La precarizzazione dei diritti


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di Pietro Curzio - congresso nazionale

Molti anni fa, ascoltando come testimone in una causa di mansioni un ingegnere delle Ferrovie dello Stato, gli chiesi come mai l’ente operasse nel modo così caotico e confuso che mi stava descrivendo. Mi rispose – sorridendo - che si meravigliava della mia sorpresa, e, citando un matematico di cui purtroppo non appuntai il nome, mi disse: «signor giudice, il caos non è una disfunzione è una funzione».
Quella frase mi è pi volte tornata in mente nel corso degli anni e mi è servita a comprendere una infinità di cose, anche all’interno della amministrazione della giustizia. Ma da un po’ di tempo mi sembra ancora pi appropriata a spiegare ciò che sta avvenendo nella nostra realtà politica ed istituzionale. E' dinanzi a tutti, evidente, lo stato di tensione e fibrillazione continua e spesso voluta, che connota il dibattito politico, ormai caratterizzato dal succedersi di attacchi ingiuriosi che non risparmiano n le istituzioni pi alte e autorevoli dello Stato, n le persone. E' anche evidente lo stato di confusione che caratterizza la vita delle istituzioni pubbliche. Caos e disordine regnano sovrani in tutti i campi, a cominciare da quello della produzione normativa, sempre pi spesso affidata al governo da leggi che fissano principi generici, prossimi alla delega in bianco, spostando il fulcro della regolazione sui decreti delegati, che si susseguono poi a cascata, senza peraltro che ciò attenui la disorganicità delle regole.
In presenza di questa situazione, è fondamentale cercare di capire qual è, al di là dei polveroni e delle politiche di immagine, la linea di evoluzione delle cose. Perch è importante comprendere non tanto dove siamo, ma dove stiamo andando.
Il dibattito svolto nel recente congresso di Magistratura democratica, grazie anche al contributo di autorevoli esponenti della società civile, ci ha permesso di maturare alcune consapevolezze e di acquisire alcuni elementi di orientamento. Non entro nelle questioni ordinamentali, nelle riflessioni sul processo penale e su altri temi delicatissimi che sono stati approfonditi. Voglio soffermarmi sulle regole in materia di rapporti di lavoro. E anche qui non voglio ritornare sugli aspetti che sono stati molto bene esaminati dai giuslavoristi di md, ma anche da magistrati che non si occupano specificamente di questa materia, come Giovanni Palombarini o Renato Greco, o ancora da esterni di grandissima levatura e competenza, quali il professor Carlo Smuraglia. In tutti questi interventi credo sia stato tracciato molto bene il percorso di progressiva deregolazione dei rapporti di lavoro, di compressione dell’aututela collettiva e di eclissi della tutela giurisdizionale, sul quale si collocano le nuove discipline predisposte dal governo in materia di lavoro a termine, di appalti di manodopera, di trasferimenti di azienda, di part-time, di lavoro nelle cooperative, di licenziamenti, di arbitrati; ma anche di lavoro degli immigrati o di pensioni, per citare solo alcuni dei punti oggetto di revisioni o proposte di revisione.
Vorrei invece dedicare le mie riflessioni ad un parte dei rapporti di lavoro che è oggetto in genere di minore attenzione, ma che sta subendo anch’essa una profonda trasformazione: i rapporti di lavoro di ceti professionali qualificati, quali medici, professori, giornalisti, dipendenti delle amministrazioni pubbliche. Si tratta di settori cruciali della società, perch lo stato dei diritti di queste persone si riflette sulla qualità delle garanzie e dei diritti dei cittadini. Sulle libertà del giornalista, si basa la effettività del diritto di ciascuno ad essere informato correttamente. L’autonomia di queste professioni costituisce un contrappeso fondamentale nel sistema di “checks and balances” che dovrebbe contraddistinguere una democrazia. Garanzia tanto pi necessaria in un sistema orientato in senso maggioritario.
Cosa sta succedendo in questi mondi? Per dirla con una parola, sta accadendo qualcosa di molto simile a quanto avviene nel lavoro subordinato in generale. Un processo di sempre pi accentuata precarizzazione.
I medici sono coinvolti in ristrutturazioni della sanità pubblica che, nella loro concreta attuazione, spesso comportano la eliminazione di strutture unanimemente giudicate efficienti e moderne, a volte di avanguardia, e determinano la soppressione di centinaia di posti di lavoro, con un evidente rafforzamento dei vincoli di dipendenza ai centri di potere politico ed economico per chi svolge questa delicata professione. Processi analoghi avvengono nel mondo della ricerca scientifica, sottoposta ad una politica di forte riduzione delle risorse, i cui effetti potranno essere colti in futuro, perch questo settore pi di ogni altro svela le conseguenze delle scelte effettuate solo a distanza di anni. Sin da ora però se ne colgono i riflessi sulla condizione dei ricercatori; le gravi difficoltà che li investono e l’ulteriore impulso che viene dato alla fuga delle intelligenze dal nostro paese. La riduzione delle garanzie per chi lavora viene metodicamente proposta come un indice di modernità. Mi chiedo cosa vi sia di meno moderno di una drastica penalizzazione della ricerca.
I professori delle scuole pubbliche, a loro volta, sono sempre pi sottoposti ad umiliazioni economiche e professionali, costretti ad operare in strutture degradate, esposti a politiche di taglio dei posti ed in particolare delle funzioni destinate a sostenere gli alunni in difficoltà. Parallelamente, si procede all’ampliamento degli spazi per la scuola privata, i cui docenti peraltro sono spesso sottopagati ed esposti alle forme di lavoro estremamente flessibile prefigurate dalle nuove leggi.
I giornalisti, la cui carriera, per meccanismi di accesso e tutela lavorativa è già così problematica e precaria, sono bersaglio di provvedimenti di vera e propria epurazione. I casi Biagi e Santoro costituiscono la punta di un “iceberg”. Se si è potuto procedere così spregiudicatamente nei confronti di persone di tale peso e notorietà è facile prevedere quale futuro si delinei per migliaia di colleghi meno importanti, cui quelle due vicende finiscono per essere di monito e, quindi, di condizionamento professionale.
Ma questo profondo senso di precarietà investe ora persino i dirigenti pubblici. L’art. 98 della Costituzione sancisce che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”. Quindi, dell’intera comunità nazionale, non della maggioranza di governo. Allontanandosi da tale principio guida, la legge Frattini sulla dirigenza pubblica ha introdotto in Italia una versione pesante di “spoil system”. E' vero che la temporaneità degli incarichi era stata già sancita dalla riforma del pubblico impiego, ma altro è prevedere un incarico a tempo determinato da un minimo di due anni ad un massimo sette anni, ben altra cosa è elidere del tutto il termine minimo e prevedere un termine massimo di cinque anni, portato addirittura a tre anni per i dirigenti generali, per di pi abbinando alla riduzione l’automatico azzeramento dei contratti in corso al cambio di governo e, transitoriamente, all’entrata in vigore della nuova legge. Questo resettaggio automatico e le previsioni così riduttive sulla durata fanno si che l’esperienza lavorativa del dirigente rimanga tutta interna alla legislatura, con una evidente estremizzazione della regola ed una piena sottoposizione della amministrazione alla politica governativa.
Per inciso, vorrei sottolineare che, a prescindere dalla opinione che si può avere della scelta originaria di introdurre un termine sebbene molto pi ampio, questa vicenda dimostra come spesso quando si intaccano principi delicati diventa poi molto difficile contrastare le spinte alla eliminazione di qualsiasi garanzia.
Nello specifico, il nuovo assetto normativo oggi determina la soggezione al governo dei 650 direttori generali dei ministeri ed enti pubblici, che si riflette sui 4.600 dirigenti di seconda fascia, nonch, a scalare, sui 3.700.000 impiegati pubblici, loro subordinati. In tal modo si è inciso profondamente sulla struttura dello Stato. Lo “Stato trasformato”, di cui ha parlato Luigi Ferrajoli nel suo intervento, soffermandosi sui profili costituzionali, è anche frutto di questo cambiamento nel corpo dell’amministrazione.
Con i medici, con i giornalisti, con i professori e i ricercatori, con in funzionari e i dipendenti pubblici, dobbiamo quindi dialogare, perch condividiamo con loro il coinvolgimento in questa profonda trasformazione, che tende a rendere tutti precari, condizionabili, meno liberi. E' un dialogo importante anche perch allontana autoreferenzialità e corporativismo, vizi dai quali i magistrati non sono certo immuni. Questo congresso ci ha aiutato ad acquisire consapevolezza nel caos, ci ha consentito un confronto attento e riflessioni importanti, a volte drammatiche, che si sviluppano sulle radici di una lunga storia, che è la nostra memoria. Ed a questa memoria, per noi preziosa, vorrei dedicare l’ultima riflessione. Perch, come ha scritto Milan Kundera negli anni bui di Praga, “la lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio”.

24 01 2003
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