L'intervento al Congresso di Venezia dell'Anm


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di Vittorio Borraccetti

 

1. Un punto di crisi della ormai pluriennale discussione sulla riforma dell'ordinamento giudiziario riguarda l'assetto ordinamentale del Pubblico Ministero, di cui il disegno di Legge delega approvato al Senato opera una riforma nel senso della gerarchizzazione piena, all'interno del singolo ufficio e tra uffici (eliminazione dei procuratori aggiunti oggi nominati dal CSM, sostituiti con fiduciari del Procuratore, controllo ossessivo su tutti gli atti di indagine, avocazione generalizzata da parte del procuratore generale). Perché? A cosa serve una tale riforma?

 

L'attuale ordinamento del pubblico Ministero, un ufficio a gerarchia attenuata, costituisce un punto di equilibrio rispetto a due esigenze contrapposte, quella di una tendenziale uniformità di indirizzo nell'esercizio dell'azione penale e quella della diffusività del suo esercizio, più conforme al principio di obbligatorietà dell'azione penale e in grado di evitare rischiose concentrazioni di un così rilevante potere. Ne consegue il riconoscimento di un ambito di autonomia e di indipendenza al singolo magistrato nell'esercizio della funzione requirente, piena in udienza e ridotta nella fase delle indagini preliminari.

Questo punto di equilibrio è stato raggiunto nel corso di molti anni, parallelamente (e la cosa non è notata abbastanza) all'evoluzione del processo verso un sistema compiuto di garanzie.

Si vorrebbe oggi tornare indietro ad un modello rigidamente gerarchico, per altro scarsamente realizzabile nei fatti. In realtà nessuna realtà istituzionale, pubblica o privata, può funzionare oggi su parametri di rigida gerarchia.

Perché dunque questa riforma? Serve a migliorare la qualità della giustizia penale? Che così non sia l'hanno colto bene gli avvocati, che in recenti prese di posizione dei loro organismi rappresentativi (OUA, Camere penali) hanno criticato questo ritorno al passato.

Dovrebbero peraltro gli avvocati riflettere meglio sul nesso che può esistere tra un assetto gerarchico del PM e la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, che, noi siamo convinti, sfocerebbe inevitabilmente nella sottoposizione del P.M. al potere politico.

 

Ma se si allarga l'analisi dall'ordinamento giudiziario alla più generale questione della funzione del PM, ci si accorge allora che la riforma progettata dimostra la sua utilità all'interno di un progetto di ridefinizione in senso limitativo di tale funzione. Per perseguire questo risultato si dovrà necessariamente operare sul rapporto PM- polizia giudiziaria e sul potere di iniziativa del primo

In tal senso esistono già davanti al parlamento più progetti di legge, che mirano a rendere autonomo l'operato della polizia giudiziaria rispetto al PM e a porre limiti all'avvio d'ufficio da parte di quest'ultimo delle indagini. Inoltre più volte si è manifestata da esponenti dell'attuale maggioranza parlamentare l' intenzione di fare del PM un semplice avvocato dell'accusa.

E' in gioco, dunque, non l'interesse dei magistrati, ma l'assetto costituzionale del pubblico ministero, con i suoi inevitabili riflessi sulla stessa funzione giurisdizionale penale, l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, il principio di legalità. Per questo il nostro no a questa brutta riforma è netto e deciso.

 

2. Perseguire riforme dannose dell'ordinamento giudiziario, dannose per la qualità e l'efficienza della giustizia, impedisce da troppo tempo di ragionare sulle buone riforme necessarie, in ordine alle quali c'è da anni ampia disponibilità dei magistrati. Impedisce, anche, di ragionare su quello che non va anche per nostra responsabilità, in particolare sulla necessità di rendere gli uffici di Procura più trasparenti e controllabili nel loro modo di operare. Sulla necessità di uno stile e di una prassi più rispettosa della dignità delle persone, sulla necessità di un self restraint, di una cultura del limite nell'esercizio del potere giudiziario. Tutto ciò non è oggi praticabile. Lo sarà quando cesseranno le aggressioni, gli insulti, il dileggio reiterati nei nostri confronti.

Da cattedre istituzionali importanti siamo invitati al dialogo e al confronto. E' giusto, dobbiamo farlo. Siamo invitati al rispetto dell'interlocutore. L'abbiamo sempre avuto e continuiamo ad averlo, in particolare, nei confronti di governo e parlamento e siamo convinti del primato, secondo Costituzione, della funzione legislativa. Non pretendiamo di avere tutte le ragioni, né di avere ragione su tutto.

Ma il dialogo presuppone condivisione dei principi fondamentali, che sono quelli scritti nella Costituzione, e un linguaggio comune, dove le parole abbiano univoco significato. E' da sperare che su questi indispensabili presupposti del dialogo sia possibile ritrovarsi al più presto.

10 02 2004
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