pacifiche o iniziative dovute. L'esito è un'immagine
dell'associazionismo come luogo di beghe correntizie e di spartizione
di potere, produttiva di un dilagante qualunquismo secondo cui ogni
nomina è fatta per appartenenza e ogni incarico viene
attribuito solo a seguito di appoggi. Le generalizzazioni sono
sbagliate, ma partono da dati reali. Rischia così di crearsi
un circolo vizioso tra il discredito dell'associazionismo e delle
istituzioni in cui opera e la difficoltà di fare denunce che
non alimentino il discredito e il qualunquismo. Ma quest'ultimo
rischio va corso. Occorre creare un discrimine tra chi, per esempio
nel Consiglio superiore, persegue gli interessi dell'istituzione e
chi premia gli interessi dei singoli (anche travolgendo regole e
controinteressati). Occorre, con pacatezza, ma con tenacia e
continuità, denunciare in modo specifico le decisioni
scandalose e quelle sbagliate, in un'ottica di difesa
dell'associazionismo, dei consigli giudiziari, del Consiglio
superiore. Un fortissimo allarme va lanciato. Se
l'associazionismo si è guadagnato un ampio consenso per la
capacità dimostrata nell'opporsi alla controriforma
dell'ordinamento giudiziario e per i risultati - sia pur parziali e
provvisori - conseguiti al riguardo (non essendo ancora intervenuta,
a tre anni dalla presentazione del disegno di legge, la sua
definitiva approvazione), questa fiducia è intaccata dalla
diffidenza e dalla rassegnazione di molti. Occorre un salto di
qualità all'insegna della modernità e della
correttezza.
28.
La crisi dell’autogoverno
L'autogoverno
è in crisi: nella capacità operativa del CSM e
dei consigli giudiziari, nei rapporti tra amministrazione e
amministrati, nella concreta gestione degli uffici, nella limitata
partecipazione dei magistrati (che solo raramente si fanno carico dei
problemi complessivi dell'ufficio). Esso è in sofferenza
sia nei consigli giudiziari, sempre più oberati di competenze
e richieste, sia nel Consiglio superiore, appesantito da difetti di
funzionalità, effettività e comunicazione, per ragioni
oggettive (una legge istitutiva penalizzante, scarsità di
risorse, riduzione del numero dei componenti) e soggettive (decisioni
inquinate da clientelismi e logiche di protezione). Non si può
prescindere da un cambiamento radicale, proprio per
salvaguardare e rilanciare le conquiste dell'autogoverno. Viviamo in
un sistema in cui la partecipazione è possibile: tutti i
magistrati possono sperimentare cariche associative e istituzionali e
misurarsi, secondo le proprie disponibilità e capacità,
nell'impegno associativo, nella formazione decentrata, nei consigli
giudiziari, nelle responsabilità informatiche. I limiti
temporali dei vari incarichi impongono un forte ricambio, con ampie
possibilità di rotazione. Anche al Consiglio superiore si sono
fatti significativi passi in avanti: sono state introdotte regole
tese a limitare l'eccesso di discrezionalità (e, dunque,
l'arbitrio); la formazione, centrale e decentrata, è stata una
felice invenzione per far fronte alle esigenze di una
giurisdizione moderna e consapevole; la fine dello scandalo degli
arbitrati e degli incarichi extragiudiziari lucrosi e compromettenti
è stata una scelta autonoma e coraggiosa. Questa strada
virtuosa deve essere ripresa: l'attuale situazione non è
difendibile e richiede con urgenza un progetto di autogoverno che
sappia coniugare, in concreto, indipendenza, funzionalità e
innovazione.
29.
Le prospettive dell’alleanza con Movimento per la giustizia e
Art.3
Questa
operazione, tanto ambiziosa quanto necessaria, deve trovare gambe
su cui camminare. Ciò mette alla prova, anzitutto, la
strategia intrapresa con successo alle elezione del CSM del 2002,
fondata sull'alleanza tra Magistratura democratica, Movimento per la
giustizia e Articolo 3. Non si trattò, allora, di una scelta
contingente, imposta dal mutato sistema elettorale, ma della volontà
di lanciare un messaggio di cambiamento degli assetti della
magistratura e un segnale di resistenza e di rinnovamento
delle prassi consiliari. La scelta fu premiata dai colleghi, ma i
risultati raggiunti negli ormai quasi tre anni di Consiglio sono
stati contraddittori e inferiori alle attese: non solo per
l'inferiorità numerica di fronte alla abituale alleanza, nei
settori più delicati dell'attività di governo, tra la
componente laica eletta dalla destra e quelle espresse da Unità
per la Costituzione e Magistratura indipendente, ma anche per
l'emergere, nell'alleanza, di difformità di valutazioni su
punti e scelte rilevanti. Il percorso intrapreso ha aperto una
prospettiva nuova che è stata incoraggiata, anche in recenti
elezioni associative, dal crescente consenso dei colleghi nei
confronti di alleanze locali (estese anche oltre i confini dei
gruppi) costruite su progetti concreti e condivisi. Tale prospettiva
non ha nulla a che vedere con l'intento di introdurre in magistratura
logiche bipolari prese a prestito, in modo acritico e meccanico,
dalla politica. Essa, al contrario, tende a realizzare un approccio
innovativo, un confronto sui contenuti allargato a tutti i colleghi
interessati (anche estranei alle correnti), una unità
operativa che non pretende di soffocare (ma anzi esalta) le
specificità culturali di ciascuna componente dell'alleanza. La
prospettiva resta per noi valida. Sulle modalità per
coltivarla senza perdere la carica innovativa che l'ha caratterizzata
è necessario un confronto franco e trasparente con le altre
componenti dell'alleanza, coinvolgendo tutti i colleghi interessati:
per capire le ragioni che ne hanno limitato, in Consiglio, le
potenzialità e per individuare le scelte organizzative e di
metodo utili ad evitarne il ripetersi.
30.
Magistratura Democratica e la sua attività
Il
livello dell'iniziativa politico-culturale dispiegata negli ultimi
due anni da Magistratura democratica è stato senza precedenti.
Non cito – sarebbe impossibile dar conto di tutti - i convegni
e gli incontri organizzati a livello nazionale e locale sui più
diversi temi toccati dalla giurisdizione (dall'ordinamento
giudiziario al processo penale e civile, dalla bioetica
all'informazione, dall'immigrazione al lavoro, e via elencando). Mi
limito ad alcune segnalazioni di iniziative particolarmente rilevanti
per l'ampiezza del respiro, per il coinvolgimento di altri soggetti,
per il livello di elaborazione raggiunto: il laboratorio per
una giustizia rapida, accessibile e trasparente” che ha visto e
vede per la prima volta una riflessione comune stabile con
organizzazioni del mondo del lavoro, dell'associazionismo, dei
consumatori; la carovana antimafia cui abbiamo attivamente
partecipato organizzando insieme a Libera sei momenti di
confronto in diverse città italiane sullo stato della
criminalità organizzata nell'intero Paese, conclusi da un
affollato convegno a Palermo su mafia e potere”; la
proposta dell'ufficio per il processo, elaborata insieme al
Movimento per la giustizia e agli osservatori sulla giustizia civile,
a cui si sta accompagnando la riflessione sugli stessi cardini del
processo civile; il percorso di riflessione sulla questione
femminile in magistratura, che ha visto ormai quattro seminari e
una puntuale pubblicazione dedicata a L’altra metà
della magistratura”; la festa per i 40 anni di Magistratura
democratica, che ha coinvolto in un momento di incontro, di
ripensamento, di confronto e di elaborazione esponenti di primo piano
della cultura giuridica democratica del Paese. Tutto ciò si è
accompagnato a una crescente richiesta di confronto e di iniziative
comuni da parte di associazioni e di istanze della società
civile che ha confermato il credito di cui godiamo anche
all'esterno dell'istituzione (anche se talvolta ci ha messo nella
difficoltà di fronteggiare richieste e impegni).
Va inoltre ricordato che, unico
tra i gruppi di magistrati, MD dalla sua nascita promuove una rivista
di riflessione sui temi della giustizia e della società che è
diventata su molti temi un punto di riferimento per l’intera
cultura giuridica. Questione Giustizia”, la rivista da
noi promossa, è entrata nel 23° anno di vita ed è
punto essenziale della riflessione ed elaborazione, non solo nostra,
ma di settori della cultura giuridica e della società civile.
31.
Il nostro modo di essere
All'esito
di questo biennio si conferma il ruolo tradizionale di Magistratura
democratica, del tutto originale rispetto a quello delle altre
componenti associative, di gruppo di magistrati caratterizzato da una
forte apertura verso la società e dalla costante proiezione
all'esterno dell'istituzione, con l'ambizione di riportare
dentro il corpo giudiziario le esperienze così realizzate e le
sollecitazioni ricevute. Questo ruolo diventa sempre più
impegnativo e richiede, al nostro interno, un aggiornamento
culturale, nuovi modelli organizzativi, metodi di lavoro e prassi
capaci di coinvolgere maggiormente i colleghi. Il tema di una
adeguata partecipazione femminile ai nostri organismi dirigenti, e
più in generale alla vita del gruppo, ha preso spunto anche da
qui, ponendosi come questione fondamentale di democrazia e di
perseguimento di un nuovo modo di essere del gruppo. La
complessità e ricchezza dei rapporti che coltiviamo ci
consegna, infine, un compito fondamentale nella magistratura: quello
di contribuire a realizzare l'auspicio sottostante all'analisi
formulata da Luigi Ferrajoli nel nostro ultimo congresso: «Io
credo che ogni giudice, nella sua lunga carriera, incontri migliaia
di cittadini: come imputati, come parti offese, come testimoni, come
attori o convenuti. Naturalmente non ricorderà quasi nessuna
di queste persone. Ma ciascuna di queste migliaia, di questi milioni
di persone, ricorderà quell'incontro come un'esperienza
esistenziale indimenticabile. Indipendentemente dal fatto che abbia
avuto torto o ragione, ricorderà e giudicherà il suo
giudice, ne valuterà l'equilibrio o l'arroganza, il rispetto
oppure il disprezzo per la persona, la capacità di ascoltare
le sue ragioni oppure l'ottusità burocratica, l'imparzialità
oppure il pregiudizio. Ricorderà, soprattutto, se quel giudice
gli ha fatto paura o gli ha suscitato fiducia. Solo in questo secondo
caso ne avvertirà e ne difenderà l'indipendenza come
una sua garanzia, cioè come una garanzia dei suoi diritti di
cittadino. Altrimenti, possiamo esserne certi, egli avvertirà
quell'indipendenza come il privilegio di un potere odioso e
terribile".
V.
Punto
di vista esterno, alleanze e società civile
32.
Il punto di vista esterno
Md
può vivere solo come un Giano bifronte che trae la sua
forza, la sua intelligenza, ma anche i suoi orientamenti dal
radicamento nella magistratura e, insieme, nella società. Il
modello di magistrato chiuso nella torre d'avorio o intento a
scrivere sentenze nel suo ufficio isolato dal mondo è, per
noi, inadeguato e pericoloso. L'apertura all’esterno,
l'attenzione al punto di vista esterno è, tra i filoni
che hanno caratterizzato la nostra storia, il più fecondo e
significativo. Gli altri, ad esso strettamente connessi, sono
l'abbandono del corporativismo (che sempre più manifesta la
sua miopia e incapacità di affrontare e dare soluzioni alla
grandi questioni che una magistratura moderna deve affrontare) e il
rifiuto del conservatorismo (che, seppur assai diffuso tra i
giuristi, non dà soluzioni ai problemi di una società
che cambia e che pone in continuazione nuovi diritti e nuove domande
di giustizia). Sono queste le strade su cui dobbiamo continuare. Per
farlo resta fondamentale il continuo e attento confronto con il punto
di vista esterno: molte delle idee e convinzioni che circolano
tra i magistrati assumono come unico angolo di visuale quello interno
all'apparato giudiziario e all'istituzione; ma la realtà è
più complessa e articolata e non la si può (né
la si deve) esorcizzare.
33.
Le alleanze: gli altri operatori del diritto...
Dalla
crisi della giustizia i magistrati non possono uscire da soli.
Si pone, dunque, con sempre maggiore urgenza la necessità di
costruire alleanze. I nostri naturali alleati sono gli altri
operatori del diritto: il personale amministrativo, i magistrati
onorari, gli avvocati. Quanto al personale amministrativo e ai suoi
sindacati è tempo, finalmente, di superare diffidenze e
incapacità di rapporti: i problemi che esso avverte (dalla
scopertura degli organici alla mancata riqualificazione) sono i
nostri. Quanto alla magistratura onoraria c'è, da tempo, un
proficuo e ricco rapporto con le associazioni dei giudici di pace
(oggi unificate), mentre non altrettanto accade con i giudici onorari
di tribunale e i vice procuratori onorari (spesso atomizzati e privi
di organizzazioni ampiamente rappresentative): è nostra
ferma convinzione che la magistratura onoraria sia una componente
fondamentale dell'ordine giudiziario, che la sua funzione abbia
dignità pari a quella della magistratura professionale e che
ciò imponga una più precisa definizione del suo status
e forme di governo autonomo (ferma l'opposizione ad ogni ipotesi di
automatica stabilizzazione, che, oltre a proporre significativi dubbi
di costituzionalità, snaturerebbe il concetto stesso di
onorarietà).
34.
…..gli avvocati
Veniamo,
con l'avvocatura, da un lungo periodo di difficoltà e
incomprensioni. Ma vediamo significativi segnali di ripresa del
dialogo e del confronto: negli osservatori per la giustizia, nelle
decine di comitati spontanei sorti contro una politica del diritto
personalistica e discriminatoria, in associazioni miste
(dai Giuristi democratici alla Associazione per gli studi
giuridici sull'immigrazione), nei comitati per la difesa della
Costituzione, in numerosi consigli dell'ordine e in alcune camere
penali territoriali (con cui sono state intraprese iniziative comuni
in difesa della giurisdizione e dell'uguaglianza dei cittadini di
fronte alla legge). Resta difficile il rapporto con l'Unione delle
Camere penali da cui ci divide la questione della separazione delle
carriere di giudici e pubblici ministeri, elevata dall'Unione a dogma
indiscutibile e assorbente (quasi che lì fossero tutti
i problemi della giustizia): ribadiamo, al riguardo, la nostra
disponibilità a un dialogo laico e reciprocamente tollerante,
esteso a tutte le questioni della giustizia penale e diretto alla
ricerca di ciò che ci unisce più che di ciò che
ci divide; speriamo che questa prospettiva sia condivisa e consenta
di aprire nuove prospettive, ma il permanere di chiusure
pregiudiziali non ci distoglierà dalle molte iniziative in
atto con altre articolazioni dell'avvocatura (associata e non).
35.
La difesa della giurisdizione come questione di democrazia
La
difesa della giurisdizione non è – già lo si è
detto – problema dei giuristi. Essa è, al contrario, una
grande questione di democrazia e di ciò si mostrano sempre più
consapevoli le organizzazioni sindacali, l'associazionismo, la
società civile. La lotta per il diritto e per i diritti e per
una giustizia degna e adeguata può e deve essere fattore di
una vasta unità e produrre iniziative conseguenti, a
cominciare dalla opposizione visibile a manifestazioni
eversive e xenofobe come quella, già ricordata, contro la
Procura della Repubblica di Verona.
36.
Contrastare la crisi
Tutti
cogliamo i segnali di un Paese in crisi. Lo avvertiamo anche
nel settore della giustizia. Lo viviamo nelle leggi ad personam,
nella torsione di norme e discipline per risolvere singoli casi e
procedimenti, nella menomazione quotidiana dei principi
costituzionali dell'eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla
legge e della solidarietà. Lo avvertiamo nelle scelte del
Governo che condannano la giustizia a una ulteriore decadenza
(diventata ormai, in diverse realtà, quotidiana difficoltà
a celebrare i processi ordinari). Ma ciò che è ancora
più grave sono i "guasti dell'anima", come li
ha definiti Franco Cordero, ovvero quelle modifiche profonde
provocate nel costume e nei comportamenti, secondo cui la legalità
non è più un parametro di civiltà, ma un
ostacolo da superare o aggirare, un limite negativo, mentre la forza
è l'unico valore cui la legge e i diritti (degli altri) devono
inchinarsi. I guasti provocati da leggi sbagliate sono gravi, ma
rimediabili; i guasti dell'anima sono più profondi e
difficili da curare: se non vi sarà da parte di tutti una
risposta in termini di comportamenti virtuosi, potrebbero essere
necessari decenni per rimediarvi. La decadenza e il declino non
possono essere subiti senza reagire e quanto sta accadendo non è
ineluttabile. I principi e i valori sono più forti della
volontà e degli interessi delle maggioranze contingenti. E vi
sono fattori di speranza.
37.
Contrapporre un progetto ed una speranza
Uno
di questi fattori è l'Europa, come punto di riferimento e come
nuovo terreno di confronto. La Costituzione europea è un
elemento di progresso, pur con limiti, contraddizioni, timidezze
(estesi, del resto, all'intero percorso di edificazione dell'Europa).
Siamo consapevoli di questi limiti, e tuttavia la nostra scelta è
stata (ed è) di stare all'interno del percorso in atto: per
capire, per proporre, per criticare, per cambiare. La costruzione di
un giudice proiettato nello scenario europeo è, a fronte della
varietà di fonti normative e della crescente importanza della
legislazione comunitaria, una necessità. Ma la nostra
principale speranza è la società italiana: l'economia
sana che vuole una giustizia rapida e trasparente e una lotta senza
quartiere alla criminalità organizzata; la voglia di giustizia
e di equità dei cittadini che rimanda a un giudice in grado di
pronunciarsi in tempi ragionevoli e con piena indipendenza. C'è
fame di giustizia e crescente domanda di diritti: c'è bisogno
di giurisdizione; l'obiettivo di distruggerla o comprimerla può
avere successi contingenti ma non ha futuro.
Milano,
marzo 2005
(*) La relazione è, come sempre, frutto di molti apporti e molte
discussioni di cui contiene tracce anche testuali. Solo mia peraltro
ne è, ovviamente, la responsabilità politica.