di Stefano Erbani - congresso nazionale
Qualche giorno fa in una intervista al Messaggero il Ministro Castelli ha detto che per il problema dei rapporti tra politica e magistratura “la svolta si avrà soltanto quando verrà risolto il problema delle vicende giudiziarie. Fino ad allora saremo sempre condizionati”.
In realtà avevamo avuto anche noi il sospetto che vi fosse un qualche collegamento tra la crisi dei rapporti tra politica e magistratura ed alcune vicende giudiziarie, ma ci è di conforto riceverne una così autorevole conferma. La ricetta del Ministro, però, è che la crisi si risolve uscendo dal conflitto, mettendo fine al clima avvelenato e cioè adottando – secondo le sue testuali parole - un “sistema rilevante di immunità parlamentare e addirittura di non procedibilità”. Ma all’interrogativo che così si garantirebbe l’immunità ai politici, il Ministro risponde: “non è impunità, è separazione dei poteri. Si tratta di principi sanciti oltre duecento anni fa. In un paese democratico funziona così, altrimenti non funziona”. In questo senso - aggiunge - andrebbe intesa l’esortazione “ognuno al suo posto” pronunziata dal Vice Presidente Rognoni a Milano.
Questa è dunque l’idea che il Ministro ha della separazione dei poteri. Non credo che vi sia bisogno di commenti e comunque io non intendo farli. Voglio sottolineare che questa idea della separazione dei poteri che il Ministro Castelli ha così candidamente esposto, con tutta probabilità non ce l’ha solo lui. L’esperienza storica, anche quella recente, ci fa sospettare che qualche idea di questo genere possa intravedersi anche in altri personaggi, anche se meno chiaramente espressa e magari nascosta nelle pi complesse pieghe dell’ animo di persone meno spontanee.
Questa idea si collega poi all’entusiasmo emblematico con cui il Ministro Castelli ha preso l’iniziativa di far scrivere nelle aule di giustizia che “La giustizia è amministrata in nome del popolo”.
Chissà qual è il significato che il Ministro Castelli attribuisce a questo principio, consacrato nel primo comma dell’articolo 101 della Costituzione. Ho l’impressione che, coerentemente con quanto detto sulla separazione dei poteri, egli ritenga che i magistrati debbono decidere secondo ciò che vuole il popolo, e cioè la maggioranza. E questa convinzione spiegherebbe anche le sue idee sulle immunità dei politici. Se il popolo elegge qualcuno – così sembra pensare il Ministro – con ciò lo assolve dalle accuse. Ed i giudici non debbono pi giudicarlo, perch non possono in nome del popolo ribaltare un giudizio che il popolo ha già dato.
Mi dispiace dare una delusione all’On.le Ministro, ma il principio che “la giustizia è amministrata in nome del popolo” ha un significato esattamente opposto a quello che credono lui ed i suoi consiglieri esperti di diritto costituzionale.
Quel principio rappresenta l’incipit di un titolo della Costituzione tutto dedicato a garantire l’indipendente esercizio della funzione giudiziaria - inquirente e giudicante – e a consacrare il dovere dei giudici di ubbidire alla legge (e non al legislatore) e di disubbidire a qualunque altra fonte di potere. La norma costituzionale non significa affatto che i giudici debbono decidere i processi seguendo la volontà popolare. Significa, al contrario, che la giustizia non è amministrata in nome del potere politico e quindi n in nome del parlamento n in nome del governo. Non a caso la norma si pone in contrapposizione storica rispetto alla previsione dello Statuto Albertino, secondo cui la giustizia era amministrata in nome del Re.
Si tratta semplicemente di un altro modo per dire che il potere giudiziario è indipendente da ogni altro potere e che deriva la sua legittimazione direttamente dalla Costituzione non dal Parlamento o dal governo. I giudici – stabilisce il secondo comma dell’art. 101 – sono soggetti soltanto alla legge: essi cioè debbono applicare le regole approvate dal parlamento e solo quelle ed hanno quindi il dovere di non ubbidire a nessun altro potere e di non subire alcuna influenza nell’interpretazione ed applicazione della legge al caso concreto, perch “la legge è uguale per tutti”. Il che significa che la legge deve essere applicata nei confronti di tutti, anche dei rappresentanti del popolo.
Del resto la sovranità popolare deriva anch’essa dalla Costituzione ed è quest’ultima a dire che la sovranità ha dei limiti e che vi sono funzioni pubbliche - in particolare quelle di garanzia - che debbono essere sottratte al principio della volontà della maggioranza. Anche perch un ordinamento non potrebbe dirsi democratico se non prevedesse istituti di garanzia a tutela delle minoranze, dei deboli e dei singoli, istituti di garanzia capaci di frenare la naturale tendenza del potere politico a espandersi e ad operare in maniera autoreferenziale. Perciò la Costituzione prevede anche reciproci controlli tra poteri dello Stato.
Rivendicare questa posizione di soggetti istituzionali che non riconoscono condizionamenti superiori è doveroso, perch la condizione essenziale della legittimazione del giudice è la sua indipendenza come garanzia della sua imparzialità, della sua terzietà e della sua soggezione soltanto alla legge. Avere un giudice rappresenta ormai un diritto fondamentale dell’uomo; ma un giudice non imparziale non è un giudice e la giustizia per essere imparziale deve essere indipendente.
Aver chiare le idee sulla nostra collocazione costituzionale è la nostra forza, ma deve però renderci al tempo stesso molto pi consapevoli delle nostre enormi responsabilità. Non intendo qui iniziare uno dei discorsi autoflagellanti e autocritici che vanno molto, troppo di moda. Voglio però dire – e concludo - che se l’indipendenza e l’imparzialità sono condizioni di legittimazione democratica della funzione giudiziaria vi è anche un’altra condizione di legittimazione ed è la nostra capacità di rendere giustizia in modo corretto, il pi possibile efficiente e professionalmente adeguato.
L’indipendenza della magistratura non può essere intesa come un valore in s, ma rappresenta uno strumento indispensabile per assicurare la tutela dei diritti dei cittadini. E per essere sempre pi riconosciuta come un valore irrinunciabile, l’indipendenza deve essere accompagnata dalla maggiore efficacia possibile dell’azione di tutela. Non è cosa che scopriamo oggi, ma occorre ribadire che l’indipendenza è un valore strumentale e non può essere concepita come un paravento posto a tutela della magistratura, qualunque cosa faccia.
La nostra coerenza ci impone di porre la correttezza e l’efficienza della giustizia al centro della nostra azione di rivendicazione e di denunzia delle responsabilità politiche, per dimostrare che ciò che ci sta a cuore, ciò per cui ci battiamo è solo la giustizia. Come corrente dobbiamo però cercare di superare lo stadio delle esortazioni generali: dobbiamo essere capaci di individuare con lucidità i problemi reali che impediscono un funzionamento dignitoso della giustizia, denunciandone le cause e indicando le soluzioni possibili, ma facendo comunque il possibile per non addossare ai cittadini le conseguenze dell’inefficienza.
Paradossalmente le difficoltà gravi del momento possono tradursi, anche per MD, nella valorizzazione dei principi e nella capacità di riflessione e di impegno che hanno sempre rappresentato la nostra forza.