Diritti, legalità e nuova legislazione


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di Glauco Zaccardi - congresso nazionale

Il tema del congresso riguarda particolarmente da vicino il diritto privato, forse anche pi di quanto non inerisca al settore della giustizia penale. Se, in quest’ultimo, si assiste al tentativo, goffo per la verità, di alcuni imputati di sottrarsi al giudice naturale precostituito per legge, in ambito giusprivatistico si sta verificando, da qualche anno, un formidabile attacco al sistema dei controlli di legalità incentrati sul ruolo di garanzia della giurisdizione.
Numerosi interventi legislativi, infatti, si inseriscono nella direzione, pi o meno manifesta, di eliminare dall’ambito di intervento del giudice interi settori del vivere sociale e del contesto economico finanziario.
Ora, il diritto soggettivo consiste in una situazione giuridica protetta, ossia sanzionata e la sanzione significa, in concreto, che il titolare della pretesa, il quale ritenga leso il suo interesse, può rivolgersi al giudice e chiedere tutela. E’ allora elementare che la compressione dell’alveo giurisdizionale, dovuta alla soppressione dei controlli di legalità, porta ad un indebolimento od alla pratica scomparsa dei diritti.
Il risultato finale è che i conflitti sociali ed economici rimangono affidati alle dinamiche di composizione extragiuridiche, ossia, in ultima analisi, vengono destinati alla soluzione che premia – a seconda dei casi - la forza o, comunque, gli assetti di interessi prediletti dai ceti pi influenti.
Conviene, quindi, preliminarmente, passare in rapida rassegna alcune iniziative, già recepite in fonti approvate od ancora in fase di proposta o discussione, tendenti alla riduzione del campo di operatività del controllo di legalità.
In prima battuta mi voglio soffermare sul diritto commerciale e, pi segnatamente sul societario. La nuova disciplina introdotta con il d.l.vo 6/2003 è il frutto della cultura, molto radicata nei ceti socioeconomici di riferimento dell’attuale maggioranza parlamentare, dell’insofferenza al regime delle verifiche di legittimità, intese come inutili lacci e lacciuoli che ostacolano l’efficace fluire delle dinamiche finanziarie. Così, ad esempio, il nuovo art. 2409 c.c. relativo al caso di denuncia al tribunale civile di gravi irregolarità di gestione o controllo, nel testo novellato, sembra consentire alla società (e, quindi, in concreto ai soci e, pi precisamente, a quelli che detengono il potere in assemblea), ove sia stato azionato il meccanismo giudiziario, di prevenire, mediante la sostituzione degli amministratori, che lo stesso pervenga ad una decisione. E’ prevista, infatti, la sospensione del procedimento e l’estinzione ove i sostituti prendano provvedimenti. Una simile soluzione, se da un lato si spiega apparentemente come inno al valore dell’autonomia negoziale, perch lascia spazio alle libere determinazioni della compagine societaria, dall’altro costituisce applicazione del motto “lasciamo lavorare questa nostra sana ed operosa imprenditoria, senza che i magistrati stiano a sindacarne le libere determinazioni”. La norma, così come frettolosamente concepita, apre il dubbio sui margini di tutela delle minoranze e, soprattutto, dei creditori. Immaginiamo il caso di una società di capitali amministrata da persone senza scrupoli, nominate da (e forti del persistere della fiducia di) soci di maggioranza che condividano le scelte gestorie di quelli. In tale, non così infrequente ipotesi, apertasi la procedura di cui all’art. 2409 c..c, ben potrà l’assemblea (e quindi il gruppo di potere), paralizzare l’accertamento giudiziale cambiando le persone fisiche, investite dell’amministrazione, con altri soggetti parimenti graditi in quanto condividenti i medesimi piani degli amministratori contro i quali sia stata proposta la denuncia. Una volta presi i provvedimenti idonei a paralizzare il procedimento, potrebbero i nuovi amministratori ricominciar secondo la linea dei precedenti. Siffatto sistema rischia chiaramente di comportare la sottrazione al giudice del controllo sulle irregolarità gestorie.
Non sembra necessario soffermarsi sui problemi che simile norma può comportare per la difesa dei creditori, già esposti alle conseguenze derivanti dalla sostanziale depenalizzazione del falso in bilancio.
Sempre in materia societaria, per la verità, già il centrosinistra aveva pensato bene di abolire le norme che prevedevano l’omologazione delle delibere delle assemblee straordinarie da parte del tribunale in composizione collegiale. La critica di questa sottrazione al controllo giudiziale di legalità non deriva certamente da sfiducia verso i notai (cui oggi è demandato nella normalità dei casi il riscontro di legittimità), la professionalità dei quali certamente non può essere revocata in dubbio, quanto piuttosto dalla percezione dell’inopportunità di un’opzione che affida al professionista di fiducia della società stessa (e, dunque, dei soci di maggioranza o, ancora, degli amministratori, che di quelli costituiscono braccio operativo) il controllo di legalità sulle deliberazioni. Sarebbe come se una parte potesse rivolgersi all’ avvocato di fiducia per fargli decidere le proprie liti con terzi.
Anche qui, come nel caso del novellato art. 2409 c.c., si riduce lo spazio della giurisdizione e si affidano, in fondo, le controversie ad essa sottratte al libero contrasto tra le forze in contrapposizione, con inevitabile sacrificio delle ragioni delle minoranze.
Saltando completamente settore di intervento e passando al diritto dell’immigrazione, è clamoroso il sistema dell’impugnazione del decreto di espulsione dopo che la stessa sia stata già eseguita. Se è vero che, con mirabili ordinanze, è stata già sollevata questione di legittimità costituzionale della norma cui alludo, per l’evidente carattere meramente formale dell’ossequio al diritto di difesa, non essendo seriamente concepibile che l’extracomunitario possa difendersi adeguatamente dall’estero (perch se tornasse in Italia commetterebbe per ciò stesso un reato), proponendo opposizione alla misura espulsiva nei termini molto ristretti contemplati, d’altro canto è estremamente significativo il sistema di valori del quale la disposizione è emblematica espressione. Innanzitutto ci si deve preoccupare che lo straniero irregolare sia espulso concretamente, prima dell’intervento dei giudici, di quei giudici che con la propria giurisprudenza avevano addirittura osato, in passato, dubitare della legittimità costituzionale delle norme istitutive dei centri di detenzione amministrativa; poi, se del caso, avrà luogo un simulacro di processo civile, che servirà per adeguare (nell’apparenza) le carte al rispetto dei principi fondamentali della Costituzione e, segnatamente, ancora una volta, al rispetto del diritto di difesa, che la nostra carta fondamentale vuole riconosciuto e sanzionato in capo a tutti, italiani e non.
Continuando la rapida rassegna, non sembra necessario dedicare pi di un fugace accenno all’assetto del diritto del lavoro che l’attuale maggioranza parlamentare auspica. In questa sede, tengo solo a sottolineare l’aspetto, comune alle altre scelte legislative sopra commentate, dell’abolizione dell’art. 18, nella parte in cui consente la tutela reintegratoria reale, quale sottrazione al giudice del ruolo di garante della legalità. E’ qui, pi che in qualsiasi altro settore del vivere sociale, che si percepisce l’insofferenza del ceto borghese imprenditoriale medio e piccolo, verso la verifica di legalità; il giudice che si permette di entrare nell’azienda ed ordinare il reintegro del dipendente licenziato, proprio non si sopporta ed il centrodestra, in questo molto onestamente, si erge quale epigone della lotta a simile tremenda ingiustizia.
L’obiettivo è lo stesso di quello che riscontriamo quando ci spiegano, o almeno provano, che, per incrementare l’occupazione, occorre “aumentare la flessibilità in uscita dal mercato del lavoro”: ampia perifrasi con la quale si cerca di presentare in modo pi rassicurante, almeno sul piano espressivo, la libertà del solito, sano, operoso ed onesto imprenditore, di sciogliersi agevolmente dal rapporto di lavoro. Il valore di fondo è sempre riconducibile alla cultura che vede nella regolamentazione e nel controllo del rispetto di questa, un sistema di inutili ostacoli frapposti allo svolgersi delle dinamiche economiche dei ceti rappresentati dal centrodestra italiano.
Quegli stessi ceti ai quali si fanno ponti d’oro affinch condonino le violazioni fiscali e, in Sicilia, quelle edilizie.
Venendo al processo civile, ossia al fulcro della tutela dei diritti, il funzionamento del quale rappresenta, in ogni ordinamento giuridico, la misura della vera forza dei diritti stessi, si assiste ad una proposta, gli effetti della quale, magistratura democratica non ha mancato di evidenziare. Il nuovo processo del quale si persegue l’introduzione si incentra sulla sottrazione al giudice del momento della raccolta delle prove. Il giudice, in altri termini, esce dalla scena quando si raccoglie il materiale probatorio sul quale egli dovrà fondare la decisione, per farvi rientro solo dopo la chiusura dell’istruttoria.
L’idea è che, per risolvere il problema della durata dei processi civili, basta eliminare quello che, nell’assoluta e larga maggioranza dei casi, rappresenta il punto di incaglio: l’assunzione delle prove.
Di fronte a questa proposta dobbiamo innanzitutto, con forza ed onestà, sottrarci alla tentazione di plaudere ad una soluzione che ci consentirebbe, forse, di migliorare le nostre statistiche personali, lavorando meno.
Bisogna, al contrario, sottolineare in ogni sede, scientifica e non, che il processo civile di tipo americano rischia di non risolvere il problema che si propone di superare e ne crea un altro, ben pi inquietante.
Non aiuta ad accelerare i processi perch la raccolta delle prove affidata agli avvocati, senza il filtro prima, la direzione poi, del giudice, sembra destinata ad appesantirsi. Si pensi alla previsione secondo la quale, in caso di incidenti nell’assunzione, ci si potrà rivolgere al giudice. Per ogni singola questione, in altri termini, occorrerà tutte le volte avviare una specifica fase di contraddittorio che, oggi, non è necessario instaurare; attualmente, se, nel corso dell’assunzione sorge un incidente, il giudice lo risolve con ordinanza nella stessa udienza, mentre nel futuro che ci si propone si dovrà tornare appositamente in tribunale, così interrompendo l’istruttoria.
In secondo luogo, mentre il giudice ha il potere di dettare (nel pieno disinteresse) i ritmi ed il calendario del processo, ad esempio riducendo i testi sovrabbondanti o concentrando l’assunzione di quelli ammessi, immaginare gli avvocati che rinuncino ai propri testimoni o li sentano tutti insieme, così di fatto autoriducendosi le parcelle, se  auspicabile nel migliore dei mondi possibile, non è detto che accada nel nostro.
Senza contare che, un’istruttoria affidata agli avvocati è destinata, sempre sul piano della speditezza, a scontare l’eventuale disinteresse verso la singola lite, rispetto ad altre controversie, magari pi redditizie per gli stessi professionisti, mentre con il giudice questi problemi non si pongono. In questo senso è emblematica l’esperienza californiana, la quale ha visto ridimensionare sino ad un terzo la durata delle cause per avere i giudici escogitato un sistema di recupero della direzione del processo.
Dunque, sussiste pi di una ragione per dubitare seriamente che il nuovo processo di tipo americano che si prospetta all’orizzonte sia in grado di accelerare i tempi di celebrazione delle cause.
Ma, come anticipato, non soltanto il modello proposto appare inetto allo scopo; esso presenterà, senza ombra di dubbio, risvolti drammatici in tema di forza dei diritti, aprendo la strada al definitivo prevalere della forza sul diritto (questa volta inteso in senso oggettivo).
La raccolta delle prove, ossia dell’humus senza il quale non può germogliare la sentenza, essendo affidata alla dialettica tra gli avvocati, resterà inesorabilmente influenzata dalla qualità dei difensori e, conseguentemente, statisticamente tenderà a prevalere la ragione del pi ricco, ossia di colui che sarà in grado di procurarsi le prestazioni professionali dei pi preparati avvocati. Questi ultimi, oggi, trovano il proprio limite nel ruolo del giudice, domani riscontreranno nel giudicante solo il notaio che dovrà dare atto del loro successo nella controversia.
Dinanzi a queste evidenti forme di aggressione ai diritti (molte altre se ne potrebbero enumerare, ma la ristrettezza dei tempi necessariamente imposti dalla durata del congresso non ci consente di approfondire il dettaglio), intesi come garanzie valide per tutti, anche per i pi deboli, non può magistratura democratica astenersi dal compiere una seria autocritica per verificare se si stia facendo tutto il possibile: a) per scongiurare la Caporetto dei diritti e: b) per avanzare una seria e corretta controproposta.
Innanzitutto, sul primo versante, dobbiamo prendere atto che i giudici civili hanno fornito il proprio contributo causale al processo di rarefazione delle garanzie ed al connesso indebolimento dei diritti soggettivi.
Se, infatti, ad esempio, il legislatore ha eliminato il vaglio giudiziario per l’omologazione delle deliberazioni assembleari delle società di capitali, è forse perch noi stessi, presi dalla quotidianità, dalle statistiche, forse dalla demotivazione conseguente alla routine, avevamo così svilito la nostra (invece importantissima) funzione da abrogare in fatto la previsione del relativo potere. Una prassi fondata sull’appiattimento e sulla convalida dell’operato dei notai delle singole società, soprattutto nei piccoli tribunali, riduceva a simulacro di giurisdizione la fase delle omologazioni e, in questo senso, il legislatore non ha fatto altro che formalizzare e consacrare la nostra esperienza (cui, ovviamente, si erano sottratti alcuni uffici giudiziari, prevalentemente nei grandi circondari).
Si può quindi concludere che la magistratura non abbia fatto sino in fondo il possibile per difendere i controlli di legalità.
Quanto alle proposte alternative alla carta giocata dal centrodestra, mi sembra che non colga nel segno la direzione, invece oggi di moda, della creazione delle competenze specializzate in primo grado (il tribunale dell’industria, della famiglia e chissà quali altri ci aspettano dietro l’angolo).
Così, volendo esemplificare, quasi tutti abbiamo salutato con generalizzato (e troppo facile) entusiasmo la proposta di introduzione di un ufficio distrettuale con cognizione sulle controversie societarie. L’idea di fondo è che le liti di questo specifico settore non possano attendere per anni la decisione e, soprattutto, che esse necessitino di una magistratura dotata di un sapere esteso molto al di là del diritto, sino a ricomprendere le dinamiche micro e macroeconomiche, la contabilità ed altro.
A ben vedere, un simile modo di ragionare va nel senso opposto rispetto alla via maestra della difesa dei diritti di tutti. E’ noto che le cause societarie (in senso ampio) rappresentano un percentuale di circa l’1% del contenzioso attualmente pendente in primo grado. Come si può, allora, pensare di risolvere il problema della durata dei processi sottraendo, in ogni distretto, un certo numero di giudici al 99% delle liti per affidarli al restante 1%?
Si finisce, a mio parere, per creare una sacca di efficienza nel settore del diritto commerciale e delle società, ossia (guarda caso) nel campo che maggiormente pertiene agli interessi dei ricchi, del ceto che sorregge l’attuale maggioranza parlamentare.
In tal senso è criticabile, perch mossa dalla stessa direttrice di fondo, la riforma dei procedimenti di diritto societario. Infatti, mentre da anni l’ordinamento persegue il superamento della collegialità nel settore civile, al fine di liberare risorse (salvo che in quelle materie che richiedano effettivamente una riflessione ed un’assunzione di responsabilità in tre), dall’altro, con riguardo alle cause societarie, non soltanto non abbandona la competenza del collegio per la decisione, ma crea un rito ad hoc con una corsia preferenziale. Insomma, attualmente si fanno ponti d’oro alle cause dei ricchi, quasi che si volessero introdurre, in tribunale come in treno, la prima e la seconda classe.
Peraltro, se per la famiglia possiamo essere d’accordo sulla necessità di una specializzazione massima possibile, vista la delicatezza degli interessi in gioco nel relativo contenzioso, proprio non riesco a capire perch si sostenga lo stesso a proposito delle società. E’ ben vero che, statisticamente, le liti in tale ambito hanno ad oggetto beni della vita di rilevante valore economico, ma tale elemento, lungi dal presentare carattere di eccezionalità, rappresenta solo una delle variabili da cui dipende l’importanza della controversia per i litiganti e per il contesto sociale, essendovene molte altre che sono meritevoli di considerazione almeno pari.
Intendo dire che, premesso che, per ogni cittadino, la propria causa ed il proprio giudice sono sempre incidenti fondamentali nella vita, certamente vi è un novero di liti che, anche se aventi ad oggetto accertamenti su domande di scarso valore economico, meritano un’attenzione particolare per i riflessi che possono comportare sul contesto sociale in cui si svolge il contrasto tra gli interessi dialettici.
Penso alle possessorie, alle cause condominiali, alle locazioni: si tratta di procedimenti nei quali si convoglia spesso un fiume di tensione tra le parti che, per le singolari vicende fattuali (l’essere le parti stesse pi o meno costrette a vivere con costanza il proprio reciproco contatto) dei casi concreti, rappresenta una vera e propria bomba ad orologeria. In questi campi, pi che altrove (e certamente almeno quanto nel societario) una decisione rapida e corretta previene la corsa dei cittadini alle armi.
Allora, se veramente vogliamo fornire il nostro contributo alla forza dei diritti, piuttosto che introdurre delle oasi di efficienza nelle materie di pertinenza dei ricchi, non resta che perseguire la linea del recupero e della valorizzazione della centralità del giudice.
Ma questa dipende dalla nostra capacità di dirigere seriamente ed efficacemente il procedimento. Il processo civile modellato dal legislatore del 1990 ha segnato un passo importante verso la concentrazione e l’oralità; il giudice, dal canto suo, deve sfruttare in fondo gli strumenti già esistenti: concedere termini per memorie (ad esempio ex art. 183 c.p.c.) solo quando le parti alleghino e dimostrino effettive esigenze, esaltare la fase della trattazione in senso proprio, curare, nella formazione dei ruoli, un’equilibrata distribuzione tra le cause in base ai rispettivi incombenti previsti per l’udienza, non sottrarsi al libero interrogatorio delle parti, ridurre l’istruttoria al veramente rilevante, salvo poi approfondire in questo ambito l’accertamento, valendosi dei poteri officiosi generalizzati nel rito monocratico. So bene che tutto ciò comporta maggiori oneri, ma non possiamo sottrarci se veramente abbiamo a cuore i diritti di tutti.
E, ultimo ma non per importanza, attendo con ansia la diffusione dei programmi di controllo telematico della produttività e dell’efficienza del giudice e delle cancellerie, strumenti attraverso i quali, con lo stimolo della soggezione al controllo capillare, probabilmente si spingeranno i giudici a misurarsi con il maggiore impegno necessario per dirigere attivamente i processi.
Infine, sul piano legislativo, la magistratura associata dovrebbe attivarsi per l’esaltazione generalizzata del sistema delle preclusioni e delle decadenze processuali (al fine di prevenire la tendenza di molti avvocati a ritardare l’inizio della contesa) e per la sottolineatura della separazione delle fasi del procedimento. Il tutto, con correttivi affidati ai poteri di ufficio del giudice, chiamato, non tanto a salvare la scarsa diligenza delle parti, quanto ad adeguare il processo alla sua funzione (da esaltare nella prospettiva oggettiva) di mezzo di accertamento della verità.
Sono sicuro che, con nuovi strumenti normativi e con una mentalità pi attiva nel senso del recupero della direzione, i giudici civili riuscirebbero a vincere la sfida dell’efficienza.

24 01 2003
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