Maura Nardin e Marco Pivetti
UN PROCESSO CIVILE PER IL
CITTADINO
(Lineamenti
di una proposta di riforma della procedura civile)
di
Maura Nardin e Marco Pivetti
-
1.
Perché un altro progetto di riforma del processo civile?2.
Alcuni dei punti essenziali del progetto3.
Il concetto di giusto processo. La pluralità dei suoi
significati4.
La concentrazione della trattazione e il recupero
dell’oralità. Il dovere di dire la verità.
L’interrogatorio libero. Il ruolo attivo del giudice nella
fase di trattazione6.
Preclusioni e decadenze. Il problema delle eccezioni
rilevabili d’ufficio e non soggette a preclusione7.
Il risparmio flessibile delle forme processuali. La tutela
sommaria. La flessibile modulazione della forma della sentenza8.
Una conclusione provvisoria, con un ricordo di Virgilio Andrioli.
1. Perché un altro
progetto di riforma del processo civile?
Di
fronte alla bulimia legislativa1
che ha investito la giustizia civile nell’ultimo anno, è
naturale che tutti coloro che si occupano a vario titolo di questo
ramo della giurisdizione abbiano provato una reazione di rigetto o
di saturazione. In questa situazione, è lecito chiedersi come
mai un gruppo di magistrati si è impegnato ad immaginare e ad
elaborare un nuovo progetto di riforma del processo civile arrivando
addirittura a metterne per iscritto le regole.
Il primo motivo che ci ha spinto
è stata la convinzione che una riforma del processo civile è
assolutamente necessaria; che le norme processuali emanate in questi
mesi sono insufficienti, sbagliate e in parte controproducenti, e che
quindi era necessario fare una proposta alternativa.
Per
non lasciare nel generico queste qualificazioni valutative occorre
distinguere: all’interno di questo jus novissimum vi è
un corpo di norme – il cd processo Vaccarella - che è
stato previsto come modello obbligatorio per il contenzioso
societario e come modello opzionale per la parte restante del comune
contenzioso civile. é un tipo di processo che non piace alla
maggior parte di noi perché, contraddicendo radicalmente il
principio di oralità, determina la separazione tra decisione e
processo, attribuendo un ruolo quasi esclusivo all'autonomia delle
parti nella gestione di questo e lasciando al giudice il mero”
compito di decidere (nell’onnipotente solitudine della camera
di consiglio) le questioni processuali e la causa, se e quando le
parti glielo chiedono e sulla base degli elementi da esse forniti.
Consideriamo sbagliata questa impostazione, ma riconosciamo che essa
ha due pregi: si tratta, in primo luogo, di un modello che traduce
una scelta culturale chiara, precisa e coerente e quindi per ciò
solo seria. Il secondo pregio è quello del realismo – ma
a ben vedere non è un pregio: è la traduzione di un
cupo pessimismo della volontà e della ragione che induce a
ritenere che nulla possa cambiare e che tanto vale consacrare
l'esistente. Diciamo questo perché il modello Vaccarella, in
realtà, corrisponde al modo di fare i processi che è
già ora in atto negli uffici giudiziari più disastrati
e presso i giudici peggiori” – o quanto meno
quelli meno impegnati e quelli troppo sovraccarichi per poter essere
qualcosa di diverso da scrivani di sentenze2.
La delega totale alle parti della trattazione e della gestione del
processo e magari anche dell’istruttoria (secondo l’ipotesi
originaria) con il giudice che non ne sa proprio nulla fino a quando
non gli viene chiesto di prendere la causa a sentenza”,
con i testimoni che vengono interrogati dagli avvocati, con le
riserve per ogni micro-questione, ecc., sono proprio i caratteri di
quelle diffusissime prassi degenerative che gli Osservatorii
sulla giustizia civile” si sono prefissi di denunziare e di
risanare.
Un
modello coerente, organico e consapevole, ed anche realistico,
quindi, pur se tristemente realistico: chi si oppone ad esso,
pertanto, ha quanto meno l’onere di specificare quale è
la sua prospettiva e di articolare una contro-proposta che sia
altrettanto chiara, precisa e coerente e che non si limiti a
tentativi di riduzione del danno” con mediazioni
di compromesso.
Ma anche una proposta che non
sia utopistica, pur se qualche frammento di utopia è spesso
necessario per immettere nella realtà fattori di spinta.
La
parte restante delle recenti norme processuali si caratterizza
invece, all’opposto, per essere un affastellamento di norme
eterogenee, alcune anche positive se considerate a sé, ma
totalmente prive di una coerente e decifrabile visione di insieme
circa l’essere e il dover essere del processo3.
é stato quindi naturale che anche questa parte
dell'innovazione legislativa facesse sentire il bisogno di un modello
processuale capace di dare organica attuazione ad una concezione
della giustizia civile chiaramente esplicitata e realmente capace di
determinare una svolta radicale in termini di giustizia e di
ragionevole durata del processo.
Che
cosa significa una svolta radicale” per quanto riguarda
la durata del processo? Attualmente una controversia civile dura
mediamente, in primo grado, poco meno di tre anni circa. Occorre però
precisare che questo dato si riferisce alla durata media di tutti i
processi civili di cognizione ordinaria, quale che ne sia la modalità
di definizione, compresi quindi i processi che si chiudono in
limine per conciliazione o per inattività. Per quanto
riguarda i processi definiti con sentenza, i dati relativi alla loro
durata media sono naturalmente diversi e più lunghi: tre anni
fa erano di circa 3 anni e 8 mesi (il che è ovvio, ma già
mette in evidenza una prima essenziale necessità: quella di
por mano a riforme che favoriscano la definizione anticipata della
lite, riducendo la quota di processi che arriva fino alla sentenza).
Teniamo presente che il parametro cui fa riferimento la
giurisprudenza europea sul principio di ragionevole durata del
processo è appunto il tempo necessario per ottenere una
sentenza4.
Comunque, anche a prescindere
dalla giurisprudenza della Corte europea, le lungaggini della
giustizia civile italiana non sono più tollerabili. Ogni
sforzo sul piano legislativo (processuale e ordinamentale),
amministrativo, organizzativo, finanziario - ed anche e soprattutto
sul piano della cultura delle prassi - dovrebbe concentrarsi
sull’obiettivo di eliminare questa grave vergogna del nostro
sistema di giustizia. L'obiettivo che è necessario perseguire
è, in concreto, un processo civile che di regola duri meno di
un anno e che - salvo ipotesi eccezionali - non duri mai più
di due anni in primo grado. Si tratta di un obiettivo che, a nostro
avviso, è possibile raggiungere e, per farlo, non è
necessario produrre strappi rispetto ai principi, ma, al contrario,
si deve dare ad essi concreta attuazione. Oggi, grazie anche alla
c.d. legge Pinto, sembra che sia diffusa una maggior consapevolezza
del valore dei tempi della giustizia. Ma si ha anche l’impressione
– e forse solo gli avvocati possono confermarla o smentirla –
che spesso questa consapevolezza del tempo si traduca nella tendenza
ad un atteggiamento burocratico-produttivistico che pone al primo
posto delle priorità il rapido smaltimento” delle
pratiche e considera una superflua civetteria quella di impegnarsi a
fare giustizia in modo giusto e non in modo superficiale e sbrigativo
a priori.
L'esperienza ci ha dimostrato
che la riforma delle regole del processo è necessaria, ma non
sufficiente: occorre anche agire sull'organizzazione (ordinamento e
organizzazione vera e propria) e sulle prassi. La scelta che è
stata fatta dal gruppo che ha elaborato queste proposte di riforma è
appunto quella di farne la componente di un progetto più ampio
che investe anche sia gli assetti e i moduli organizzativi sia le
prassi (e i fattori materiali e immateriali che le generano). In
realtà il problema della giustizia civile è un problema
complesso e ai problemi complessi si può far fronte solo con
risposte complesse, non con ricette semplificanti.
Per
quanto riguarda i rapporti con il tema dell'organizzazione5,
non vi è soltanto la ovvia considerazione che nessun processo
può funzionare bene in una realtà organizzativa
ammalata o inefficiente. Il processo è esso stesso
organizzazione ed il nostro” progetto processuale è
espressione di quella stessa impostazione goal-oriented cui si
ispira e si deve ispirare il discorso sull’organizzazione. La
stessa formula ufficio del processo” che ha identificato
la nostra ricerca sul terreno organizzativo indica che il risultato
cui mira e deve mirare l'organizzazione è il processo; il
discorso processuale deve avere di mira a sua volta, il suo
risultato e cioè la giustizia e la rapidità della
decisione. La cultura del risultato (dal punto di vista dei
cittadini e dei loro diritti) è quella che ha ispirato tutto
il nostro lavoro complessivo su organizzazione, prassi e processo ed
essa si contrappone a quella tendenza all'autoreferenzialità e
al corporativismo (non solo magistratuale) che tradizionalmente
connota culture e prassi sia dell'organizzazione che del processo.
Lo
stesso può dirsi per la cultura della responsabilità
alla quale abbiamo ugualmente cercato di ispirare il nostro
progetto: che vi debba essere un responsabile del procedimento è
ormai acquisizione scontata (anche se non sempre inverata) nel campo
dell'organizzazione amministrativa; a noi sembra che sia
indispensabile introdurre chiaramente questa impostazione anche nel
procedimento giurisdizionale.
Infine,
se è certamente estranea alla giustizia qualunque impostazione
aziendalistica ed in particolare il paradigma del rapporto
costi-ricavi, deve essere tuttavia superata la concezione secondo cui
è irrilevante la considerazione delle risorse praticamente
disponibili e della loro ineliminabile scarsità. Dai
meccanismi della giustizia deve essere espunto tutto ciò che
in concreto allunga, complica e intralcia senza servire per davvero
ad attuare un processo giusto in concreto. Questo significa, ad
esempio, abbandonare l'idea che il modello di processo praticamente
prevalente debba necessariamente essere quello della cognizione piena
ed esauriente, anche quando le stesse parti non ne sentano il
bisogno. Ciò significa anche contrastare severamente tutte
le manifestazioni di abuso del processo.
In
definitiva riteniamo che la prima delle linee ispiratrici della
riflessione sul dover essere del processo debba essere il
pragmatismo. Il processo è qualcosa di pratico e la
regolazione di esso deve quindi essere orientata pragmaticamente al
perseguimento di obiettivi, oltre che al rispetto dei principi. Un
pragmatismo orientato a dare attuazione ai principi ed in particolare
a quel principio fondamentale secondo cui il processo deve servire
alla tutela dei diritti. E se l'obiettivo del processo è la
tutela dei diritti sostanziali, la finalità delle norme
processuali deve essere necessariamente quella di assicurare che il
processo sia adeguato a tale obiettivo.
Quanto
alle prassi e ai relativi protocolli”, le
connessioni che abbiamo avvertito tra questo profilo e quello
processuale sono ancora più strette. Il rapporto tra prassi e
regole è molto variabile e complesso: l'esperienza storica
dimostra che vi è una sorta di naturale e perversa tendenza
delle prassi a collocarsi ad un livello inferiore e peggiore rispetto
alle regole processuali. Ma l'esperienza ha anche dimostrato che la
riforma delle regole processuali può funzionare come fattore
di spinta al rinnovamento culturale delle prassi. Il richiamo è
alla felice stagione dell’entrata in vigore della legge del
1973 sul processo del lavoro. Ma è anche al clima di impegno e
di passione che accompagnò la discussione sulla riforma del
1990, prima di annegare nella palude dei rinvii della sua entrata in
vigore e dei suoi progressivi inquinamenti compromissori.
Vi
è poi una stretta complementarità tra una concezione
del governo del processo affidata anche alla responsabilità
dei suoi protagonisti e alla flessibilità dei suoi strumenti
di regolazione e la valorizzazione dei protocolli” sulle
prassi, intesi anche come individuazione di criteri consensuali per
la determinazione dei parametri e dei valori che debbono governare
la discrezionalità processuale. L’argomento potrebbe
essere approfondito ma qui possiamo limitarci ad un rilievo: in un
processo burocraticamente regolato da regole meccanicistiche i
protocolli non avrebbero senso. La ricerca di una deontologia
consensuale del processo è anche il terreno per l’introduzione
di fattori di compensazione e di equilibrio rispetto alle logiche
puramente efficientistiche che possono eccessivamente condizionare il
tema processuale se esso viene inteso come questione meramente
organizzativa. Goal oriented, abbiamo detto; ma, pur
consapevoli della necessità di una maggiore immedesimazione
nella cultura dei mezzi, dei tempi e dei numeri, non dobbiamo
dimenticarci che il principale degli obiettivi, ai quali deve
orientarsi la nostra azione è la giustizia. Gli
avvocati sono il sensore naturale per avvertire lo scarto tra
giurisdizione e giustizia. Nel confronto continuo, concreto e
ravvicinato sulle prassi, quale può avvenire a livello locale,
vi è l’antidoto più efficace contro le tendenze
dell'aziendalismo ad aumentare questo scarto in nome delle quantità.
Al fondo – ma neppure tanto in fondo – è proprio
la giustizia il valore comune tra le due professioni, quello
che le rende meritevoli di impegno e di passione e che dovrà
tornare ad essere il terreno della comunicazione e del riconoscimento
reciproci tra di esse.
Poche righe, infine, per
spiegare i motivi per i quali abbiamo ritenuto di esprimere le nostre
idee per la riforma del processo sotto forma di articolato.
La ragione è stata
soprattutto un’esigenza di rigore, di precisione e di
impegnativa chiarezza. Proporre le nostre scelte con la diretta
presentazione della loro traduzione normativa, è stato non
soltanto un fatto di igiene mentale” (come lo abbiamo
definito nel corso dei nostri incontri) ma anche la sollecitazione
ad un confronto aperto, chiaro e specifico, non riferito a formule
verbali o alla genericità di argomentazioni evocative.
2. Alcuni dei punti
essenziali del progetto
La riforma del processo civile
non può che perseguire il fine di dare la più piena
attuazione al nuovo testo dell'articolo 111 della Costituzione, il
che significa creare le condizioni perché i processi siano
giusti e siano di durata ragionevole.
Abbiamo ritenuto che per avere
processi giusti e di durata ragionevole gli strumenti da apprestare
siano, principalmente, quelli che qui di seguito elenchiamo,
avvertendo fin d’ora che ciascuno di essi è strettamente
collegato a ognuno degli altri:
a)
potenziamento del giudizio di primo grado e, all'interno di esso,
della fase di trattazione, con l’obiettivo di dare in essa
concreta attuazione al principio di oralità ampiamente inteso
e di far sì che la prima udienza di trattazione sia, almeno
tendenzialmente, il momento in cui tutto viene dichiarato, chiarito e
accertato attraverso un confronto immediato, diretto e concentrato
tra le parti e tra di esse e il giudice;
b)
conseguente trasformazione del giudizio di appello in un giudizio di
controllo;
c)
razionalizzazione del giudizio di cassazione (oltre che come effetto
della modifica del giudizio di appello, anche mediante la riduzione
sia delle ipotesi di sentenze inappellabili e quindi ricorribili
direttamente in cassazione, sia delle ipotesi di sindacato sulla
motivazione, confermando e potenziando l’attuale sistema
di trattazione rapida dei ricorsi manifestamente fondati o
manifestamente infondati), senza alterazione degli attuali caratteri
del giudizio e della corte di cassazione;
d)
identificazione nel giudice del responsabile del
procedimento”, e cioè il soggetto che possa e debba
rispondere dell'andamento del processo;
e)
esplicitazione – come corollario di quanto sopra - del
dovere del giudice di governare il processo e
conseguente assegnazione ad esso tutti gli strumenti necessari per
poter esercitare un governo effettivo del processo e
potervi svolgere un ruolo più attivo, in particolare
prevedendo: e1) una disciplina legislativa che rafforzi e
renda effettiva la responsabilità delle parti imponendo loro
di comportarsi nel processo con correttezza, lealtà,
chiarezza, speditezza e diligenza; e2) una regolamentazione
dei termini e delle forme per le attività processuali delle
parti coerente con la necessità di ridurre drasticamente la
durata dei processi e con l’esigenza di reprimere qualunque
abuso del processo e delle forme processuali; e3) l’aperto
riconoscimento al giudice di un relativamente ampio potere
discrezionale da esercitare principalmente, ma non esclusivamente,
per rendere flessibili le prescrizioni e le preclusioni al fine di
evitare che esse si trasformino da strumento di governo del processo
in trabocchetti o comunque in strumenti di ingiustizia; e4)
il riconoscimento al giudice di un generale potere di disporre
d’ufficio i mezzi di prova, con obbligo di garantire il
contraddittorio;
f)
regolazione normativa dell’esercizio dei poteri discrezionali
attraverso la prescrizione dei fini, dei modi, dei limiti e dei
criteri ai quali l’esercizio della discrezionalità deve
uniformarsi e soprattutto attraverso la previsione di adeguati
controlli in sede di impugnazione sull’esercizio concreto della
discrezionalità;
g)
previsione di strumenti di tutela sommaria anticipatoria -
non condizionati all’instaurazione e alla conclusione del
giudizio di merito - al fine di ridurre drasticamente il numero dei
processi che percorrono tutto l'iter della cognizione piena ed
esauriente fino alla sentenza, senza però intaccare il diritto
di ciascuna parte ad avere una cognizione piena ed esauriente sulla
propria causa;
h)
previsione di una pluralità di forme semplificate di
motivazione della sentenza.
L'elencazione delle innovazioni
che proponiamo potrebbe continuare. Abbiamo qui indicato solo quelle
che ci sono sembrate più significative. Ma riteniamo che anche
il semplice elenco delle modifiche proposte renda chiaro quante sono
le cose che nell’attuale processo non vanno (secondo la nostra
opinione ovviamente; e secondo la nostra concreta esperienza di
gestione dei processi) e quanto sia radicale una riforma che pure si
traduce in modificazioni apparentemente modeste e puntuali delle
norme esistenti.
3. Il concetto di giusto
processo. La pluralità dei suoi significati
Abbiamo
già detto in che consiste, secondo noi, la traduzione concreta
del principio di ragionevole durata e vogliamo ripeterlo: i
processi civili non debbono durare di regola più di un anno.
Così accade in molti altri paesi europei e non vi è
davvero ragione per ritenere che il nostro ordinamento sia
irreversibilmente condannato a subire lo scandalo dell’attuale
lentezza della giustizia civile.
Per
quel che riguarda la traduzione concreta della formula del giusto
processo il discorso si fa meno semplice. Perché il
processo si svolga in modo giusto occorre in primo luogo che siano
rispettati i principi del contraddittorio, del diritto di azione e di
difesa, della parità delle parti, dell’imparzialità
del giudice - essendo questi i principi che il dettato costituzionale
e la cultura giuridica di tutti i paesi civili ritiene essenziali.
Ma occorre anche che il processo si svolga in modo tale da tendere ad
una decisione giusta, oltre che sollecita.
"Giusto
processo", infatti, non significa esclusivamente processo
conforme alle altre regole specifiche e agli altri principi
espressamente consacrati nel nuovo art. 111 o in altre norme
costituzionali riguardanti il processo. L’art. 111 non dà
una definizione del giusto processo” e, in particolare,
non dice che con tale espressione si intende un processo
regolato secondo gli altri principi enunciati nella norma (che pure
sono da intendersi inclusi, senza, esaurirlo, nel concetto di
giusto processo), ma enuncia il principio come regola costituzionale
autonoma, dotata quindi di un proprio significato precettivo.
Secondo
Trocker6
la formula giusto processo” serve ad affermare il
significato relazionale delle garanzie costituzionali del
processo; serve cioè ad affermare che queste ultime non
possono e non debbono essere viste ciascuna come un dogma a sé
stante e autosufficiente nella sua formalità testuale, ma
tutte debbono essere lette e soprattutto applicate nel loro insieme,
in modo coordinato e complessivamente orientato ad un fine, quello,
appunto del giusto processo, che trascende le singole
garanzie, pur comprendendole tutte. Si tratta di una impostazione
interpretativa che appare da condividere, ma anche da sviluppare.
Essa, infatti, non si riduce al generale principio di contemperamento
tra principi costituzionali nei casi in cui l’integrale
applicazione dell’uno confligga con l’integrale
applicazione dell’altro, ma dice qualcosa di più. Il
criterio unificatore è dato da un parametro che parla di
giustizia e che come tale, proprio in ragione della sua
funzione assiologica, evidenzia il carattere strumentale - anche se
costituzionalmente consacrato - delle altre garanzie processuali
rispetto ad un fine, al quale tutte debbono coerentemente e
coordinatamente concorrere, che è quello della giustizia
del processo e non della sua mera regolarità o legalità.
Non
è semplice dire che cosa è necessario perché un
processo possa ritenersi giusto. Al di là delle specificazioni
contenute nell'attuale art. 111, vi è una grandissima
molteplicità di significati che ci sono suggeriti dalla nostra
cultura della giurisdizione e del diritto. Ma anche da una
ragionevole e concreta considerazione di quali siano i reali bisogni
di giustizia (procedimentale) dei cittadini. Il parametro della
giustizia - che normalmente serve a valutare le norme e gli atti
giuridici dall'esterno, da punti di vista non direttamente giuridici
- diviene ora comando costituzionale, regola giuridica, con tutto il
carico di riferimenti extratestuali che il termine giustizia
porta con sé, quale sia il contesto in cui esso è
adoperato.
Che
il processo debba essere giusto, significa in primo luogo che
esso deve svolgersi correttamente: e quindi non soltanto in
conformità ai principi strumentali di cui si è detto,
ma anche secondo criteri di efficienza, di trasparenza e di
comprensibilità (non è corretto un processo che si
svolge in modo incomprensibile per il cittadino), di parità,
di solidarietà. Se processo giusto significa processo
corretto, occorre considerare che non può essere corretto un
processo in cui le parti abbiano il diritto di comportarsi
scorrettamente e cioè, ad esempio, il diritto di dire il falso
o di tacere il vero.
Nel
processo civile – proprio perché è un processo
fra pari - non può essere accolta una concezione del diritto
di difesa che includa il diritto alla menzogna e quello di
menare il can per l'aia” 7.
In
secondo luogo giusto processo” significa che il
processo deve fare giustizia e, cioè, che deve
svolgersi in modo da favorire il perseguimento di una decisione
giusta.
Sarebbe
del resto ben difficile sostenere che può essere giusto un
processo che non sia capace o che quanto meno non sia orientato a
fare giustizia. Che cosa significa, nel settore civile, fare
giustizia? Significa innanzitutto, a nostro avviso, ciò che
sta scritto nel primo comma dell'art. 24 Cost.: che il
processo deve essere modellato in modo da rispondere al fine di
tutelare effettivamente il diritto sostanziale e cioè da
riconoscere ed attuare il diritto soggettivo quando esso spetta e
solo quando spetta e solo a chi spetta; dare ragione a chi ha ragione
secondo la legge sostanziale e dare torto a chi ha torto. Questa
lettura del primo comma dell'art. 24 ci rende estranei a concezioni
del processo come gara nella quale è giusto che vinca
il più abile e rispetto alla quale il giudice ha solo la
funzione di far rispettare le regole della competizione e di dare
alla fine il premio al vincitore. Nell’art. 24 della
Costituzione è poi consacrato il principio della effettività
della tutela che rimanda all’esigenza di un processo che sia
capace di dare attuazione – e possibilmente attuazione
specifica - al diritto fatto valere e non soltanto di riconoscerlo
formalmente.
Se
per essere giusto il processo deve fare giustizia e cioè
pervenire ad una decisione giusta, il presupposto perché ciò
accada è che il processo pervenga (o quanto meno tenda a
pervenire) ad una decisione sul merito. Il che significa che
il principio del giusto processo, in congiunzione con quello della
ragionevole durata dei processi, impone di ridurre al minimo
indispensabile le norme e le interpretazioni che comportano,
favoriscono o consentono decisioni che non risolvono il merito o che
lo risolvono in base agli effetti delle forme processuali, anziché
in base alla comparazione delle rispettive ragioni sostanziali.
Naturalmente, la giustizia della
decisione su chi abbia ragione e chi abbia torto dipende in primo
luogo dalle norme di diritto sostanziale, rispetto alle quali il
concetto di giusto processo non è conferente. Non intendiamo
infatti dire che il giudice - che è soggetto alla legge
secondo l'art. 113 Cpc e l'art. 101 della Costituzione - debba o
possa giudicare secondo le sue personali idee di giustizia
sostanziale. Il principio del giusto processo è un principio
di carattere processuale. Esso però contiene in sé il
raccordo tra giustizia processuale e giustizia sostanziale proprio
nella parte in cui significa, tra l'altro, che il processo deve
essere regolato e gestito in modo tale da favorire il perseguimento
di una decisione giusta. In questo senso va intesa la essenziale
strumentalità del processo.
Uno
degli aspetti di questa funzione di raccordo riguarda un profilo su
cui sarebbe difficile non consentire: ben difficilmente può
essere considerata giusta una decisione basata su un accertamento
dei fatti non conforme alla effettiva realtà materiale. Una
decisione di merito basata su una rappresentazione della realtà
difforme dal vero non tutela il diritto ma necessariamente lo viola:
veritas juris ex veritate facti8.
Il processo, quindi, per essere giusto deve essere modellato in modo
tale da pervenire ad una decisione giusta e dunque basata su un
accertamento della effettiva verità materiale in ordine ai
fatti allegati: nella misura del possibile, ovviamente, e in armonico
contemperamento con gli altri principi costituzionali sul processo.
Certamente non sarebbe ragionevole pensare di cercare la verità
assoluta o la giustizia perfetta; ma nessun cittadino considererebbe
giusto un sistema processuale che fosse indifferente ai suoi
risultati in termini di verità e di giustizia e che non avesse
tra i propri fini quello di tendere ad una decisione il più
possibile basata sulla verità dei fatti.
4. La concentrazione della
trattazione e il recupero dell'oralità. Il dovere di dire la
verità. L'interrogatorio libero. Il ruolo attivo del giudice
nella fase di trattazione.
Disegnando la nostra ipotesi di
riforma ci è sembrato necessario non già ribaltare la
linea tracciata dalla riforma del 1990, ma proseguirla e portarla
alle sue coerenti e razionali conseguenze, nella misura e nei modi
suggeriti dall’esperienza di questi anni.
Le linee fondamentali di quella
riforma furono, in primo luogo, lo spostamento dell’asse del
processo sul giudizio di primo grado e lo spostamento dell’asse
del giudizio di primo grado sulla prima fase di esso, quella di
trattazione. é a questa scelta che si collegavano le altre
innovazioni più significative: la monocraticità,
l'obbligatorietà dell'interrogatorio libero e del tentativo di
conciliazione nella fase preliminare, l'introduzione di un sistema di
preclusioni e decadenze, la provvisoria esecutività della
sentenza di primo grado.
é necessario a nostro
parere sviluppare ulteriormente queste linee e potenziare i caratteri
che esse sono dirette ad imprimere al processo.
La
prima cosa da fare è quindi sgomberare il terreno dagli
inciampi apportati dalla controriforma del 1995 ed in particolare
dalla segmentazione della trattazione in una molteplicità
analiticamente prefissata di udienze e di scambi di comunicazioni
scritte. La trattazione orale richiede certamente una buona
preparazione scritta, ma lo scritto (inteso come scambio diacronico
di atti o memorie che ciascun difensore scrive da solo nel proprio
studio e che poi deposita in cancelleria affinché il giudice
li legga da solo, a casa propria) deve essere riservato, appunto,
alla preparazione della trattazione e non anche alla
trattazione vera e propria. Per la preparazione sono di regola
sufficienti - o meglio, possono essere sufficienti, o, meglio
ancora, possono essere resi di regola sufficienti - l’atto di
citazione e la comparsa di risposta. Per questi atti
introduttivi, che hanno il compito di individuare e delimitare il
terreno della trattazione, si pongono evidentemente esigenze di
precisione, di ponderatezza e di puntualizzazione che richiedono la
forma scritta. Per le battute successive il differimento ad una nota
scritta fuori udienza o ad un’udienza successiva può
avere giustificazioni soltanto quando si tratti di replicare ad una
deduzione (o a un rilievo d’ufficio) che possano davvero essere
considerati una sorpresa che - per la sua imprevedibile
novità o per la sua complessità – sia tale da far
trovare impreparato anche l'avvocato che abbia studiato la causa con
la dovuta diligenza. Al di fuori di questa ipotesi il confronto può
e deve svolgersi, in udienza, in modo immediato e concentrato, con la
partecipazione attiva del giudice e con l'apporto diretto delle parti
alla conoscenza e alla chiarificazione dei fatti e delle ragioni.
Nello scrivere le norme
processuali, sarebbe il caso di tener sempre presente che chi
partecipa all’udienza sono gli avvocati, i quali non sono e non
possono essere degli sprovveduti qualsiasi; e vi partecipa un giudice
professionale, anche se fino ad ora la sua professionalità si
è manifestata e si è sviluppata quasi esclusivamente
nello scrivere le sentenze e ben poco nel fare e dirigere i processi.
Questa la regola; ma la si dovrà
interpretare e applicare in modo non giugulatorio: spetta al giudice
comprendere, ad esempio, che un giovane legale privo di esperienza
può in alcuni casi aver bisogno di maggior ponderazione e
magari di un aiuto esterno. E il giudice consapevole della scarsa
levatura delle proprie attitudini o della propria preparazione sarà
meglio che prenda tempo piuttosto che improvvisare. Ma non è
necessario che il modello generale del processo si conformi a
inettitudini, neghittosità o ad ipotesi eccezionali e
sporadiche: per queste ipotesi è sufficiente che la regola
abbia le sue valvole di flessibilità.
Dopo
gli atti introduttivi deve essere ovviamente garantito il diritto di
controdedurre alle deduzioni altrui (intese, deduzioni e
controdeduzioni, nel senso più omnicomprensivo), il che
significa che se c’è una botta” deve sempre
poterci essere una risposta”, e se c’è una
risposta deve sempre poterci essere una replica e quindi una
contro-replica e così via. Ma non vi è nulla che
imponga che a ciascuna delle battute di questo confronto debba a
priori essere riservata un'udienza separata o una memoria separata:
il dialogo si svolge - e normalmente si può svolgere - tra
presenti e nell'unità di tempo e di luogo. E solo se si svolge
così il giudice può parteciparvi per indirizzarlo, per
controllarlo e soprattutto per volgerlo ad una compiuta ed efficace
chiarificazione delle domande e delle eccezioni, ma anche dei fatti
posti a fondamento delle prime e delle seconde nonché delle
relative impostazioni giuridiche. é in questa fase che il
giudice, sulla base di un previo approfondito studio degli atti
introduttivi e sulla base di un rapporto diretto e immediato con le
parti personalmente e con i loro difensori è chiamato a
svolgere una funzione di vera e propria conformazione del
procedimento, in base a criteri di efficienza e di trasparenza,
intavolando subito un dialogo con le parti diretto – secondo
un modello in qualche misura ispirato all’articolo 139 del
codice di procedura civile tedesco – ad individuare le
questioni coinvolte nella controversia, a chiarire la situazione di
fatto dalla quale nasce la controversia isolando gli aspetti di essa
sui quali le versioni delle parti sono effettivamente discordanti, a
spiegare e comprendere le rispettive ragioni giuridiche delle parti
ma anche a chiarire alle parti stesse come il giudice vede”
le questioni e le ragioni e per quali fatti ritiene che sia
necessaria la prova 9.
é questo ruolo attivo del
giudice nella fase della trattazione ciò deve caratterizzare
il nuovo processo, se si vuole che esso sia ricomposto nella sua
unità funzionale di attività diretta ad una decisione
basata sul diritto e su un corretto accertamento del fatto. I
principi costituzionali impongono che il processo si svolga nel
contraddittorio davanti al giudice. Questa regola non può
voler dire che il giudice deve limitarsi ad assistere passivamente al
contraddittorio, rimanendone separato: se il contraddittorio è
lo strumento per la formazione del suo corretto convincimento –
fattuale e giuridico - egli deve non solo garantirlo, ma sollecitarlo
e alimentarlo. Deve, insomma, parteciparvi e in qualche misura
sottoporre sé stesso e la sua impostazione al controllo e alle
rettifiche che il contraddittorio determina. La decisione, così,
non sarà più oracolo finale, ma sarà qualcosa
che le parti e il giudice, ciascuno secondo il proprio ruolo, hanno
costruito e verificato dialogicamente nel corso del processo e
attraverso di esso.
Perché l’udienza di
trattazione possa svolgersi in questo modo, così diverso da
quello che si vede oggi nelle nostre aule di giustizia, occorrono
molti e radicali cambiamenti nella mentalità e nei
comportamenti delle parti e del giudice, e sono cambiamenti che
investono il ruolo stesso dei protagonisti tecnici del processo.
Con
riferimento a tutto il modo di stare e di agire nel processo durante
il suo corso, occorre proseguire sulla strada già indicata 30
anni fa dall’art. 416 e poi ripresa nel 1990 dal nuovo testo
dell'art. 11210.
A tanto è diretta la riformulazione dell'art. 115, volta ad
imporre in modo effettivo ad entrambe le parti l'obbligo di leale
collaborazione previsto dall’art. 88: le parti costituite
debbono chiarire le circostanze di fatto rilevanti per la causa in
modo completo e veritiero; se una parte contesta i fatti dedotti
dall’altra deve farlo in modo specifico e non generico e deve
quindi esporre la propria versione della vicenda. Il giudice può
ritenere provati i fatti ritualmente dedotti da una parte se essi non
siano stati contestati dalla parte costituita che aveva interesse a
negarli e se tale contestazione non abbia quel carattere di
specificità di cui si è detto. Viene così
imposto alle parti un dovere (e più precisamente un onere, il
cui adempimento o inadempimento ha effetto sul piano probatorio) di
dire la verità. La formulazione che proponiamo è
tratta dall’art. 138 del codice di procedura civile tedesco,
come spieghiamo nel commento alla proposta di riformulazione
dell’art. 115. Rinviando a tale commento per una migliore,
seppur sintetica, illustrazione delle ragioni e del significato di
questa proposta, vi è qui da sottolineare che essa è
strettamente collegata a tutti i caratteri che il processo deve
acquisire; in particolare all’oralità e alla
continuatività della trattazione mediante la tendenziale
concentrazione di essa in un'unica udienza (la separazione della fase
destinata alla precisazione del thema decidendum da quella
destinata alla individuazione del thema probandum e alla
ammissione delle prove non costituisce un’ineliminabile
necessità sul piano logico-.giuridico ed appare ispirata a
modelli nei quali l'accertamento del fatto era, almeno alle origini,
affidato alla giuria e cioè ad un organo diverso da quello
competente a dire il diritto e quindi anche ad individuare il fatto
da provare).
é poi ovvio lo
strettissimo collegamento tra tale concezione della trattazione e la
re-introduzione dell’interrogatorio libero nella fase
preliminare, come momento centrale dell’udienza di
trattazione, nella sua duplice funzione chiarificatrice e probatoria
(Cappelletti). Su questo non vi è bisogno di spendere molte
parole: la soppressione di questo istituto da parte della disordinata
novella del 2005 è stata qualcosa di incomprensibile e
totalmente assurdo e non merita di essere presa in seria
considerazione se non per stigmatizzarla.
All'esito
di un'udienza di trattazione quale quella che abbiamo descritto sarà
il più delle volte possibile decidere la causa o ridurre
l'istruttoria alla raccolta delle prove su pochi e specifici elementi
del fatto, perché le ragioni delle parti saranno state tutte
compiutamente esplicitate e chiarite, il giudice avrà
selezionato quelle sulle quali occorre una discussione e i fatti,
attraverso l’interrogatorio delle parti e dei difensori saranno
stati in gran parte accertati e chiariti. Le carte saranno quindi
tutte o quasi tutte in tavola. Per quel che resta da fare è
necessario mantenere concentrazione e continuatività e, a tal
fine, può rivelarsi essenziale una adeguata programmazione.
L'art. 180 del progetto contiene a questo riguardo una novità,
la cui introduzione è ispirata alle osservazioni della
Commission Européenne pour l’efficacité de la
Justice, consistente nella programmazione dei tempi della
controversia. Si tratta di un compito demandato al giudice, il quale,
concordando, ove possibile, con le parti, deve stabilire il programma
delle udienze cui attenersi (salvo fatti sopravvenuti) per
l'ulteriore svolgimento del processo, indicando gli incombenti che in
esse verranno espletati. é questo un modo di rendere
trasparente l’attività giurisdizionale coinvolgendo
tutti i protagonisti del processo nella determinazione della sua
durata e delle sue modalità di svolgimento e chiarendo al
cittadino in quale tempo può attendersi una decisione. Ma non
si tratta solo di predeterminazione dei tempi: attraverso la
programmazione viene ad essere resa partecipata la decisione circa
ciò che deve essere fatto. E in questo caso scegliere insieme
i materiali e gli stadi di lavorazione significa costruire insieme
l'edificio.
Al
coinvolgimento delle parti nella trattazione della causa e nella
scelta delle modalità con cui procedere è diretta anche
la previsione secondo cui in limine il giudice, nel
ricordare alle parti il dovere di correttezza e lealtà, con
tutte le implicazioni di cui abbiamo già detto, può
richiamarsi alle prassi ed ai criteri che, nell’ambito
delle norme di legge, siano stati eventualmente concordati, anche in
modo informale e giuridicamente non vincolante, tra magistratura ed
avvocatura, anche con riferimento ad ogni singolo ufficio
giudiziario”.
La scelta di valorizzare con il
richiamo dei protocolli di udienza, l’attività degli
Osservatori per la giustizia civile, va vista nella complementarietà
tra la concezione di governo del processo affidata alla
responsabilità dei suoi protagonisti e la flessibilità
dei suoi strumenti di regolazione, quali sono anche i protocolli
sulle prassi, intesi come criteri consensuali per la determinazione
dei parametri e dei valori che debbono governare la discrezionalità
processuale.
5. Governo e responsabilità
del processo. La discrezionalità del giudice civile
Per perseguire la giustizia e
la celerità del processo il legislatore può scegliere
fra tre strade che, in via del tutto approssimativa, possono essere
così sintetizzate.
La prima è quella di
affidarsi totalmente o quasi – per la regolazione del processo
– all'oggettivo e meccanicistico operare della disciplina
normativa, riservando al giudice una funzione di mera applicazione
esecutiva delle norme in tema di forme, termini, contenuti e modalità
degli atti e dei momenti processuali, soprattutto in vista del
controllo formale sulla conformità degli atti di parte alle
prescrizioni normative. Il governo del processo, così inteso,
tende ad essere oggettivizzato e fortemente conformato da norme
vincolanti, analitiche, precise ed esaurienti, che regolano
minutamente e tassativamente, in via generale ed astratta, gli atti
del giudice e quelli delle parti e che danno al giudice, in sostanza,
il compito di sorvegliare la regolarità della gara e di
fischiare i falli in cui l’uno o l’altro contendente sia
incorso.
Questo sistema di regolazione ha
certamente il pregio di dare alle parti una maggiore - seppur sempre
relativa - certezza circa ciò che esse possono o non possono
fare e circa il modo e il tempo di farlo. Ma esso presenta, come
l’esperienza insegna, inconvenienti gravissimi: la strada delle
norme analitiche e tassative si è spesso rivelata non solo
illusoria, ma anche fallimentare e comunque impraticabile; ma
soprattutto si è rivelata una strada irrazionale, inefficace e
foriera di una gestione del processo improntata a indifferenza,
burocratismo e formalismo (con tutto il bagaglio di trabocchetti,
sorprese, furbizie, alibi e rigidità che ne consegue). Il
formalismo è il carattere che più si oppone
all’efficienza e all’efficacia. Ma soprattutto la strada
delle norme tassative e formali è quella che conduce
all’ingiustizia e al ritardo della decisione, attraverso il
privilegio che essa accorda ai vuoti ritualismi, agli irrigidimenti
irragionevoli e a modelli di azione proco pratici.
Conduce al ritardo perché
la rigidità, ad esempio, dei termini e delle preclusioni
implica necessariamente la previsione normativa, altrettanto formale,
di clausole di salvaguardia e cioè di occasioni di recupero
(ne è un esempio la disciplina della trattazione introdotta
dalla novella del 1995), le quali però, una volta
cristallizzate nell'astrazione normativa, si trasformano in ragioni
di ulteriore complessità e di ritardo quando non anche in
espedienti di dilazione. L'esperienza dimostra che il legalismo così
inteso si sposa sempre con la segmentazione formale e la
complicazione del processo.
Occorre
ricordare una verità tanto evidente quanto generalmente
trascurata: le complicazioni procedurali sono un difetto del
processo. E la segmentazione temporale di quest'ultimo ne
pregiudica la possibilità di essere rapido e giusto. Proprio
perché il processo è una sequenza di atti
funzionalmente collegati essa deve avvenire in consecuzione, se non
se ne vuole perdere il nesso strettissimo – quasi di
immedesimazione - con la decisione e se non si vuole ancora una volta
separare la decisione dal processo.
In definitiva la regolazione
analitica e tassativa del processo implica logicamente (o comunque
storicamente) una scansione del processo stesso in momenti
cronologicamente separati a priori – in via generale e astratta
– ed implica (quindi) necessariamente privilegiare la
trattazione scritta. Implica cioè l'abbandono dei principi
dell’oralità, della concentrazione e dell’immediatezza,
che continuiamo invece a considerare essenziali per un processo fatto
bene e che riteniamo debbano essere riferiti, tendenzialmente, a
tutte le attività processuali di trattazione e non soltanto a
quelle di raccolta delle prove rappresentative.
Scriveva
quasi due secoli or sono Geremia Bentham11
che alla procedura naturale” diretta a stabilire quale
sia la verità sull'oggetto del processo, si contrappone la
ìprocedura tecnica”, il cui risultato è di
prolungare i processi, di renderli estremamente dispendiosi e
vessatori, senza avere alcuna tendenza a produrre decisioni giuste”.
La
seconda strada è quella di affidarsi prevalentemente al libero
dispiegarsi della competizione processuale tra le parti e dei loro
poteri di disposizione sull’an, sull’oggetto, sui
contenuti, sul modo e sui tempi del processo e dei suoi atti,
riservando al giudice la funzione di curare l’osservanza di
poche regole del gioco, oltre che, naturalmente, il compito di
pronunziare la sentenza finale e di decidere (in modo il più
possibile vincolato) i problemi dai quali le parti non riescano ad
uscire da sole.
Questa
è in qualche misura la concezione alla quale è
ispirato il progetto Vaccarella. Ne parleremo in seguito, ma è
già qui possibile osservare che si tratta di un modello che
viene drasticamente messo in discussione anche negli ordinamenti
presso i quali esso era maggiormente in auge (quali l’ordinamento
inglese e quello americano; ma tutte le riforme processuali degli
ultimi anni si sono orientate in senso contrario alla prevalenza del
principio dispositivo riferito al processo12
e si sono invece orientate verso l’attribuzione al giudice di
un ruolo più attivo e dinamico). Si tratta comunque di un
modello che non tiene conto come la rapidità e la giustizia
del processo possono anche non essere nell'interesse della
parte ed il difensore ha il dovere prioritario di curare
esclusivamente l'interesse del suo difeso, sia pure nei limiti e
secondo le regole del processo, dettate dall’interesse pubblico
o dall’interesse comune. Ritenere che rapidità e
giustizia del processo rappresentino il frutto naturale, spontaneo
ed automatico del libero dispiegarsi della competizione processuale
tra le parti è una convinzione influenzata forse, per mera
assonanza, dalle ideologie del mercato, ma che per poter essere
recepita nel processo avrebbe bisogno di essere, se non proprio
dimostrata, almeno razionalmente argomentata, altrimenti si traduce
in un atto di fede. Comunque anche questa soluzione implica
logicamente segmentare la trattazione in tappe e tempi separati ed
implica logicamente lo scritto: anch’esso si pone in contrasto
con oralità, concentrazione e immediatezza.
La
terza strada è quella che qui proponiamo e alla descrizione
di essa sono dedicate queste pagine. Essa è diretta a far sì
che il rispetto dei principi e delle regole del processo non sia
solo formale e non si traduca in inciampi, trabocchetti, ostacoli,
oppure in dilazioni inutili, ingiustificate o addirittura abusive; è
diretta a liberare i processi dalle pastoie degli esoterismi
formalistici e delle furbizie causidiche, ma anche ad assicurare
che le parti abbiano una piena possibilità di far valere
efficacemente le loro ragioni e che il giudice si senta impegnato a
capirle a fondo e a dare ad esse la massima considerazione. A questo
fine deve essere ripudiato il modello ispirato al laissez faire.
Il processo deve essere regolato e deve esserlo molto di più
di quanto oggi non sia. Ma le regole debbono essere tali da
consentire di guidare il processo verso i suoi obiettivi pratici e
debbono quindi semplificare il processo, renderlo trasparente,
efficiente e comprensibile, renderlo flessibile per potersi adattare
alle specifiche caratteristiche e alle specifiche esigenze concrete
di ciascun caso. In altre parole, il processo deve essere reso
governabile, quale presupposto per poter imporre al giudice il
dovere di governarlo, per potergli ascrivere la responsabilità
per come esso si svolge e per poter togliere qualunque alibi alla sua
passività.
Quello
che tutti auspichiamo è un processo regolato principalmente
dal canone fondamentale della ragionevolezza e della correttezza
quale canone alternativo a quello della regolazione analitica e
tassativa. La correttezza, tuttavia, non è un frutto
spontaneo. Per rendere possibile e agevole perseguire il risultato
di un processo giusto, corretto e rapido occorre che vi sia un
soggetto che sia il responsabile del processo; che abbia cioè
il compito di perseguire giustizia e rapidità della
trattazione e della decisione e che abbia gli strumenti per farlo.
Questo soggetto non può che essere il giudice (ed in realtà
nessuno ha mai seriamente contestato che il responsabile del
processo sia il giudice, anche se è diffusa la tendenza a non
dirlo)13.
Attribuire
al giudice il compito di assicurare la rapidità e la giustizia
del processo implica, come osservato, che egli debba avere gli
strumenti di governo del processo necessari per perseguire
tali obiettivi. Perché il giudice possa essere considerato
responsabile del risultato (che è lo svolgimento del
singolo processo e dell’insieme dei suoi processi in modo
celere e orientato alla giustizia) occorre che a lui sia riconosciuta
una sufficiente autonomia nella scelta dei mezzi e dei modi,
il che significa affidarsi alla sua discrezionalità14
in misura maggiore e soprattutto in modo più aperto e
consapevole di quanto oggi non accada.
La
discrezionalità è carattere proprio di qualunque
pubblica funzione prevista dall’ordinamento con il compito di
perseguire interessi e fini pubblici determinati dalla stessa legge
(nel nostro caso il giusto processo, nel senso più
sopra sommariamente illustrato). Essa può essere definita come
possibilità di apprezzamento della scelta da adottare, tra
più scelte giuridicamente consentite, in modo da raggiungere
lo scopo previsto dalla legge secondo criteri non meramente
soggettivi, ma correlati a canoni di correttezza, di esperienza, di
ragionevolezza ecc. e pur sempre circoscritti da limiti.
Peraltro
la strada della discrezionalità procedimentale, che è
quella più razionale ed è anche quella più
idonea a conferire al giudice un efficace potere-dovere di governo
del processo, viene spesso percepita come implicante il rischio di
arbitrio, di soggettivismo e di imprevedibilità e quindi
produce il giustificato timore di una sostanziale riduzione delle
garanzie per le parti. Di qui la necessità di prevedere
criteri e parametri di regolazione della discrezionalità e,
soprattutto, efficaci strumenti di controllo quanto alla
correttezza del suo esercizio: il contraddittorio (inteso come
potere di contraddire non solo l’altra parte, ma anche il
giudice) resta il principale strumento di un simile controllo, che
deve però potersi esplicare anche per il tramite
dell'impugnazione.
La
diffusa diffidenza che si avverte verso ipotesi di maggiore apertura
al potere discrezionale del giudice trova probabilmente la sua
origine proprio nell’equiparazione che, forse in modo
inconsapevole, viene fatta tra discrezionalità ed
arbitrio. Ma una simile equiparazione è erronea sul
piano teorico: non vi è qui bisogno di spiegare che l’attività
discrezionale è pur sempre un’attività regolata
dalla legge, anche se in forme più elastiche, e che la
discrezionalità non si pone in contrasto con il principio di
legalità, essendo infatti sottoponibile a controllo di
legittimità, come insegna la lunga storia della giurisdizione
amministrativa. Né a simile percezione diffusa appare estranea
l'attuale costume di diffidenza a priori nei confronti del giudice,
un atteggiamento favorito dalla lunga campagna di denigrazione cui la
magistratura italiana si è trovata sottoposta. Ma se è
costituzionalmente doveroso che l'esercizio di ogni potere, compreso
quello giurisdizionale, sia sottoposto a garanzie e controlli, vi è
un limite oltre il quale la diffidenza si traduce in negazione della
funzione. In uno stato di diritto la funzione giurisdizionale,
proprio perché ha nell’autonomia del suo esercizio la
caratteristica fondamentale e la sua stessa fonte di legittimazione,
implica necessariamente un notevole grado di affidamento, per quanto
a molti ciò possa non essere gradito.
Il
nostro progetto è peraltro diretto anche ad individuare in
modo più chiaro e preciso i casi, i limiti, i criteri, gli
obiettivi - e quindi in definitiva le regole - del potere
discrezionale del giudice e, correlativamente, ad apprestare adeguati
controlli sull'esercizio di esso da parte del giudice
dell’impugnazione (il giudice d’appello, in concomitanza
con la diversa funzione che abbiamo attribuito al giudizio di
secondo grado; ma non è da escludere che un simile controllo
sia reso possibile anche in cassazione attraverso una diversa
formulazione dell’art. 360, n. 4 cpc.
Per
quanto riguarda la regolazione delle forme e dei termini
dell'attività di allegazione e di deduzione istruttoria delle
parti, resta fermo che le parti devono essere titolari di chiari
diritti, poteri e doveri assicurati da una disciplina delle forme e
dei termini prefissata ex ante e controllabile ex post 15.
La flessibilizzazione che nel nostro progetto viene operata mediante
un ampliamento degli spazi discrezionali della rimessione in termini
non nega questo diritto, ma ne aggiunge uno ulteriore: quello di
ottenere la riapertura dei termini previsti dalla legge o fissati
dal giudice se vi sono buoni motivi per riaprirli e non vi sono buoni
motivi (da identificare secondo gli obiettivi, secondo i criteri e
secondo i limiti imposti dalla legge) per non farlo. Si tratta quindi
di una discrezionalità giudiziale che può essere
esercitata, in questo caso, esclusivamente per ampliare e non per
restringere gli spazi assegnati dalla legge all’esercizio del
diritto di difesa, e che deve essere esercitata sempre rispettando il
dovere di parità e il principio del contraddittorio.
L'impostazione opposta a questa sarebbe quella di non dare rilievo ai
suddetti buoni motivi oppure cercare di tipizzarli tassativamente e
analiticamente e lasciare nell'irrilevanza quelli che non si è
stati capaci di tipizzare ex ante. Questa impostazione implica
accettare che l’errore – oggettivo o soggettivo –
dell'avvocato o della parte sia qualcosa di inesorabile e
irreversibile prescindendo in gran parte dalle sue cause e dai suoi
effetti. E significa quindi che preclusioni e decadenze
abbiano sempre ed inevitabilmente una forte incidenza sulla giustizia
sostanziale della decisione.
Poiché
questo esito non è voluto da nessuno la soluzione che viene
spesso indicata è quella di spostare quanto più in
avanti possibile il momento preclusivo al fine di dare il maggior
tempo possibile alla parte per la correzione e integrazione della sua
linea e dei suoi strumenti di difesa. é il modello del codice
ante 1990, cui era connesso il noto ed inevitabile inconveniente che
la massima libertà nello jus variandi finisse per
favorire anche e soprattutto gli espedienti dilatori. Del resto
l’esperienza concreta dei processi insegna che vi è un
numero molto grande di garanzie processuali formali che viene
utilizzato per creare trappole e trabocchetti, senza senza
collegamento con alcuna effettiva lesione degli interessi che la
regola era diretta a tutelare: basti pensare alla questione della
procura spillata o con firma illeggibile o della notifica con
consegna di un’unica copia al difensore di più parti.
Il modello alternativo è
quello di fissare ad uno stadio anticipato il momento preclusivo e di
generalizzarne razionalmente l’ambito di applicazione, ma
rendendolo flessibile con una più ampia disciplina della
rimessione in termini.
Quello
che nel nostro modello viene se non cancellato quanto meno ridotto
non è il diritto di difesa (anzi è vero esattamente il
contrario), ma è il diritto di impedire l’altrui
esercizio del diritto di difesa, il diritto cioè a far valere
le preclusioni altrui ex se come diritto proprio. E ciò
che viene ugualmente cancellato è il diritto ad identificare
la difesa con la dilazione.
Oltre
che nella disciplina della rimessione in termini e della direzione
della fase di trattazione, il riconoscimento di maggiori spazi di
discrezionalità è affidato nella nostra proposta anche
al riconoscimento di un generale potere istruttorio d'ufficio. Si
tratta di una naturale implicazione del principio del giusto
processo, il quale comporta che il processo deve essere disciplinato
e gestito in modo tale da tendere all’accertamento della
verità. Il potere di disporre mezzi di prova d’ufficio
ha una funzione meramente integrativa - così come è
per le numerose ipotesi in cui il codice di rito già ora
prevede il potere istruttorio d'ufficio – e deve essere
esercitato, oltre che nel pieno rispetto del principio del
contraddittorio, in modo da corrispondere ai fini, ai criteri e ai
limiti di cui all'art. 112 primo comma, nella versione da noi
proposta.
Anche a questo riguardo vale il
principio secondo cui un etto di esperienza storica vale più
di un chilo di teoria. é allora sufficiente notare che il
generale potere istruttorio d’ufficio previsto per il rito del
lavoro dall'art. 421 non ha concretizzato, in questi ultimi 30 anni,
nessuno di quei rischi per l'imparzialità del giudice, per la
parità delle parti e per i loro diritti di difesa che alcuni
commentatori avevano preconizzato.
Nel
complesso, peraltro, ci sembra che questi maggiori spazi di
discrezionalità, necessari nella prospettiva del giusto
processo”, non comportino alcun rischio per le garanzie. Sono
ben altri i poteri discrezionali del giudice che fanno tremare le
vene ai polsi, e che pure appaiono ineliminabili. Si pensi ad esempio
al potere discrezionale di determinare la pena tra il minimo e il
massimo o al potere di individuare la regola (sostanziale) del caso
concreto, ex post, dai caratteri del fatto e da norme a maglie
così aperte da chiedere al giudice di attuare direttamente
valori più che di applicare regole.
Naturalmente è ben
lontana da noi l'idea che il processo debba essere tutto rimesso al
ìbuon senso” del giudice. Riteniamo che sia da rifuggire
qualunque impostazione dommatica e che un buon processo sia quello in
cui concorrano in equilibrato contemperamento regole vincolanti e
discrezionalità giudiziale, secondo scelte da effettuare,
istituto per istituto, alla luce di un solo quesito: quale è
per quello specifico istituto il tipo di regolazione migliore per
perseguire il risultato di un processo più corretto, più
capace di permettere alle parti di dispiegare appieno le proprie
difese, più idoneo ad essere definito entro un tempo breve e
ad essere deciso in modo conforme alla verità, all'equità
e alla giustizia.
In
definitiva è da sottolineare che, nel nostro progetto, nessun
diritto-potere delle parti è rimesso alla discrezionalità
del giudice né per quanto riguarda l’an,, né
per quanto riguarda il quando. é la legge a stabilire
ciò che le parti possono fare e quando debbono farlo. Il
potere discrezionale del giudice serve, a questo riguardo,
principalmente a temperare il rigore di preclusioni rese più
strette dalla necessità di accelerare il processo e
concentrare la trattazione e a dare ordine, programmazione e
speditezza alla sequenza degli atti in relazione alle particolari
esigenze reali e concrete del caso concreto.
6. Preclusioni e decadenze.
Il problema delle eccezioni rilevabili d’ufficio e non soggette
a preclusione
Adottata la chiave della
discrezionalità come strumento di governo flessibile del
processo, non per questo perdono valore gli attuali strumenti di
regolazione rappresentati da preclusioni e decadenze. Ma essi possono
essere resi più severi (e, cioè, più coerenti
con le esigenze di speditezza) proprio perché vengono
contemporaneamente resi più flessibili e ragionevoli
attraverso un uso flessibile e ragionevole dell'istituto della
rimessione in termini.
Tale innovazione rende anche
possibile rendere più omogeneo, più coerente e più
efficace il sistema delle preclusioni su un altro versante: quello
della disciplina che, in tema di preclusioni, si applica alle
eccezioni rilevabili d’ufficio, le quali - secondo indirizzi
accettati dalla prevalente dottrina e recepiti anche dalle Sezioni
unite della Corte di cassazione - rappresentano la regola, e cioè
la stragrande maggioranza delle eccezioni. Come è noto le
eccezioni rilevabili d’ufficio non sono soggette a preclusioni
e quindi possono essere sollevate durante tutto il corso del processo
di primo grado e di appello. Ciò può comportare gravi
problemi per ripristinare un ordinata e sollecita trattazione del
processo ed assicurare il diritto di difesa dell’altra parte,
oltre a porre il problema se il diritto di eccepire tardivamente
implichi anche il diritto di provare tardivamente il fatto posto a
fondamento dell'eccezione.
Per risolvere questo problema
possono ipotizzarsi due strade.
La
prima è quella di ribaltare il rapporto tra eccezioni
rilevabili d’ufficio (per le quali non si verificano
preclusioni) ed eccezioni riservate alla parte, nel modo che risulta
dalla prima delle due ipotesi di riformulazione dell’art. 112
contenute nella nostra proposta. Le eccezioni sarebbero quindi tutte
riservate alla parte tranne quelle che la legge espressamente
considera rilevabili d’ufficio (alle quali potrebbero,
eventualmente, esserne aggiunte altre in via di modifica
legislativa). La seconda è quella di precludere allegazioni
tardive e limitare la rilevabilità d’ufficio, di regola,
alle eccezioni fondate sui fatti tempestivamente allegati e non anche
su fatti introdotti successivamente ovvero risultanti dal materiale
probatorio. In ogni caso vi è poi la proposta di eliminare la
possibilità di jus novorum in appello, in coerenza con
la riforma della funzione di tale grado del giudizio.
Queste innovazioni, che
indubbiamente sottopongono a regole più severe l’attività
difensiva, perdono il loro carattere giugulatorio proprio grazie
alla previsione di un generale potere di rimessione in termini oltre
che alla previsione di un generale dovere del giudice di svolgere un
ruolo attivo nella trattazione (ad esempio segnalando alle parti
tutte le questioni delle quali ritenga opportuna la trattazione).
In sostanza in un sistema
processuale nel quale preclusioni e decadenze sono strumenti di
governo del processo e non falli irreversibili, preclusioni e
decadenze sono essenziali ma, tendenzialmente, non devono mai
verificarsi.
Assicurare questo assetto è
proprio il compito del giudice.
In realtà, questa era
l'idea che induceva una parte dell'avvocatura a criticare la
tempistica delle preclusioni e decadenze previste nei progetti di
riforma della fine degli anni '80. Una parte di queste critiche
affermava la necessità di affidarsi di più alla
discrezionalità del giudice e furono critiche ingiustamente
respinte, anche dai magistrati, i quali avevano paura che questa
fosse la strada spalancata per il confermarsi di prassi lassiste. é
un peccato che quelle indicazioni non siano state allora ascoltate e
recepite in una riforma che pure aveva accolto impostazioni molto
simili per quanto riguarda la disciplina delle nullità e
delle rispettive sanatorie. Ecco, un recupero di questa impostazione
è quello che a noi sembra auspicabile: una regolazione del
processo seria e severa, che interpella fortemente la responsabilità
delle parti, ma anche una regolazione flessibile, che interpella
fortemente la responsabilità del giudice.
Un'altra
fondamentale linea ispiratrice di quella riforma era quella di cui
abbiamo già parlato: maggior rigore nella disciplina del
processo, ma minor formalismo attraverso l’attribuzione al
giudice di un potere-dovere di evitare le nullità e di
provocarne la sanatoria. Al tempo stesso, l’attribuzione al
giudice della funzione di assicurare la corretta enunciazione della
causa petendi e la conferma del suo dovere di segnalare alle
parti le questioni rilevabili d’ufficio, implicavano una sua
attiva partecipazione alla fase di trattazione, anche allo scopo di
evitare che le parti incorressero in decadenze (e a questo scopo di
maggiore rigore unito a governata flessibilità rispondeva la
formula delle prove che le parti non abbiano potuto proporre
prima”, contenuta nel quinto comma dell'art. 420 che, con la
sua latitudine, conferiva al giudice un potere ampiamente
discrezionale di rimessione in termini per quanto riguarda le
deduzione istruttorie). Su questa strada, già sviluppata dalla
riforma del 1995, si pone la proposta di ulteriore riformulazione
dell’art. 184 bis, che estende la possibilità di
rimessione in termini a tutti i casi in cui essa appaia necessaria
per assicurare in concreto la sostanziale giustizia
procedurale” del processo e cioè per assicurare che il
processo si svolga e sia deciso in modo giusto, sollecito e leale e
che sia sempre garantito il diritto di ciascuna parte alla difesa e
al contraddittorio in condizioni di effettiva parità e che
non sia mai premiato il ricorso delle parti all’espediente,
alla slealtà, alla furbizia o alla dilazione.
Ma in realtà se la
trattazione iniziale della causa avviene nei modi che abbiamo
descritto al paragrafo 3, se in essa vengono attuate con effettività
le funzioni di chiarificazione di cui abbiamo parlato e se la
trattazione riesce davvero a concentrasi in una unità di tempo
e in una sequenza consecutiva il problema delle eccezioni
tardivamente rilevate o sollevate non dovrebbe neppure avere
occasione di porsi.
7. Il risparmio flessibile
delle forme processuali. La tutela sommaria. La flessibile
modulazione della forma della sentenza
Continuando a esporre le linee
guida della riforma che abbiamo elaborato, occorre un’ulteriore
considerazione di carattere pragmatico. La lentezza dei processi è
determinata certamente dalla regolazione di essi, dai fattori
organizzativi ed ordinamentali, nonché da fattori che
riguardano le prassi.
Ma appare innegabile che essa
dipende in primo luogo dal rapporto tra il carico di lavoro dei
processi (determinato a sua volta dal numero dei processi e dal
carico di lavoro che ciascun processo comporta) e il numero dei
giudici.
Il
problema del carico di lavoro inteso come numero dei processi in
rapporto al numero dei giudici è stato affrontato con
l’istituzione del giudice di pace, che ora gestisce il 50%
delle sopravvenienze civili. Ritenendo impossibile e non auspicabile
ridurre il numero delle domande di giustizia restano da esplorare
altre strade, anche qui con la consapevolezza che non esistono
ricette miracolose che da sole valgano a risolvere il problema. Vi è
la possibilità di operare un ulteriore trasferimento di
contenzioso al giudice di pace, ma forse occorre al riguardo una
maggiore cautela di quella che mostrano i vari progetti di legge in
discussione. L'aumento di competenza per valore che qui proponiamo è
quello più misurato, ma è forse anch’esso
eccessivo alla luce delle considerazioni esposte a commento della
nuova formulazione dell'articolo 7. Una strada da continuare ad
esplorare è, in alcuni campi, quella del cd titolo esecutivo
extragiudiziale di cui hanno parlato il Consiglio superiore della
magistratura e Proto Pisani. Si può e si deve cercare di
incidere severamente sull’abuso del processo e al riguardo il
nostro progetto comprende una radicale riforma dell'istituto della
responsabilità civile aggravata (vedi articolo 96) diretta a
dare severa effettività a questo istituto che, allo stato, può
a giusto titolo essere annoverato tra le prescrizioni canzonatorie.
Molti di noi ritengono –
ed è probabilmente l'opinione di tutta l'avvocatura –
che ad un risanamento reale della situazione non è possibile
pervenire se non procedendo ad un sensibile aumento degli organici di
magistratura, da attuare peraltro gradualmente e senza far ricorso ad
alcuna forma di reclutamento straordinario, agevolato, riservato o
simili.
Ma resta da affrontare il
secondo aspetto del problema, quello relativo al carico di lavoro che
ciascun processo comporta.
é
anche a questo fine che servono le misure di riforma, quali quelle
che abbiamo illustrato fin qui, dirette ad attuare un processo
semplificato e flessibile, oltre che effettivamente governabile. é
però essenziale, a questo fine: a) ridurre il numero
dei processi che arrivano a sentenza; b) rendere flessibile la
forma della sentenza al fine di adeguarla alle vere e concrete
necessita di motivazione.
Rinviando,
per quanto riguarda questo secondo punto alla riformulazione degli
articoli 133, 281 sexies e 329 e alle relative note di
commento, la riduzione del numero di processi che arriva a sentenza
può e deve essere perseguita in primo luogo potenziando in
vario modo la funzione conciliativa del giudice. A questo riguardo è
opportuno rammentare che, quando il giudice è stato messo
nelle condizioni normative e strutturali di poter svolgere in modo
effettivo tale funzione, i risultati sono stati eccezionali, come
dimostrano sotto questo profilo i dati delle controversie di lavoro
post 1973, specie in alcuni uffici giudiziari. Il potenziamento della
funzione conciliativa è perseguibile, oltre che con la
riforma della fase di trattazione, anche facendo ricorso ad opportuni
incentivi e disincentivi.
é
un modello irraggiungibile – irraggiungibile, ma pur sempre un
modello - quello inglese, in cui solo il 5 per cento dei processi
iniziati arriva alla sentenza, perché il restante 95 per cento
viene risolto nella prima fase, grazie anche a misure di carattere
anticipatorio o a misure di dissuasione dall’abuso del
processo. Ma si può fare qualcosa di più di quel che
abbiamo ora a disposizione. Tra queste misure di dissuasione dal
processo e di incentivazione alla conciliazione ricordiamo che nel
processo inglese vi è il payment into court , che in
qualche modo viene imitato” nel secondo comma
dell’art. 92 e nel secondo comma dell'art. 183 del progetto che
qui suggeriamo16.
Lo strumento delle spese, peraltro, è reso da noi meno
efficace dal fatto, per altri aspetti ed entro certi limiti positivo,
che da noi le spese del processo non sono alte e quindi non
rappresentano un forte deterrente contro il ricorso al giudice non
adeguatamente ponderato.
Ma resta il fatto che la
giustizia è una risorsa scarsa e che occorre evitare che le
sue risorse siano sprecate. Anche in quest'ottica si pone la
necessità di una radicale riforma della tutela anticipatoria
sommaria. Vi è – ci pare - un consenso sempre più
ampio sulla necessità di generalizzare i provvedimenti
interinali condannatori a cognizione sommaria e ad effetto
anticipatorio, eliminando il carattere necessario del loro nesso di
strumentalità rispetto alla decisione con sentenza e dando
così ad essi la possibilità di divenire irrevocabili di
per sé stessi, se (e solo se) nessuna delle parti sente
l'interesse all'accertamento delle proprie ragioni con la cognizione
piena ed esauriente.
In effetti appare difficile
ipotizzare una risanamento della situazione della nostra giustizia
civile nei termini che abbiamo detto all’inizio – e che
ancora una volta ripetiamo: processi che di regola non durino più
di un anno - se si riesce a creare anche da noi una situazione in
cui il processo a cognizione piena ed esauriente sia un’ipotesi
residuale, destinata a pochi casi, perché per tutti gli altri
vi è la tutela sommaria anticipatoria a porre fine
concretamente alla controversia. Questa è davvero la
prospettiva obbligata per una riforma che abbia la capacità
di produrre i risultati radicali di cui abbiamo parlato all'inizio.
Rinviando
all'ampio commento che abbiamo dedicato alla nuova versione dell'art.
656 bis, ricordiamo qui che occorre partire dal presupposto
che sul piano costituzionale, ciascuna delle parti di una
controversia ha il diritto a che le sue ragioni siano esaminate e
decise in un procedimento a cognizione piena, perché la
pienezza della cognizione è condizione necessaria per il pieno
dispiegamento del diritto di azione e di difesa garantito dall’art.
24 della Costituzione. Ma la sussistenza del diritto,
costituzionalmente garantito, di ciascuna parte ad un processo a
cognizione piena non implica un divieto per esse di esercitare tale
diritto prestando acquiescenza (anche in via definitiva) ad una
decisione adottata in via provvisoria a seguito di un procedimento
sommario o monitorio o comunque non caratterizzato da una cognizione
piena ed esauriente. Questo significa che anche un provvedimento
emesso a seguito di cognizione sommaria può essere reso
suscettibile di acquisire l’efficacia del giudicato oppure, più
limitatamente, il carattere della irrevocabilità pro
judicato nel caso in cui nessuna delle parti dia inizio al
giudizio di merito ovvero lo stesso si estingua17.
In
definitiva, la linea ispiratrice della nostra proposta è
anche qui quella di una flessibilità che limiti la cognizione
piena ed esauriente ai casi in cui quest'ultima appaia o venga
ritenuta concretamente necessaria e che affidi alle parti tale
valutazione.
Al legislatore (e probabilmente
anche al giudice) resta il compito di influire (correttamente) su
tale giudizio di convenienza e di orientarlo verso la razionalità
e la ragionevolezza, anche in vista del principio di economia dei
processi e del principio di ragionevole durata che deve regolare,
oltre che il singolo processo, anche l'insieme del sistema
processuale, sul piano normativo, organizzativo e operativo. La
finalità ultima che abbiamo inteso perseguire è
quella di rendere concretamente generale la tutela sommaria e
residuale – quasi eccezionale – quella a cognizione piena
ed esauriente, riservandola cioè ai casi in cui una delle
parti la ritenga necessaria o comunque per sé più utile
e facendo in modo – sul piano normativo - che questi casi siano
pochi.
Si
è ritenuto, tuttavia, di non attribuire alla norma portata
assolutamente generale e di escluderne l’applicabilità -
salvo un migliore ripensamento – alle domande di condanna
aventi ad oggetto facere e non facere e alle domande
costitutive e di accertamento. é opportuno considerare che
l'applicabilità della tutela sommaria a queste tipologie di
condanne presenta non pochi e non semplici problemi, mentre si
tratta di domande che costituiscono una quota esigua del contenzioso.
Comunque restano a disposizione di chi agisce per ottenere
pronunzie di questo genere tutti gli attuali strumenti di tutela
cautelare, anche per i quali peraltro – con riferimento a
quelli anticipatori – viene prevista la possibilità di
divenire irrevocabili ove il giudizio di merito non venga iniziato o
si estingua, eliminato il carattere di necessaria strumentalità
rispetto alla sentenza.
Escluso qualunque collegamento
tra concedibilità della tutela sommaria e particolari
tipologie di prova, condizione necessaria e sufficiente per la
concessione del provvedimento è la probabile esistenza del
diritto e cioè il probabile fondamento fattuale della pretesa
(non può invece essere approssimativo o provvisorio”
il giudizio sulla qualificazione giuridica – e cioè
sull'idoneità dei fatti affermati, se veri, a produrre
l’effetto giuridico fatto valere): il che significa
verosimiglianza dei fatti costitutivi del diritto fatto valere e non
verosimiglianza dei fatti posti a fondamento delle eccezioni.
L'accertamento della fondatezza
(in fatto) della domanda e dell’infondatezza della difesa è
sommario in un duplice senso. In senso procedimentale perché
si tratta di un accertamento basato su un’istruttoria
deformalizzata e ridotta all'essenziale e quindi eventualmente
parziale. In senso sostanziale (strettamente collegato al profilo
processuale) perché si tratta di un accertamento nel quale il
grado di probabilità e di verosimiglianza necessario per
l’accoglimento dell’istanza di tutela sommaria è
inferiore a quello necessario per l'accoglimento della domanda con
sentenza.
Né questo può
essere considerato alla stregua di una eccessiva disinvoltura o di
una messa in pericolo dell’ispirazione garantistica del nostro
sistema processuale. Non vi è nulla di irragionevole nel
prevedere che, durante il tempo necessario per l'accertamento del
diritto in via di cognizione ordinaria, sia legittimato a godere del
bene giuridico controverso colui che ha più probabilità
di aver ragione piuttosto che colui che può solo
avvantaggiarsi della forza derivante dallo stato di fatto. Questa
impostazione appare anzi essere una delle linee ispiratrici
essenziali del nostro sistema processuale.
La
nostra scelta è stata quella di conferire al provvedimento,
nel caso che il giudizio di merito non venga iniziato o non venga
proseguito, la stessa efficacia del decreto ingiuntivo non opposto. é
una scelta difforme da quella della permanente provvisorietà”
propria del référé provision francese,
che mantiene la sua efficacia esecutiva ma può in qualunque
momento – anche a distanza di tempo - essere contestato con un
giudizio di merito). ll référé, mentre
non può mai (e cioè senza limiti di tempo) pregiudicare
o vincolare il merito, impedisce che la questione sia nuovamente
esaminata in sede di référé, salvo che in
ragione del sopravvenire di nuove circostanze di fatto. Adottando
tale soluzione sarebbe quindi sempre ammissibile, nei limiti della
prescrizione, l'azione di ripetizione e quella di accertamento
negativo, anche se con il limite che tali azioni potrebbero essere
esercitate esclusivamente nelle vie ordinarie. Riteniamo che –
pur senza farne una crociata – non vi sia alcuna ragione per
adottare una simile soluzione, che nell’ordinamento francese
forse trova spiegazione nelle origini storiche dell’istituto,
ma che appare estranea alla nostra tradizione. Oltre a non avere
evidenti ragioni giustificatrici, ci sembra che la soluzione della
permanente provvisorietà darebbe luogo a complicazioni,
relativamente, ad esempio, al regime dell'azione di ripetizione con
particolare riferimento all’onere della prova o alla disciplina
degli interessi (troverebbe applicazione l'art. 2033 cc?). Le
proposte di legge che si sono ispirate a questo modello tacciono su
questi punti che invece sarebbe assolutamente necessario disciplinare
in modo espresso. Ma questo è solo uno dei tanti esempi, e
non il più sconcertante, del carattere approssimativo dello
tsunami di cui ha parlato G. Costantino18.
8. Una conclusione
provvisoria, con un ricordo di Virgilio Andrioli
Siamo pienamente consapevoli che
presentare un progetto di riforma di un codice elaborato da un gruppo
di magistrati e per di più un progetto che è diretto
anche a rendere più attivo il ruolo del giudice è,
oggi, una bella manifestazione di ingenuità. é stato
giustamente osservato che l'ampiezza della discrezionalità
riconosciuta al giudice dipende dalla fiducia che si ha in chi
svolge tale ufficio. Nel nostro paese la fiducia nei giudici esiste
tra i cittadini – anche se in misura minore che in passato,
grazie alla accanita campagna politica di delegittimazione della
magistratura che vi è stata in questi anni, che non ha
paragoni nella storia di alcun’altra democrazia occidentale e
che ha fatto guardare con sconcerto all’Italia da parte degli
osservatori stranieri - ma ne esiste poca altrove, negli ambienti che
decidono le leggi o ne condizionano la fattura. Noi non crediamo che
i giudici italiani siano peggiori di quelli francesi, tedeschi o
spagnoli, ma non intendiamo replicare alle denigrazioni. Quel che
vogliamo rilevare è che senza fiducia nei giudici non si può
neppure pensare razionalmente al processo.
Per
questo abbiamo deciso di non farci condizionare dalle mode e di fare
una choice for candor, per usare le parole del giudice
Cardozo.
Speriamo che il nostro progetto
venga esaminato con serietà ed attenzione e che possa essere
compreso e tenuto in considerazione soprattutto dagli avvocati
civili. Per quanto li riguarda questo progetto vuole essere un
terreno ed uno strumento di dialogo, che parta dalla convinzione che
abbiamo valori e sentimenti comuni.
Oggi vi sono stati i funerali di
Virgilio Andrioli. Nel 1974 egli tenne una lezione ad un incontro di
studi organizzato a Grottaferrata dal Consiglio superiore della
magistratura sul nuovo processo del lavoro che allora era appena
entrato in vigore. La sua lezione, a braccio, durò tutto il
pomeriggio o comunque oltre tre ore ed ebbe anche momenti di
trascinante emozione. Con lucidità e passione – ed anche
con severità e rigore - ci fece sentire” che cosa
è il processo, che cosa è il giudice e che cosa è
l’avvocato. Alla fine vi fu un applauso di almeno 10 minuti.
Non sappiamo se Virgilio Andrioli avrebbe approvato il nostro
progetto. Di certo ne avrebbe stigmatizzato gli errori tecnici che
sicuramente vi sono. Ma in esso abbiamo cercato di mettere lo
spirito” del suo insegnamento.
1
Cfr. G.Costantino, Considerazioni impolitiche sulla giustizia
civile, ****.
2
Questo rilievo era già contenuto nel documento conclusivo del
Convegno organizzato nel giugno 2001 a Salerno dagli Osservatorii
sulla giustizia civile.
3
Magistratura Democratica e Movimento per la giustizia hanno cercato
di fornire un contributo di razionalità anche agli interventi
di aggiustamento” del processo civile con le recenti
ìOsservazioni sulla riforma del codice di procedura civile
attuata con la legge n.80/2005 e sulle proposte di modifica”,
che possono essere lette sui siti www.magistraturademocratica.it
e www.movimentoperlagiustizia.it.
Sul tema si vedano, inoltre, la ìLettera
aperta degli Osservatori
sulla giustizia civile”
pubblicata nel sito www.associazionemagistrati.it
e la delibera adottata a Bolzano
l’11.6.2005 dall’Unione Triveneta dei Consigli
dell’Ordine.
4
Può essere interessante scomporre il dato della durata media
dei processi che si concludono con
sentenza. Secondo le rilevazioni di tre anni fa, si ha che nel 36
% dei casi la sentenza viene pronunziata entro un anno e sei mesi,
nel 18 % dei casi entro 2 anni e sei mesi, nel 13 per cento entro 3
anni e sei mesi. Vi è poi un 22 % di processi nei quali la
sentenza arriva dai 4 ai 6 anni dopo l'iscrizione della causa ed
infine nel 9 % dei casi il tempo necessario
è anche più lungo.
Occorre anche tener presente
che i dati fin qui esposti riguardano tutti i processi civili,
compresi quindi quelli di lavoro e previdenza, i quali hanno di
regola una durata minore (in alcune aree molto minore), il che
contribuisce ad abbassare la media. In conclusione, la
rappresentazione dei tempi reali di definizione dei processi è
più grave di quanto risulta dalle statistiche.
Secondo i parametri enucleabili
dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,
si potrebbe anche sostenere che tre anni per il primo grado non
rappresentano una grave violazione del principio della ragionevole
durata del processo. Ma occorre tenere presente che se tre anni è
la durata media, ciò significa - come emerge dalle
precisazioni che abbiamo sopra fornito - che vi sono molti processi
che si prolungano ben al di là di questo termine.
5
La questione degli organici e delle circoscrizioni giudiziarie fa
parte del tema ordinamentale, che è a sua volta strettamente
connesso con quello processuale. Rinviando ad altra sede
l’approfondimento non possiamo qui fare altro che ribadire
l’esigenza di una drastica riduzione del numero dei tribunali
(che elimini tutti quelli dotati di un organico inferiore a 25
giudici, ad esempio). L’indicazione di un congruo aumento
degli organici dei magistrati (da attuare gradualmente in via
ordinaria, e cioè senza reclutamenti straordinari o
comunque riservati o agevolati) è stata ripetutamente
avanzata da A. Proto Pisani. Di certo deve essere posto fine
all’incredibile rarefazione dei concorsi che vi è stata
negli ultimi anni (iniziata già sotto il governo di
centrosinistra, ma poi proseguita sotto il governo attuale) con
reazioni piuttosto blande da parte della magistratura associata.
6
N. Trocker, Il valore costituzionale del giusto
processo”, in Il nuovo articolo 111 della
Costituzione, a cura di M.G.Civinini e C.M.Verardi, Quaderni
di Questione Giustizia, 2001, 36 ss.
7
Cfr. R.Braccialini, Garante o no del risultato sostanziale?
Spunti tardivi sul giusto processo, infra,****
8
Baldo, citato da Cappelletti, La testimonianza della parte nel
sistema dell’oralità, Milano, 1962, vol. I, 46 nota
7.
9
Riportiamo qui il testo dell’art. 139 dello ZPO, dopo le
modifiche del 2001: Articolo 139 (Direzione effettiva del
procedimento). 1. La Corte deve discutere con le parti, quando è
necessario, i profili fattuali e giuridici della controversia e
porre domande alle parti stesse. Deve operare affinché le
parti chiariscano tempestivamente e compiutamente tutti i fatti
rilevanti, completino in particolare le indicazioni fornite in modo
insufficiente circa le circostanze fatte valere, indichino i mezzi
di prova e presentino le istanze utili e opportune. / 2. La Corte
non può fondare la sua decisione su punti che una delle parti
abbia chiaramente ignorato o ai quali non abbia dato rilievo se
prima non ha indicato alla parte stessa tali questioni dando ad
essa la possibilità di esprimersi al riguardo, salvo che non
si tratti di questioni secondarie o marginali. Lo stesso vale se la
Corte intende basare la sua decisione su prospettazioni diverse da
quelle di entrambe le parti. / 3. La Corte deve segnalare la
necessità di esaminare i profili di dubbio che si pongano in
ordine alle questione rilevabili d’ufficio. / 4. Le
indicazioni previste dalla presente norma debbono essere impartite
al più presto possibile e debbono essere trascritte a
verbale. Le indicazioni impartite possono essere provate
esclusivamente dalla verbalizzazione di esse. Contro il verbale è
ammessa solo la querela di falso. / 5. Se non è possibile per
la parte fornire in modo immediato il chiarimento richiesto, a sua
istanza il giudice le concede un termine per il deposito di note
illustrative scritte.
10
Per tale norma è stata necessaria, a trent’anni di
distanza dalla riforma, una pronunzia chiarificatrice delle
Sezioni Unite, la sentenza n. 761 del 2002, circa gli effetti
dell’inadempimento all’onere di prendere specifica
posizione non limitata ad una generica contestazione. Anche in
questo campo la nostra soluzione è quella di portare avanti e
di valorizzare l’indicazione già contenuta nelle due
riforme precedenti.
11
Riportato da Cappelletti, op. cit., 48.
12
Se consideriamo la riforma processuale tedesca del 2001-2002 e
quella inglese del 1998, possiamo dire che in quegli ordinamenti
appare aver preso maggior forza la consapevolezza del fatto che il
processo è cosa pubblica, anche quando sono privati gli
interessi in contesa” come Giuseppe Borrè era solito
ricordare.
13
Vogliamo essere chiari: responsabilità del processo
significa, secondo noi, possibilità di essere chiamato a
rispondere – quanto meno sul piano delle valutazioni di
professionalità - se il risultato di una trattazione
sollecita e giusta non viene raggiunto.
14
Sul tema della discrezionalità giudiziale v. in generale, R.
Marengo, La discrezionalità del giudice civile,
Giappichelli 1996; Raselli, Studi sul potere discrezionale del
giudice civile, Cedam 1975 (in cui sono raccolti uno studio del
1927 e uno del 1935). In senso contrario all’ampliamento della
discrezionalità del giudice civile in materia
procedimentale, v. A. Proto Pisani, Giusto processo e valore
della cognizione piena, in Riv. dir. civ., 2002, I, 265;
G. Costantino, Il nuovo art. 111 della Costituzione e il
ìgiusto processo civile”. Le garanzie, in Il
nuovo, cit., 255 ss.; M.G. Civinini, Il nuovo art. 111
della Costituzione e il giusto processo civile”. Le
garanzie, in Il nuovo, cit., 271 ss. Per la
letteratura straniera si veda, tra le opere recenti, Hawkins (ed.),
The use of dicretion, Clarendon Press Oxford 1992 (una
raccolta di saggi di vari autori); Barak, Judicial Discretion
(vi è una traduzione italiana pubblicata da Giuffrè
nella collana Civiltà del diritto”) che si apre
con questa considerazione La discrezionalità
giudiziale è in gran parte un mistero – per la
generalità del pubblico, per la comunità dei giuristi,
per i docenti di diritto e per gli stessi giudici”. L'autore,
tra le tante altre cose, afferma che non è sostenibile che
vi siano campi, in particolare quello delle norme processuali, in
cui la scelta tra discrezionalità e stretta legalità
si ponga in termini diversi (e più favorevoli alla stretta
legalità) rispetto ad altri campi. Barak così si
pronuncia al riguardo: ìL’istituzione giudiziaria è
molto adatta a trattare i problemi di procedura civile, i quali,
dopo tutto, sono problemi di internal management del processo
giudiziario”. Si suggerisce
di iniziare la lettura del libro dal postscritto, intitolato La
discrezionalità giudiziale in una società democratica”
in cui spiega la piena compatibilità della discrezionalità
giudiziale con il principio di legalità (con la rule of
law) e giunge a dire che la legge, senza discrezionalità,
produce arbitrarietà. Nelle righe finali Barak si esprime
così: il mondo del diritto è ampio e profondo. é
pieno di bellezza e di saggezza. é semplicemente naturale
che vi sia più di un sentiero che consenta di percorrerlo,
che vi sia più di un modo per assorbire la sua bellezza e per
nutrirsi della sua saggezza”. Vi sono tanti altri testi che
hanno parlato di discrezionalità giudiziale e alcuni di essi
molto belli: di queste cose, negli ultimi cent’anni, hanno
parlato autori nobilissimi e la letteratura su questo tema
soprattutto in lingua inglese e americana è molto ampia come
potrà vedersi se si intraprende una esplorazione in
internet. Segnaliamo
infine due raccolte di saggi molto
recenti, che sono di particolare interesse perché dimostrano
come in Europa non sembra esservi riforma o progetto di riforma del
codice di procedura civile che non si ispiri ad un potenziamento del
ruolo attivo e della discrezionalità del giudice: Ola Wiklund
(ed.), Judicial Discretion in european perspective, Kluwer
International, Stoccolma 2003; Marcel Storme e Burkhard Hess,
Discretionary Power of the Judge: limits and Control, Kluver
2003.
15
M.G.Civinini, op.cit., 275 ss.
16
Sul Payment into Court cfr. I. H.Jacob, The fabric of
english civil justice, 1987, 117 . Ne parlano anche tutti i
manuali correnti di procedura civile; tra
quelli recenti v. Williams, Civil procedure handbook, 2004,
338 e ss. L’istituto è ora regolato dagli i articoli 36
e 37 del CPR del 1998 e dalle relative "Practice
directions".
17
Sull’argomento cfr. L.Barreca, Tutela sommaria ed
effettività della giurisdizione, infra, ***.
18
G. Costantino, Considerazioni impolitiche sulla giustizia civile,
cit.