Le buone ragioni della Carta di Nizza


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di Giuseppe Bronzini

  1. Premessa
    Sul conto della Carta di Nizza, in particolare nell’opposizione di sinistra, si è detto di tutto. Molte inesattezze sono frutto di una sistematica confusione tra i diversi piani della riflessione e, soprattutto, della approssimativa conoscenza anche solo dei rudimenti del diritto comunitario.
    Naturalmente questo deficit informativo costituisce un problema effettivo e sostanziale: mentre una lenta alfabetizzazione di massa si è sedimentata nel corso degli anni sul funzionamento delle istituzioni nazionali, sia parlamentari che giurisdizionali (di solito pi lontane dall’immaginario collettivo e raggiungibili solo da un sapere “specialistico”), nel caso dell’Unione siamo ben lontani da tutto ciò. Persino studiosi del calibro di un Michael Walzer confondono sistematicamente la Corte delle comunità europee con quella (dei diritti umani) di Strasburgo, così come il teorico del federalismo Daniel Eliazar ha sostenuto che l’Unione gode del vantaggio (rispetto ad altri sistemi federali) di avere dei “pilastri” che consentono al diritto comunitario di introdursi direttamente negli ordinamenti degli stati (notoriamente i “pilastri” sono invece i 3 grandi settori nei quali si articola il diritto che proviene dall’Unione: mercato comune, politica estera, giustizia e affari interni, il primo dei quali è compiutamente disciplinato da organi che si possono definire come “sovranazionali”
    Se poi ci soffermiamo sulle affermazioni dei “politici” gli errori scivolano nel comico: nel Parlamento italiano si è sentito dire che la Carta di Nizza era da rifiutare perch non comprende, al contrario di quella italiana, il diritto all’abitazione (mentre è vero l’esatto contrario) o non tutela lo sciopero o, ancora, non conferisce la possibilità di stipulare contratti collettivi europei (affermazioni che non possono che essere il frutto di una svogliata lettura della Carta, anche da parte di coloro che, dietro compenso, preparano i “discorsi parlamentari“ dei leaders).
    In questo breve, sostanzialmente informativo, contributo proverò a distinguere i diversi piani di analisi e ad offrire qualche sintetica precisazione utile per un confronto pi ravvicinato sul significato, anche per i movimenti sociali, dell’approvazione della Carta di Nizza.
    Occorrerà, quindi, separare le questioni di metodo, di merito, di efficacia e di prospettiva (in vista della conferenza del 2004 che riformerà l’Unione).

  2. Il metodo di approvazione
    Sul metodo ricordo soltanto che la preparazione del testo di Nizza non è stata affidata alle consuete trattative di carattere diplomatico (come è avvenuto per ogni revisione dei Trattati), riservate quindi ai governi e coperte dal segreto, ma attribuita ad una Convenzione tra i cui membri figuravano, oltre ai rappresentanti dei 15 governi, anche delegati dei Parlamenti nazionali e di quello europeo. Inoltre, la discussione nella Convenzione è avvenuta come in una grande adunanza virtuale, in quanto i vari draft della Carta, le proposte di emendamento, le relazioni generali ecc. sono state via via rese pubbliche su Internet. Ancora, si è svolta una consultazione della “società civile” alla quale hanno partecipato associazioni, sindacati, fondazioni di ogni tendenza ed è stato dato modo a gruppi o singoli di inviare le proprie osservazioni sul sito della Convenzione.
    Anche se, in generale, le organizzazioni della sinistra, non hanno accolto con il dovuto impegno questa offerta di confronto, comunque l’informazione sul lavoro svolto in Convenzione è stata incomparabilmente pi ampia e diffusa di quanto non sia mai avvenuto in un Parlamento nazionale, anche su questioni decisive. La “centralistica e burocratizzata” Unione, i cui standard di “democraticità” -secondo la vulgata corrente- sarebbero ben al di sotto di quelli vigenti a livello statale ha, in questo caso, dimostrato di saper coinvolgere settori di opinione pubblica, lontani dai partiti e dalle sfere della democrazia rappresentativa e anche della rappresentanza di interesse, mentre storicamente l’apertura delle sedi parlamentari (le hearings pubbliche) agli influssi informativi esterni non è mai andata oltre una logica neocorporativa di coinvolgimento di sindacati e imprenditori.
    Peraltro, questa prima esperienza di Convenzione sembra avere insegnato molto: l’attenzione oggi sulla seconda Convenzione è ancora pi vasta; gli interventi dei soggetti non istituzionali molto pi precisi ed esigenti (anche sul problema del destino della Carta), le discussioni -non solo in ambito accademico- si diffondono in ogni parte d’Europa in modo esponenziale. Se pure il progetto di costituzionalizzazione dell’Unione dovesse fallire, rimarrà comunque un deposito enorme di conoscenze e di analisi, molte delle quali fortemente critiche sull’orizzonte funzionalistico nel quale è stata finora confinata la Comunità, che non potrà non giovare al decollo di un movimento di lotta su base continentale che sappia evadere dai falsi scenari nazionali.
  3. L’elenco dei diritti
    Passando al contenuto della Carta, è bene evidenziare subito che alcune delle critiche mosse al testo di Nizza derivano da un suo gigantesco fraintendimento: voler leggere la Carta come se fosse una Costituzione. Questo passaggio, in s storicamente necessario, tuttavia era fuori dal mandato della Convenzione e in realtà, all’epoca, anche fuori dall’agenda politica europea. Si tratta di un progetto ben diverso, anche se storicamente cruciale: stabilire un insieme di diritti fondamentali che le norme dell’Unione ( e quelle statali di applicazione delle prime) non possano travolgere: quindi un Bill of rights.
    Se, tradizionalmente, una Costituzione stabilisce un catalogo di diritti, le procedure democratiche con cui si può concorrere all’indirizzo politico di un paese, i valori e gli obiettivi generali da realizzare, l’organizzazione dei poteri e i sistemi di revisione del testo, la Carta riguarda solo il primo aspetto per l‘ovvia ragione che la trasformazione dell’Unione da organizzazione con (prevalenti) finalità economiche in un’ organizzazione “ politica” con fini generali è una decisione ancora in gioco.
    La Carta è stata quindi concepita e formulata come un insieme di prerogative fondamentali e, in linea di principio, giustiziabili davanti alla Corte europea o ai giudici nazionali, ma è ovviamente priva di quegli obiettivi, valori, indicazioni, altisonanti propositi che affollano in particolare la nostra Costituzione.
    Del tutto a sproposito si è denunciata, ad esempio, la mancanza di un diritto alla pace o all’eguaglianza di fatto, poich , ovviamente, non si tratta di diritti soggettivi giustiziabili (si può andare davanti ad un giudice a chiedere l’eguaglianza sostatale?). L’abbaglio è anche pericoloso; infatti i Trattati da sempre contemplano il rispetto della Carta dell’ONU e delle regole di diritto internazionale, così come prevedono principi sociali molto vicini all’idea di una eguaglianza di fatto. Non ribadendo questi impegni sembra che la Carta li abbia smentiti, il che non solo non è vero sul piano strettamente giuridico, ma è anche un’affermazione rischiosa.
    Ancora completamente fuori sesto è l’affermazione (purtroppo fatta propria anche da alcuni costituzionalisti italiani di parte democratica, che finiscono con il propugnare il “costituzionalismo in un paese solo”) che la Carta supererebbe, in pejus, le Costituzioni nazionali stabilendo un livello di protezione pi basso. Una clausola specifica fa, infatti, salvi i diritti protetti nella Costituzioni nazionali; l’operazione quindi ha un segno esattamente opposto: questi diritti che l’Unione non ha sinora riconosciuto (salvo quelli che potrebbero comporre una tradizione costituzionale comune) sono per certi versi incorporati nell’ordinamento europeo, secondo il consolidato criterio del “trattamento di miglior favore”. Peraltro si deve considerare che, secondo la Corte di giustizia, il principio della prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale è senza deroghe; anche la pi minuta disposizione del primo (la lunghezza delle reti da pesca) può annullare disposizioni statali contrastanti, persino di rango costituzionale. Si potrebbe replicare seguendo la Corte costituzionale italiana o quella tedesca, che ciò non vale per i principi fondamentali del nostro ordinamento; tuttavia la cosiddetta teoria dei “controlimiti” dovrebbe essere ripensata in chiave quasi-federale, come contributo di singole Corti al rispetto dei diritti in un ordinamento che ingloba quelli nazionali, altrimenti l’intervento di un giudice costituzionale di eventuale annullamento di un atto comunitario correrebbe il rischio di dover mettere a repentaglio (anche su di un piano formale) una costruzione che ha alle spalle 5O anni di storia.
    La sfida è quindi la protezione dei diritti fondamentali a livello europeo (visto che oltre il 70% delle norme che gli stati applicano è di matrice comunitaria); è inutile, illusorio e dannoso guardare all’indietro, semmai occorre- come si dirà pi avanti- battersi seriamente per procedure che consentano di eliminare le disposizioni pi discutibili della Carta, come l’odiosa norma che subordina il diritto alla circolazione nell’Unione per gli immigrati “legali” ad una autorizzazione e quella che circoscrive il divieto di espulsione o estradizione verso i soli paesi in cui vi sia “ serio” pericolo di tortura o di condanna a morte.
    Passando al merito del testo di Nizza, esso costituisce, anche se emendabile in qualche passaggio e malgrado le due norme prima ricordate che peraltro sembrano in contrasto con altre formulazioni della medesima Carta, il pi organico e completo elenco di prerogative fondamentali oggi a disposizione in un contesto non nazionale e non nel terrain vague del diritto “cosmopolitico” dell’ONU . Frutto , certo, di un compromesso che però è riuscito a strappare alla ostinata resistenza di parte della Convenzione un deciso (e storico) allargamento dell’area della tutela soggettiva dei cittadini europei (e anche degli immigrati residenti) originariamente ristretta alla protezione delle quattro libertà fondamentali (di circolazione di merci, di capitali, di servizi e di persone) e al divieto di discriminazione tra sessi.
    Comprende ovviamente i classici diritti di stampo liberal-democratici (già dal 1950 raccolti nella Convenzione di Roma, sulla cui osservanza vigila la Corte di Strasburgo), così come comprende tutti i diritti socio-economici elaborati nel secondo dopoguerra, molti dei quali sconosciuti anche alla nostra Costituzione (tutela contro il licenziamento ingiustificato, diritto all’informazione in azienda ecc.) In pi la Carta aggiunge coraggiose formulazioni dei diritti del futuro: tutela dell’ambiente, protezione dei consumatori, protezione dei dati di carattere personale, libertà nella rete (diritto di ricevere e trasmettere liberamente informazioni) ecc.
    Nessuno, peraltro, è riuscito ad individuare un solo diritto di qualche importanza che sia stato pretermesso dalla Convenzione dei 62.
    Vanno anche sottolineati gli elementi di differenza sul piano simbolico e culturale con altri cataloghi diritti fondamentali (sotto questo profilo la Carta come documento solenne iperpubblicizzato ha indubbiamente avuto da subito formidabili effetti sul piano comunicativo).
    Due diritti in particolare emergono come pretese individuali riconosciute in primis dall’Unione ed estranee, in genere, alle Dichiarazioni degli stati membri: la garanzia di un “minimo vitale” e il “diritto alla formazione permanente e continua”. Sono due prerogative che presentono un forte carattere di “innovazione”; indicano una strategia nella protezione della parte pi debole della società oltre gli schemi della Costituzione italiana del 48 che accorda -anche in relazione all’interpretazione che del termine “lavoro” e “lavoratori” si è imposta con i celeberrimi saggi di Costatino Mortati e Massimo Saverio Giannini nell’immediato dopoguerra- una tutela privilegiata al lavoro dipendente.
    La svolta che con la Carta si delinea è la rideclinazione dello Stato sociale attorno alla protezione contro l’incertezza e l’instabilità “esistenziale” generate dalla flessibilità e dalla precarietà (e anche in certi contesti dalla scarsità) dei rapporti di lavoro. La metafisica influente della Carta sembra coerente con il progetto di nuovo stato sociale post-fordista (basterà pensare agli scritti di A. Gorz, U. Beck e C. Offe) nel quale le istituzioni del welfare siano schermate dalle dinamiche di mercato per recuperarne i fini egualitari e perequatori. Accordare a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti “il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa” (art. 33) vuol dire, in effetti, (vista l’incondizionatezza del diritto) allontanarsi dall’idea -che i teorici della terza via hanno a lungo cercato di imporre in Europa- che il welfare tradizionale vada necessariamente trasformato il workfare, in forme di costrizione allo svolgimento di lavori che il mercato non produce e che uno Stato dal volto di Giano, caritatevole ma al tempo stesso paternalistico ed autoritario, dovrebbe “inventare” per sradicare la “passività” degli assistiti.
    La Carta tiene invece separato il piano del diritto sociale “all’esistenza” e il piano dell’attività produttiva, così come assicura la possibilità per ogni lavoratore (anche solo in nuce perch si riferisce ad ogni individuo) di rimettere in discussione attraverso attività e progetti formativi –prima, durante e dopo un periodo di occupazione- le scelte compiute, allentando in tal modo i fattori di eterodirezione del mondo del lavoro o almeno rendendoli provvisori.
    Credo sia evidente come nella garanzia di questi due diritti (e di altri propri del “cittadino laborioso” come le libertà nella rete, la protezione della privacy, la trasparenza amministrativa ecc.) si realizzi una prospettiva pi ampia e inclusiva del welfare tradizionale che mirava pi che altro a stabilizzare i rapporti lavorativi in corso, strutturandone e irrigidendone le condizioni contrattuali e assicurando una loro proiezione pensionistica e assistenziale. Il “ minimo vitale” e la “ formazione permanente e continua” sono invece due diritti che forniscono opportunità di base per una “flessibilità” autoscelta e non imposta dalle imprese, non hanno come referente contrattuale tipico un rapporto di lavoro subordinato, full-time con una medesima impresa: per dirla con Alain Supiot un “impiego”.
    E’ in questo contesto che va giudicata la formulazione usata dalla Convenzione di “diritto di lavorare” in luogo di quella consueta di “ diritto al lavoro” che viene incontro alla pi avanzata cultura giuslavoristica, per la quale questa norma esprimerebbe non solo il diritto individuale a svolgere una attività socialmente utile, ma anche la possibilità di scegliere le modalità contrattuali, senza perdere il possesso delle libertà fondamentali. Ma, comunque se questa “coloritura soggettiva” del diritto al lavoro spaventa, la formula “creativa” della Carta può essere interpretata sulla falsariga di quella tradizionale. Poich la Carta (v. art. 53) va interpretata conformemente al diritto e alle convenzioni internazionali (approvate dagli Stati membri) soccorre la Dichiarazione universale dell’ONU che contempla il diritto al lavoro
  4. Problemi di efficacia
    L’obiezione, molto diffusa a sinistra, per la quale il passaggio all’approvazione della Carta sarebbe irrilevante perch i suoi contenuti sono troppo generici e rinviano alle legislazioni e prassi nazionali non si misura in alcun modo con la natura del documento. Molte Costituzioni europee (a cominciare da quelle del Nord Europa) usano espressioni ancor pi vaghe rispetto a quelle usate dalla Carta . Il rinvio alle legislazioni e prassi nazionali implica solo una certa discrezionalità per gli Stati nel tutelare i diritti oggi riconosciuti dall’Unione, ma la clausola dell’art. 52 sul rispetto del “contenuto essenziale” esclude che si possa semplicemente ignorarli.
    Non affronto in questa sede il problema della clausola approvata dal gruppo della Convenzione sull’inserimento della Carta nei Trattati che distingue tra “principi” e “diritti” poich la clausola non è stata ancora ratificata dal plenum e perch sono ancora da definire e comprendere appieno le conseguenze della eventuale ratifica di questa “distinzione”, che secondo molti commentatori sarebbe in ogni caso destinata ad essere cancellata dalla Corte di giustizia europea.
    Parimenti è errata la tesi per cui la Carta avrebbe solo carattere simbolico. E’ vero che gli Stati l’hanno ratificata lasciando impregiudicato il suo valore giuridico (sul quale dovrà esprimersi la seconda Convenzione e nel 2004 la futura Conferenza intergovernativa). Tuttavia questa cautela è sembrata da subito urtare con l’evidenza della connessione tra l’approvazione solenne di una Carta accettata da tutti gli Stati e la consolidata giurisprudenza della Corte europea recepita anche in norme dei Trattati. La Corte europea sin dalla metà degli anni ‘60, come contrappeso dell’introduzione in via pretoria del principio della supremazia del diritto comunitario su quello nazionale e dell’efficacia diretta del primo sul secondo, ha affermato che avrebbe protetto i diritti fondamentali dei cittadini europei. Questa giurisprudenza è stata poi formalizzata dal Trattato di Maastricht che all’art. 6 stabilisce che “l’unione riconosce i diritti della Convenzione di Roma del 1950 e quelli che derivano dalle tradizioni costituzionali comuni dei paesi membri come principi generali del diritto comunitario”.
    Ora la Corte non ha mai, n poteva farlo, stilato un elenco di tali diritti e sostanzialmente è rimasta confinata nell’area delle prerogative classiche liberal-democratiche (l’ordinamento rigorosamente liberista della Gran Bretagna ha impedito di includere con certezza i diritti sociali nelle tradizioni costituzionali comuni). Ma la Carta cambia lo scenario: oggi ci troviamo un testo, approvato dai 15 stati, ratificato dal Parlamento europeo e da quelli nazionali, che trova il consenso unanime delle istituzioni dell’Unione e di quelle statali: il patrimonio comune si estende così- via Carta- anche ai diritti socio-economici e a quelli di “ terza generazione” .
    E’ così è stato: la Corte europea per due volte, la Corte Costituzionale spagnola e, recentemente, quella italiana e, a pioggia, i giudici nazionali hanno cominciato ad assumere la Carta come un Bill of rights valido per l’intero continente e fonte (interpretativa) di ispirazione per un nuovo garantismo post-nazionale. A ciò si aggiungono segnali “ istituzionali” di validità della Carta: la Commissione ha autonomamente stabilito che nella propria attività di promozione legislativa opererà un controllo della compatibilità delle norme da approvare con il Testo di Nizza (una specie di controllo di costituzionalità preventivo); e analogamente ha deciso di comportarsi il Parlamento europeo nell’esercizio del suo potere di codecisione.
    Pertanto il cittadino europeo ha oggi tre vie giurisdizionali per far valere la Carta. Di fronte ad un provvedimento dell’Unione che lede direttamente i propri interessi può impugnarlo di fronte alla Corte europea; oppure avanti i giudici nazionali può chiedere che venga investita la Corte per interpretare adeguatamente le disposizioni comunitarie e quelle nazionali di applicazione delle prime in modo che non vengano calpestati i diritti fondamentali. Infine può cercare, se le norme europee sono sufficientemente chiare e direttamente applicabili, di chiedere al giudice ordinario di disapplicare le norme statali in contrasto con le prime (facendo valere la Carta come fonte di interpretazione). Per fare un esempio concreto tutti i contratti a termine stipulati in Italia dopo la legge con cui il governo Berlusconi ha recepito la direttiva comunitaria in questa materia potrebbero essere annullati dai giudici del lavoro invocando la Carta e la giurisprudenza antidiscriminatoria della Corte di giustizia come giustificazione giuridica dell’annullamento.
    Ma ancor di pi: la Carta non potrà alla lunga non esercitare (per il principio “patere legem quam ipse fecisti” ) una pressione insuperabile sugli Stati anche per quelle materie che non sono disciplinate dal diritto comunitario.
    Quanto potrà resistere l’Italia nel non introdurre misure universalistiche a favore dei disoccupati, visto che un “minimo vitale” è stabilito nel testo di Nizza? Quanto resisterà l’ordinamento italiano nell’escludere i lavoratori autonomi dal possesso dei diritti fondamentali, considerata la giurisprudenza rigorosamente antidiscriminatoria dei giudici della Corte del Lussemburgo?
    Purtroppo la tesi, completamente sbagliata sul terreno giuridico ma molto diffusa in alcuni i ambienti di sinistra, del carattere puramente “simbolico” della Carta rischia di essere una profezia che si autoavvera. La “forza” del testo di Nizza è quella tipicamente “mite” delle Carte costituzionali: deve incontrare un’attesa sociale di giustizia” (per dirla con la scuola ermeneutica del diritto) che la renda operativa attraverso complesse operazioni interpretative e, spesso, di rinvio tra giurisdizioni sovranazionali e nazionali. Non saranno i giudici, senza una convinta committenza sociale, a potersi tirar fuori dall’asfittico territorio giuridico nazionale afferrandosi ai propri capelli. Solo se se abbandonerà il pregiudiziale e immotivato rifiuto di un orizzonte di tutela giurisdizionale per l’intera Europa e se i movimenti sapranno sviluppare istanze traducibili in una pressione sistematica sulle Corti e i Tribunali la sostanza garantistica e innovativa della Carta decollerà. Del resto si racconta che i tedeschi capirono che la Germania era divenuta una Federazione solo quando i cortei cominciarono a svolgersi a Berlino e non nelle varie capitali degli stati che componevano la precedente Confederazione.
  5. La Carta di Nizza in prospettiva
    Sul punto sarò sintetico; il futuro della Carta è infatti legato a filo doppio con il processo di “costituzionalizzazione” dell’Unione (e ai lavori prima della Convenzione e poi della CIG del 2004) che, come tema, trascende i limiti di questo contributo.
    In questo momento l’ipotesi pi credibile (ratificata anche dal gruppo della Convenzione sulla Carta) è l’inserimento del testo di Nizza nei Trattati, anzi in un “Trattato fondamentale” (che probabilmente verrà chiamato Costituzione) che dovrebbe raggruppare, secondo le linee suggerite in un noto studio dell’Istituto universitario europeo, solo le disposizioni fondamentali dell’Unione, differenziandole dalle altre norme applicative delle prime.
    L’inserimento in un “Trattato fondamentale” è stato questa volta richiesto anche da varie associazioni sentite dalla Convenzione, che gravitano nel mondo della sinistra come la CGIL (e la CES), Green Peace o Amnesty International, che pure erano state molto critiche nei confronti del testo all’epoca della prima Convenzione.
    Questa iscrizione della Carta in un Trattato di rango costituzionale, o comunque sovraordinato rispetto ai Trattati dell’Unione. rafforzerebbe la giurisprudenza che si è già ricordata della Corte europea sul rispetto dei fundamental rights. Mentre infatti sino ad oggi la Corte poteva svolgere quest’opera di protezione soggettiva in un orizzonte normativo nel quale le finalità economiche e funzionalistiche erano comunque prevalenti e pertanto proteggeva i diritti solo “ negativamente” (per evitare distorsione della concorrenza, il social dumping tra stati ecc.), con l’inserimento della Carta tra le norme primarie dell’Unione la protezione dei diritti si collocherebbe sullo stesso piano (come fonte normativa) degli scopi economici. Naturalmente sarebbe molto meglio se si aggiungesse, come qualcuno propone, la realizzazione dei diritti menzionati nella Carta tra i fini dichiarati dell’Unione; in ogni caso non si può negare che si tratta di un passaggio storico di avvicinamento dell’Unione ad un’organizzazione con fini politico- generali, ben oltre, quindi, la iniziale dimensione di mero organismo di collaborazione economica tra Stati. Nell’equilibrio precario in cui è si è mantenuta sinora l’Unione tra organo di diritto internazionale e organo sovranazionale, in tendenza soggetto al diritto costituzionale, l’inclusione del testo di Nizza fra le disposizioni “di base” dovrebbe giocare un ruolo decisivo per rafforzare la prima dimensione, la base necessaria per il salto verso una Costituzione in senso proprio.
    L’inclusione della Carta non potrebbe che favorire l’approvazione di procedure di revisione del Trattato non soggette alla necessaria ratifica di tutti i 15 stati (che nel 2003 diventeranno 25). Mantenere queste procedure renderebbe in pratica la Carta immodificabile e porterebbe a forme di criptogiusnaturalismo, incompatibili con l’autoriflessività che caratterizza gli ordinamenti giuridici contemporanei.
    Sul piano giurisprudenziale, con l’incorporazione della Carta nel “meta-Trattato”, si stringerebbe il continuum “narrativo” tra Corti europee, Corti costituzionali nazionali e giudici ordinari, uno spazio giuridico europeo nel quale i movimenti e i conflitti sociali avrebbero finalmente a disposizione una moltiplicità di sedi e di interlocutori per far valere le proprie istanze. I giudici ordinari dei paesi membri (che giurano fedeltà alle Costituzioni nazionali) sarebbero incentivati a vedersi portatori di un garantismo europeo e di valori costituzionali comuni, se si formalizzasse una “higher law” di validità continentale, e si giungesse ad usare la tormentata espressione di “costituzione europea”.
    Naturalmente questa apertura ad un discorso post-nazionale sui diritti sarebbe ancor pi forte, se la Convenzione accettasse l’idea (molto combattuta anche per il rischio di inondare di cause la Corte europea, facendole così smarrire il ruolo sin qui svolto di levatrice del processo di integrazione) dell’introduzione di un ricorso diretto per violazione dei diritti fondamentali.
    Può in effetti sembrare insufficiente o comunque poco significativo, per le ragioni della piena democratizzazione costituzionale dell’Unione, che si possa liberare una nuova dimensione giurisdizionale a livello propriamente europeo, ma sarebbe un grave errore. Oggi i movimenti sociali mancano di una interlocuzione sul piano istituzionale (salvo qualche preziosa esperienza locale) non solo per la debolezza e l’indisponibilità di fondo verso un dialogo con le forze alternative dei partiti socialdemocratici, ma anche per la difficoltà di individuazione di un “centro” politico cui imporre le proprie decisioni. Il rifiuto dei meccanismi della rappresentanza da parte dei movimenti è l’altra faccia del deperimento delle sedi rappresentative tradizionali (in questo senso l’Unione è un tipico esempio di governo dalle mille teste). Già in passato grandi mobilitazioni, come quella sui diritti civili in USA negli anni ’60, hanno giocato l’arma del rapporto diretto con le giurisdizioni, soprattutto le Corti supreme . L’idea di un diritto che si fa plasmare dagli impulsi diretti della società civile, grazie anche alla particolare forma “fluida” dei testi costituzionali e all’intervento creativo delle Corti che lo devono applicare, offre una prospettiva che dovrebbe, mi pare, essere presa sul serio. Questa prospettiva sembra, comunque, potere realisticamente ed efficacemente integrare la logica di “democratizzazione” dell’Unione (pur condivisibile e necessaria) che insiste prevalentemente e quasi in via esclusiva sul rafforzamento dei poteri del suo Parlamento.
    Anche se la Convenzione dovesse -il che sembra oggi altamente improbabile- realizzare significativi passi avanti nella costruzione di un governo europeo responsabile di fronte al suo Palamento, il dispiegarsi di una “Europa dei diritti” dal basso, alimentata dal contributo dei movimenti sociali, dei sindacati, delle ONG, dei municipi ecc. sembra destinata ad essere un terreno insostituibile su cui plasmare una sfera pubblica europea che costringa veramente gli stati ad abdicare alle loro anacronistiche pretese di sovranità.
15 02 2002
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