di Gian Carlo Caselli
Vorrei cominciare con una boutade provocatoria. Sui giornali di ieri ho letto - come tutti - che un autorevole esponente della maggioranza, commentando l'apertura del nostro Congresso, ha detto che l'ANM fa politica. Ora, nel progetto di riforma dell'ordinamento giudiziario, se interpreto bene, si trova il divieto di partecipare - in qualunque forma - ad attività di carattere politico. E allora mi domando: sarà ancora possibile il Congresso di un'ANM che fa politica? Rischieranno sanzioni disciplinari i magistrati che interverranno al Congresso? Perché ha ragione il Ministro, quando ci invita a ragionare sui fatti. E' quel che facciamo da sempre, del resto. Ma per ragionare sui fatti, ci vogliono le parole. Ed è un fatto che nella crisi e sofferenza che caratterizzano l'attuale stagione della magistratura italiana una parte importante hanno proprio le "parole", la perdita del loro significato comune, il loro uso distorto o deviato. Quando si tratta di legalità e di giustizia, le parole più frequenti - ormai - sono quelle malate o false, mentre le parole scomode sono cancellate.
Sono parole malate (elencarle comporta un esercizio di"masochismo) quelle usate per denigrare i magistrati definendoli faziosi, matti, cancro da estirpare, associati per delinquere, disturbati mentali, antropologicamente diversi dal resto della razza umana, figure orribili e inique, peggiori del fascismo, maledetti dal Vangelo".. Parole malate che sono sintomo di un grave malessere della politica, in quanto favoriscono - sfiduciando pregiudizialmente un'istituzione fondamentale dello stato - la desertificazione delle coscienze. Parole, quindi, che se possono andar bene a qualcuno per un comizio o per vincere una partita politico-giudiziaria, sono comunque causa di gravi perdite per tutti, a destra come a sinistra, perché contribuiscono a deteriorare il senso morale del nostro Paese. E così una società non regge.
Poi ci sono le parole false: accanimento, persecuzione giudiziaria, politicizzazione dei magistrati, teoremi, uso della giustizia per fini politici, complotti, partito dei giudici, golpe, giacobinismo, giustizialismo, toghe rosse"" Parole false, perché basate sul nulla ( quando divenissero operative le tanto minacciate commissioni d'inchiesta, parlerebbero finalmente gli atti e i documenti: tacerebbero le bufale propagandistiche), ma ripetute con tanta ossessiva frequenza, impiegando le stesse tecniche pubblicitarie dei detersivi, che alla fine uno finisce per crederci o per subirle con rassegnata passività, accettando di usarle nel linguaggio corrente. Perché questo impiego massiccio, scientificamente organizzato, di parole false? Innanzitutto per squalificare chiunque osi dissentire dal "pensiero unico", marchiandolo d'infamia ed espellendolo dal campo di gioco. Tipico l'uso della parola "giustizialismo", che non esisteva neanche - riferita alla giustizia - nel nostro vocabolario; mentre oggi c' è chi l'impiega ad ogni piè sospinto per insultare coloro che, rispettando le regole, non fanno sconti a nessuno. Poi per impedire qualunque confronto serio sui problemi della giustizia, riducendo tutto ad una spirale soffocante di luoghi comuni, slogan e falsità. Infine perchè parlare del falsamente presupposto colore delle toghe (rosso o azzurro) aiuta a non parlare dei problemi veri. Che sono poi questi: chi è accusato di corruzione, ha corrotto o no ? chi è accusato di aver avuto rapporti con la mafia, è stato o no colluso?
Ma le parole false servono soprattutto per delegittimare e scoraggiare i magistrati che abbiano la "sfortuna" di doversi occupare di certe materie. Ogni magistrato conosce il passo di Piero Calamandrei che parla della "sofferenza del giudice giusto", accusato di essere "pretore rosso" perché non voleva "fare la volontà degli squadristi" ( e cito ancora una volta Calamandrei per porre un interrogativo: chi può dire se oggi - potendo disporre del tubo catodico - gli squadristi rinunzierebbero, per infliggere alle loro vittime l'olio di ricino, al "classico" bottiglione ?). Ma si sa altrettanto bene che a forza di calunniare, qualcosa resta. E diventa sempre più sfumata la linea di confine fra aggressione ed intimidazione. Mentre si consolida il teorema (che le parole false hanno introdotto) secondo cui giustizia giusta - quando si tratta di imputati che contano - è quella che assolve;- mentre quella che osa indagare o addirittura ( a volte capita") condannare è giustizia ingiusta, giustizia iniqua, da bollare con campagne mediatiche feroci .
Se le parole malate e le parole false non bastano, ecco la cancellazione delle parole inconciliabili con le tesi prefabbricate. Sono state cancellate, ad esempio, le parole con cui la corte d'appello di Palermo - in un noto processo - ha dichiarato estinto per prescrizione, fino alla primavera 1980, il reato di associazione a delinquere "concretamente ravvisabile a carico" dell'imputato e da lui e "commesso" (le parole sono proprio "concretamente ravvisabile a carico" e "commesso"). Si badi bene: qui non si fa questione di colpevolezza o di innocenza. Le motivazioni scritte in quella sentenza (basate su fatti specifici e concreti) possono essere giuste o sbagliate. Ma sono scritte. E invece è come se non lo fossero, perché in pratica sono state cancellate: per poter imbastire l'ennesima criminalizzazione dei magistrati operanti.
Perché nascondere i fatti? La cancellazione può essere funzionale all'obiettivo di rimuovere definitivamente rilevanti questioni legate alla storia del nostro Paese, quanto meno sotto il profilo della responsabilità politica o morale;- può servire, nello stesso tempo, a contrabbandare la tesi consolatoria di inchieste giudiziarie pilotate da "burattinai" interessati all'eliminazione dei loro avversari politici (una minestra riscaldata, ormai rancida, che tuttavia continua ad essere servita, ora persino in Europa). Ma non è certamente la cancellazione di decisivi elementi di conoscenza che avvicina alla verità, quale essa sia. In ogni caso, le parole cancellate (proprio perché non comunicate e discusse) concorrono con le parole malate o false ad impedire il formarsi di un'opinione corretta. Come discutere seriamente sul funzionamento della giustizia se si chiama "assoluzione" la prescrizione o, addirittura, la condanna per una parte soltanto degli addebiti? Così diventa impossibile affrontare razionalmente i complessi temi della giustizia.
Proprio un forte recupero di razionalità, invece, oggi è necessario. Altrimenti, l'invito del Ministro a ragionare sui fatti, col metodo "galileiano", diventa vuota formula. Razionalità, dunque: in particolare sul controverso versante della separazione delle carriere fra PM e giudici. Posto che la vergogna della durata dei processi e la gravità delle disfunzioni resterebbero tal quali, l'unica novità portata dalla separazione sarebbe una giustizia di fatto "pilotata" dalla maggioranza politica del momento (sia essa di destra o di sinistra). Con effetti micidiali per un paese come il nostro, ancora caratterizzato da una corruzione sistemica, da scandali finanziari ricorrenti, da rapporti fra mafia e politica, dalla presenza di soggetti insofferenti alle regole eguali per tutti. Se viene meno l'indipendenza della magistratura e quindi la possibilità di indirizzare a 360 il controllo di legalità, l'esercizio di ogni potere rischia di tradursi in abuso ed i cittadini di dividersi in categorie di serie A e B.
Per arginare questi pericoli, occorre reagire. Il recente attacco alla Corte costituzionale sta lì, a dimostrare che si va a marce forzate verso un sistema sempre più insofferente ai controlli. Un sistema che sempre più spesso valuta l'intervento giudiziario alla stregua della sua utilità contingente, anziché della sua correttezza e del suo rigore. A fronte di una situazione così grave, di stravolgimento di regole fondamentali, lo sciopero ( pur nella consapevolezza del suo carattere dirompente) rappresenta una scelta possibile. Anche per non creare ulteriore confusione: perché coerenza vorrebbe che - avendo scioperato quando il nuovo ordinamento giudiziario era un progetto - si scioperi ora che sta per diventare legge (la confusione, per altro, si può combattere anche con un'altra forma di coerenza: evitando di predicare bene in sede di ANM, per poi razzolare male sul versante CSM;- facendo sempre blocco con quelle forze che in questo modo - invece di essere contrastate dialetticamente e culturalmente - sono rafforzate, indebolendo nel contempo la credibilità della protesta associativa).
Lo sciopero, dunque, sarebbe una scelta sofferta ma coerente. Una triste necessità, se la situazione data non cambia. Una scelta da praticare con tecniche di "riduzione del danno" nei rapporti con l'opinione pubblica (pur negli spazi obiettivamente esigui che lascia la black propaganda imperante). Ma praticabile. Ha detto Enzo Biagi che non si può essere liberi per decreto, dobbiamo esserlo per coscienza. Abbiamo molti difetti (io conosco bene i miei"). Dobbiamo fare molta autocritica. Ma lo sciopero serve appunto a difendere la nostra libertà e la nostra coscienza, mantenendo posizioni chiare. Vale anche per noi, infatti, il detto di Abramo Lincoln: possono ingannare qualcuno per sempre;- possono ingannare tutti per qualche tempo;- ma non potranno mai ingannare tutti per sempre.
Negli ultimi decenni la magistratura ha dovuto registrare un lungo elenco di vittime del dovere. Ogni volta si è detto: beato il paese che non ha bisogno di eroi. Ripetiamolo. Anche quando si tratta soltanto di "eroismo" del quotidiano. Di quel modesto "eroismo" che impone oggi, per fare bene il magistrato, di avere non solo preparazione ed onestà, ma anche molto coraggio e molta determinazione.