Politica, magistratura e diritti


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di Renato Greco - congresso nazionale

Momenti di tensione tra giurisdizione e maggioranze di governo non sono una specificità italiana. Si verificano in quasi tutte le democrazie contemporanee laddove la giurisdizione assume il carattere di istituzione tendenzialmente antimaggioritaria in quanto custode dei diritti che deve preservare anche dall’invadenza dalle maggioranze di governo. I nodi istituzionali che ruotano attorno alla conciliabilità in una democrazia rappresentativa di valori configgenti quali l’indipendenza dei giudici, posta a garanzia dei diritti individuali, e i poteri di governo, espressione della maggioranza, per lo pi si manifestano (e si risolvono) con un livello di tensione fisiologico in sistemi democratici che hanno interiorizzato davvero il principio della divisione dei poteri.
La particolarità del caso italiano è data non solo dalla acutezza e dalla rozzezza dello scontro ma anche dal terreno su cui tale conflitto si svolge.
Come è noto, la diffusa illegalità del ceto politico ha imposto in questi anni un protagonismo del potere giudiziario sul versante del controllo di legalità attraverso il giudizio penale, diventato un pervasivo meccanismo di ‘controllo di virt’ e di censura del personale politico, un particolare strumento di regolazione del tutto diverso dal judicial review statunitense o dalla funzione di tutela dei diritti, che incidono sulle scelte politico-sociali delle maggioranze di governo piuttosto che sulle condotte di esponenti del ceto politico.
Nel contempo non ha fatto da riscontro a questa sovraesposizione sul piano della repressione penale un’altrettanto visibile presenza del giudice sul piano della tutela dei diritti, per cui la legittimazione della magistratura italiana si è fondata prevalentemente, in negativo, sulla sua capacità punitiva di abusi e corruzioni del personale politico e amministrativo piuttosto che, in positivo, sulla funzione promozionale dei diritti.
Ciò, per certi versi, ha agevolato l’attacco forsennato all’indipendenza della magistratura, condotto dalla maggioranza di governo con una ostentazione dell’illegalità che denota una duplice opzione politica: da un lato, screditare il valore di ogni limite, anche del diritto e dei principi costituzionali, nei confronti del ceto di governo legittimato dal voto popolare (come dimostra anche la produzione di leggi provvedimento ritagliate su esigenze processuali personali che ha determinato una vera e propria ‘crisi della legge’ [Modugno]); dall’altro, spostare sul terreno della politica il confronto con la magistratura per additarla come un potere improprio, perchè non espresso dalla volontà popolare, che aggredisce i legittimi rappresentati del popolo.
Rappresentato e reso visibile in tali termini, il conflitto tra giudici e politica appare a tanti come uno scontro tra poteri che non mettono in discussione le scelte di fondo di politica economica e sociale che incidono pesantemente sui diritti e sulle condizioni di vita delle persone. Un conflitto, che presenta anche contenuti corporativi, da seguire con relativo distacco e disincanto.
Malgrado abbia sempre prodotto un’elaborazione culturale approfondita e a vasto raggio sul tema dei diritti, MD non è stata in grado di sottrarsi a questa sovraesposizione sbilanciata sul penale. Per alcuni, anzi, in virt della sua cultura della legalità e del suo rigore istituzionale, ne è apparsa addirittura l’ispiratrice.
E’ tempo di rimettere al centro della nostra azione anche la tutela dei diritti, non solo perch ciò è nel nostro patrimonio genetico, ma anche perch la stessa difesa dell’indipendenza del giudice passa per questa via. L’indipendenza della magistratura che non si materializza attraverso una visibile tutela dei diritti resta, infatti, un valore solo per i ceti pi avvertiti culturalmente e politicamente che ne colgono comunque la valenza costituzionale nell’ottica del principio di uguaglianza, ma non per i ceti popolari, stretti dai tanti bisogni che non trovano una sponda istituzionale, che non si batteranno per un valore che sentono estraneo, al pari di tante altre questioni di mera architettura costituzionale.
Bisogna aver chiaro, però, che porre al centro della nostra azione culturale e della nostra prassi giudiziaria i diritti di libertà e i diritti sociali, oggi impone un atteggiamento culturale rinnovato che tenga conto delle mutate condizioni politico-sociali in cui operano i diritti e del loro modo di atteggiarsi in un contesto segnato dalla crisi della sovranità nazionale e dall’influenza del neoliberismo globale.
I diritti fondamentali assumono contenuti sempre pi complessi e a volte disomogenei (si pensi al diritto lavoro che spesso si contrappone alle esigenze di tutela dell’ambiente o della salute), nonch un nuovo ‘linguaggio’ e una dimensione transnazionale che li fa sfuggire ad una precisa collocazione territoriale (Ferrarese); tendono a liberarsi dall’ancoraggio al sistema produttivo fordista e al lavoro subordinato classico e sfuggono anche alla categoria della cittadinanza (allorchè da fattore attributivo di diritti rischia di diventare elemento di esclusione); accentuano i tratti universalistici e quella loro particolare natura che li pone in un territorio in cui vivono sospesi tra la dimensione giuridica e quella etica.
Per tali caratteristiche, malgrado siano gli indicatori pi sensibili della qualità della democrazia, anche quando hanno un ancoraggio positivo nelle Costituzioni o nella Carta europea di Nizza, i diritti scontano un elevato grado di ineffettività se non sono sorretti da una forte intransigenza democratica, da un comune sentire che li consideri un prius immodificabile da contingenze politiche e economiche. Quale che sia la loro fonte normativa, infatti, esprimono una giuridicità alimentata dal basso e ciò dimostra che, oggi pi di ieri, la frontiera dei diritti prima ancora che dal loro statuto giuridico e dall’azione razionale di soggetti istituzionali è segnata dall’area delle passioni, del dissenso, del conflitto. E se qualcuno nutrisse dei dubbi a riguardo lo inviterei a riflettere sugli effetti della grande mobilitazione del 23 marzo scorso contro il progetto di governo di rimaneggiare l’art. 18 dello statuto dei lavoratori.
Occorre, quindi, prestare attenzione, con curiosità intellettuale a adeguata apertura culturale, a ciò che si muove nella società nella prospettiva di un mondo diverso. Purtroppo ormai da tempo i partiti storici della sinistra, incapaci di guidare e capire mutamenti epocali che non avevano previsto n determinato, sembrano languire nella pratica di un pacifismo sociale razionalizzato e illuminato che ha interiorizzato l’idea dell’immodificabilità dell’ordine economico esistente. I valori espressi dai diritti si ritrovano pi spesso altrove: nelle lotte politiche del composito, variegato e contraddittorio mondo dei movimenti.
Dove se non nelle parole d’ordine del movimento troviamo la rivendicazione della pace senza se e senza ma, della tutela della salute e dell’integrità dell’ambiente non coercibili da esigenze di mercato o produttive, dell’uguaglianza dei popoli, della dignità dei migranti e delle libertà politiche e civili in termini analoghi alle forme giuridiche con le quali il costituzionalismo moderno e anche il processo di costituzionalizzazione europea (con non poche contraddizioni) ha costruito i diritti.
Questa vocazione politica dei movimenti, fondata su valori e principi etici vissuti quotidianamente come patrimonio culturale comune dei popoli, può essere una spinta possente per un maggior protagonismo delle Corti che consenta alla giurisdizione di recuperare una visibile funzione promozionale dei diritti; a patto che i giudici riescano a sfuggire alla innata tendenza a identificare solo nello Stato e nelle istituzioni e non anche nelle culture sociali il luogo in cui passa la tutela dei diritti.
E sotto tale profilo, pur se con le necessarie distinzioni e con spirito critico nei confronti di alcune forme non apprezzabili o da respingere del dissenso sociale, anche la disobbedienza di quanti si richiamano ai diritti dell’uomo può essere vista nell’ottica della contrapposizione tra i valori supremi e le contingenti scelte politico-economiche dei Parlamenti e dei Governi.
E basterà ricordare a riguardo l’insegnamento insuperato non di un ribelle ma del maggior esponente della dottrina contrattualista americana, John Rawls. “Anche la disobbedienza se espressa in forma civile in una società interpretata come uno schema di cooperazione tra eguali è un mezzo di riabilitazione del sistema costituzionale perch tende a sanare una divaricazione tra forme giuridiche e comune sentire. In una determinata situazione insieme ad elezioni libere e regolari e a un sistema giudiziario indipendente dotato del potere di interpretare la costituzione la disobbedienza civile giustificata aiuta a mantenere e rafforzare le istituzioni, introduce stabilità in una società bene ordinata e in una quasi giusta”.

24 01 2003
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