Un congresso che ha saputo guardare ”oltre”


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di Nello Rossi - congresso nazionale

  1. Un congresso che ha saputo guardare ”oltre”

    Nel suo appassionato intervento Don Luigi Ciotti ci ha detto che dobbiamo tentare di guardare al di là dei nostri recinti.
    Nei suoi momenti pi intensi e significativi questo congresso è stato capace di farlo, è stato in grado di guardare “oltre” i limiti , le angustie, talvolta le miserie del pi recente dibattito politico sulla giurisdizione.
    Abbiamo riflettuto sulle prospettive del diritto europeo, che non è ancora un nuovo ius commune dei popoli europei , che non contempla ancora uno statuto dei diritti dei cittadini europei, ma sempre pi strettamente si intreccia con i diritti nazionali, li condiziona, li conforma, li ispira.
    Abbiamo ragionato di grandi fenomeni : la realtà dei movimenti transnazionali , le migrazioni collettive che recano con s il problema spinoso dei diritti degli immigrati.
    Un tema cui dedichiamo da tempo una grande attenzione per una ragione molto semplice : che oggi gli immigrati sono nella società gli “ultimi”.
    E sugli “ultimi” si misura l’eguaglianza, l’effettività dei diritti, sugli ultimi si misura ogni progresso collettivo, agli ultimi servono pi che agli altri le regole ( regole così generali che includono perfino loro) e l’azione del giudice.
    Infine abbiamo detto con chiarezza quali sono i nostri sentimenti di uomini ed i nostri pensieri di giuristi su di una guerra incombente che – grazie a Dio non da soli - ci ostiniamo a considerare evitabile.
    E’ stato essenziale ribadire qui, ancora una volta, che una guerra fondata sulla dottrina del primo colpo, esplicitamente teorizzata come “preventiva”, sarebbe esattamente quella guerra come “strumento di offesa” e “ mezzo di risoluzione delle controversie internazionali “ che è solennemente e saggiamente ripudiata dalla nostra Costituzione ed inibita in qualsiasi forma all’Italia.
    Ma non si tratta solo di questo .
    Se – nonostante tutto – la guerra ci sarà, essa costringerà l’intera umanità ad un drammatica riflessione su se stessa e sulla sua storia ma anche sulla debolezza, sulla imperfezione, sulla rudimentalità del diritto e degli organismi internazionali, troppo spesso dominati o soverchiati dal gioco dei rapporti di forza e messi nell’impossibilità di far valere la ragione ed il diritto.
    Nulla esprime questa imperfezione e questa rudimentalità come il fatto che nell’ordinamento internazionale manchino ancora dei giudici.

    Giudici , dico, universalmente accettati, imparziali, diversi e distanti dalle potenze in campo.
    E poich questi giudici mancano, gli stessi tribunali che vengono istituiti ed i processi che si celebrano per crimini di guerra rischiano - purtroppo - di apparire come la ripetizione di una vecchia storia : tribunali dei vincitori, processi contro i vinti e non atti di una nuova giustizia internazionale , che costituisce un deterrente ed un monito contro violenze future.
    Ecco: nel nostro dibattito abbiamo ampliato consapevolmente il nostro angolo visuale perch in questa ampiezza di visione risiede una ragione di forza intellettuale e morale del nostro gruppo e perchè vogliamo che continui ad esistere e ad operare un magistrato, un giudice – cittadino, partecipe intelligente ed attento dei problemi della città.
    E se la “città” si allarga, se la città diventa l’Europa, se la città diventa il mondo globalizzato e interdipendente, allora il giudice-cittadino deve sapersi misurare con questa nuova dimensione della città, deve accettare – accanto agli interlocutori tradizionali – anche i nuovi interlocutori espressi da una realtà in trasformazione , deve ripensare forme e modalità del suo intervento in funzione dei pi ampi orizzonti nei quali si iscrive la sua azione.

  2. Le diverse sollecitazioni che ci giungono dall’esterno

    Del resto anche quando abbiamo descritto, analizzato, criticato la situazione della giustizia nel nostro paese non abbiamo ragionato solo di noi, non ci siamo rinserrati nel nostro particolare.
    Eppure, nonostante questa ampiezza di sguardo del congresso, io credo che abbia ragione, in punto di metodo, Giovanni Palombarini quando ci ricorda che i congressi – almeno i nostri congressi – non servono solo a ribadire valori comuni ma anche per mettere a confronto sensibilità diverse e per registrare - se occorre- differenze.
    Differenze al nostro interno ma anche, e soprattutto, differenze dei nostri interlocutori esterni nel rapporto con noi e con la intera magistratura italiana.
    Questi interlocutori – lo abbiamo sentito – ci rivolgono inviti diversi.
    Da un lato inviti alla misura, all’equilibrio, alla compostezza.
    Dall’altro esortazioni alla determinazione, alla forza morale, alla capacità di resistere.
    Quale via scegliere, come orientarsi in una congiuntura così difficile?
    A me pare che un inizio di risposta stia nell’ammissione da parte di Claudio Castelli di una prolungata incertezza sul titolo da dare a questo congresso.
    C’è stata una oscillazione - ci ha detto - tra due titoli: “ La forza ed il diritto” e quello, poi scelto, “ La forza dei diritti”.
    Non lo sapevo ma ho trovato particolarmente interessante questa incertezza.
    Perch la differenza non sta nel fatto che “la forza dei diritti” è un titolo pi fiducioso ed ottimistico rispetto all’altro, pi disincantato e realistico.
    La differenza è pi profonda, l’incertezza ha ragioni pi sottili.
    Ci segnala che ci sono due piani diversi, due terreni diversi.
    Che i magistrati devono sapersi muovere contemporaneamente su questi due piani.
    Che su questi due piani devono esercitare virt profondamente differenti.

  3. L’urto violento tra la forza ed il diritto

    Il primo piano è quello dell’urto violento tra la forza ed il diritto.
    Molto di quello che è accaduto in Italia negli ultimi anni si colloca su questo versante.
    Avete già ricordato efficacemente, puntigliosamente, i tanti episodi, le tante vicende istituzionali che testimoniano della pura e semplice messa in campo della forza contro il diritto.
    Non ho bisogno di aggiungere nulla all’elenco che è stato già stilato, se non che sono caduti molti veli.
    Penso ad esempio alla disvelata doppiezza del garantismo della destra in occasione dei fatti di Genova e di Napoli.
    O alle giravolte di qualche Pulcinella che si scaglia oggi volgarmente contro ciò che ieri osannava acriticamente.
    Quando la forza si contrappone al diritto non vi sono mediazioni possibili, non c’è nessuna moderazione da invocare, perch il silenzio sarebbe solo resa e cedimento.
    Direi che tutto è semplice, almeno in termini concettuali.
    La difficoltà sta se mai nel mantenere in vita la tensione morale, nell’impedire disgusti, stanchezze, ripiegamenti.
    Certo è importante che il magistrato – anche quando si contrappone alla forza - parli il “suo” linguaggio fatto di ragioni, di argomenti, di critiche pertinenti, e non ceda mai alla tentazione del linguaggio fazioso o goliardico.
    Ma il linguaggio della ragione che contrasta la forza può e talora deve essere molto forte e radicale.

  4. La forza dei diritti

    Parlare di forza dei diritti ci porta invece su di un piano molto differente.
    Ci ricorda una realtà che conosciamo benissimo , che sperimentiamo quotidianamente nel nostro mestiere e che, forse proprio per questo, nessuno ha sentito il bisogno di ricordare qui esplicitamente: che ciascun diritto ha una sua forza peculiare, espansiva, una sua vocazione all’assolutezza.
    Ci ricorda che i diritti possono essere - e spesso sono - incompatibili, contrastanti tra di loro.
    Che i grandi beni della vita promessi dai diritti non sempre possono essere goduti insieme.
    Non c’è, allora, solo l’urto della forza con il diritto ma anche l’urto dei diritti tra di loro.
    Libertà ed eguaglianza, sicurezza e diritto di difesa, lavoro ed ambiente: ecco solo alcuni esempi di diritti che ad ogni momento possono entrare in collisione tra di loro.
    Di fronte alla forza confliggente dei diritti il giudice ha un compito di mediazione, di equilibrio, di garanzia della “coesistenza” dei diritti e degli uomini che ne sono portatori , evitando - con la sua attività - che il conflitto tra i diritti generi troppo grandi sofferenze agli esseri umani.
    Non basta per questo la sovranità della legge cui si è richiamato l’on. Domenico Fisichella, perch la legge troppo spesso resta muta.
    Nei casi pi difficili e controversi occorrono la sapienza e la misura del giudice.
    Sono necessarie la sua intelligenza , la sua lungimiranza soprattutto quando dal corpo della società emergono nuove istanze e nuovi soggetti collettivi ed il giudice deve rileggere i diritti, ampliarne il catalogo, ma sempre al fine di ritessere nuovi equilibri possibili , nuove mediazioni, nuove armonie.
    Equilibri, mediazioni, armonie.
    Non ho remore ad usare queste parole.
    Non esaltiamo forse la Costituzione proprio perch è un testo di equilibrio e di sintesi?
    E non ricerchiamo, nella nostra attività di giudici, il punto di equilibrio tra diverse pretese, tra diverse istanze, tra diverse ragioni, come il migliore approdo possibile?
    E’ per esercitare al meglio questa funzione di equilibrio che dobbiamo “ai cittadini” il rispetto rigoroso delle garanzie processuali e la garanzia fondamentale della nostra tensione verso l’imparzialità all’atto del decidere e che dobbiamo pretendere “per i cittadini” il rispetto delle garanzie ordinamentali che circondano il giudice.


  5. Un duplice compito

    Alla magistratura italiana spetta dunque un duplice compito.
    Da un lato di contrasto forte, radicale, intransigente.
    Dall’altro di mediazione, di equilibrio, di temperamento.
    Servono ai giudici virt diverse : la determinazione e la misura , il vigore e la mitezza, l’intransigenza morale e la duttilità intellettuale.
    Non è facile, certo.
    Ma questa è la difficoltà di essere magistrati nel nostro paese in questa congiuntura storica.
    E questa è anche la difficoltà di operare come gruppo di magistrati
    Io credo che Magistratura democratica sia consapevole di questa difficoltà ma anche capace di perseguire – nei limiti delle sue forze - il duplice obiettivo di cui parlavo.
    Occorre operare perch le valutazioni, le scelte, le decisioni dei giudici del nostro paese non siano troppo pesantemente influenzate o dominate dai rapporti di forza ma restino ancorate ai principi, al diritto ed alle sue regole.
    E, contemporaneamente, si deve lavorare perch - anche in un contesto difficile ed aspro - il magistrato conservi intatta la forza culturale e professionale per esercitare la sua funzione equilibratrice, di interprete e di tessitore di un “ordinamento” pi civile e progredito.
    Per rispettare questi impegni bisognerà saper parlare alla magistratura italiana.
    Questo è il nostro primo compito.
    Saper parlare ai magistrati italiani, rinnovarne le motivazioni, alimentare la consapevolezza del ruolo che sono chiamati a svolgere, invitarli a far leva su se stessi nei momenti difficili, non usando il linguaggio della corporazione ma quello delle aspettative di giustizia dei cittadini .
    Io non so se ci riusciremo.
    Ma se ci riusciremo, se ciò avverrà, se la magistratura terrà – magari assumendo, come in passato, quei rischi talora necessari per la difesa della libertà di cui ha parlato nel suo intervento Virginio Rognoni – nessuna partita può essere persa: n quella dell’indipendenza n quella dei diritti
    Nella dinamica effettiva dell’ordinamento i diritti non esistono senza un giudice che gli dia voce.
    Così che si può sperare che i diritti abbiano la dovuta forza e trovino il giusto equilibrio se vi è ancora un giudice moralmente, culturalmente, professionalmente forte, legittimato dal suo impegno nel lavoro, orgoglioso della sua funzione, geloso custode della propria indipendenza dal potere.
    Finchè questo giudice esiste, finchè questo giudice non si piega, finchè egli esercita con intelligenza e con sapienza la sua funzione, è legittimo nutrire ogni speranza.

24 01 2003
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