Il caso italiano, il contesto internazionale, la libertà delle persone
Il caso italiano, con le sue sempre più eclatanti anomalie, continua a occupare la scena nel settore dei diritti e della giustizia. » inevitabile che sia cosi, e dovrebbe esserlo ancor di più, tanti sono gli strappi che il sistema subisce e rischia di subire in questi anni e mesi: da ultimo, la grottesca proposta, approvata dal Senato su proposta dell'on. Bobbio (omonimo, ironia della sorte, del grande filosofo del diritto) di abrogare per editto del principe l'attività interpretativa, degradandola a ricerca della "volontà della legge" (cioè, della volontà del legislatore contingente o, più esplicitamente, della maggioranza politica, non potendo, per definizione, un atto normativo avere pensieri, sentimenti o volontà...).
Ma è bene sottolinearlo il caso italiano, lungi dall'essere isolato, si colloca in un contesto internazionale in cui si stanno riscrivendo le regole della convivenza, i fondamenti della democrazia, il concetto di cittadinanza, gli assetti degli Stati e della comunità internazionale (come segnala, in questo fascicolo, lo scritto di M. Bouchard su Guantanamo). Si tratta di trasformazioni profonde pur se, secondo un copione tradizionale, scarsamente avvertite da chi ne è coinvolto. Il motore dello sconvolgimento in atto (almeno quello dichiarato) è il perseguimento della sicurezza: termine mitico, nuovo spettro che si aggira per l'Europa e per il mondo, discrimine intorno a cui si costruiscono le nuove categorie della politica. La sicurezza, intesa come condizione di vita serena (o almeno accettabile) per tutti, è un obiettivo classico dell'umanità, su cui, da sempre, si sono mobilitate le migliori intelligenze ed energie. Ed è sotto gli occhi di tutti che si tratta di un obiettivo irrealizzato, ché, anzi, il "secolo dell'orrore", appena concluso, ci ha lasciato in eredità paure e insicurezza diffuse (seppur eterogenee). Ma non sta qui la novità. Lo spettro che si aggira, il volano che guida le trasformazioni in atto è la strumentalizzazione di quest"ansia e di queste paure, lo spostamento dell'orizzonte politico (si direbbe della speranza collettiva) dal perseguimento del "diritto alla felicità" per tutti alla celebrazione di una sorta di testo unico di pubblica sicurezza universale, da valere per i cittadini e per gli Stati.
In questo contesto acquista nuova centralità la questione delle libertà fondamentali delle persone (che sarà oggetto, nei prossimi fascicoli della Rivista, di particolare attenzione, anche all'esito del convegno di studio che Questione giustizia, insieme a Magistratura democratica, ha organizzato sul tema il 10-12 ottobre scorso). Ciò che sta avvenendo, in questo primo scorcio di secolo, è il violento ingresso della logica di guerra nel campo delle libertà democratiche. La normalità della guerra sta producendo una sorta di equazione tra deviante (o, semplicemente, diverso) e nemico. Dopo le due guerre mondiali, la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione Universale avevano fatto balenare un modello di sviluppo delle relazioni internazionali centrato sulla qualificazione della guerra in termini di illiceità e finalizzato al mantenimento della pace e alla protezione dei diritti umani. Oggi, la guerra preventiva capovolge il senso della sovrapposizione tra la categoria della guerra e quella dell'illecito: la seconda viene utilizzata non più per mettere al bando la prima come flagello dell'umanità, ma per giustificarne il ritorno in termini, appunto, polizieschi. Simmetricamente, la perversione del rapporto tra le nozioni di nemico e di deviante agisce sul piano delle politiche di controllo civili che assumono contenuti da "stato di eccezione". Cosi, alla militarizzazione della vita civile, si accompagnano politiche orientate alla compressione, se non alla negazione, dei diritti fondamentali di categorie sociali a rischio. La criminalizzazione di fenomeni sociali quali l'immigrazione rappresenta il terreno privilegiato per verificare queste tendenze, ma altrettanto evidente è la tendenza a declinare le questioni sociali in termini di questioni criminali come dimostra la crescita esponenziale della popolazione detenuta in tutti i paesi dell'occidente, con un picco negli Stati Uniti che ha fatto raggiungere il livello record di più di 700 detenuti ogni 100 mila abitanti (in pratica, un carcere in ogni quartiere).
» dall'intreccio della logica sicuritaria con le politiche di controllo fondate sulla sovrapposizione della categorie di nemico e deviante (o, più drasticamente, criminale) che occorre, dunque, partire per riflettere sullo stato di salute delle libertà fondamentali nei nostri ordinamenti.
ottobre 2003 (l.p.)