Nonostante abbia condiviso fino in fondo le battaglie che Md ha, in questi anni difficili, portato avanti con grande tenacia ed intensità per la difesa della Costituzione, dell'ordinamento giudiziario e pi in generale del principio di legalità di fronte alla ventata deregolatrice che si è abbattuta sul nostro paese, non mi soffermerò specificamente su questi aspetti. Ritengo altrettanto necessario, infatti, avviare tra di noi una riflessione circa l'esigenza, per un domani che ci auguriamo migliore, di individuare sin da oggi un metodo di lavoro ed un nucleo forte di direttrici e proposte - nette, definite, aliene da una visione ispirata alla mediazione a tutti i costi - che possano realmente svolgere una funzione aggregante, sui temi della tutela dei diritti e della giurisdizione, nei confronti di quella parte della società che è a mio giudizio disposta a mobilitarsi per la realizzazione di obiettivi che esprimano realmente il segno di una trasformazione e di un cambiamento ispirati ai valori del costituzionalismo democratico. Come ha scritto efficacemente Livio Pepino sulla nostra mailing list (ormai fonte di raffinate elaborazioni teoriche), il conflitto - cito a memoria - non è e non deve essere tra magistratura e società, ma si deve aprire nell'ambito della società stessa; ed il ruolo di Md, naturalmente insieme alle altre componenti che in quei valori si riconoscono, sta allora nel suscitarlo, quel conflitto, nei termini cui ho fatto sia pure schematicamente riferimento.
Si tratta, cioè, di elaborare una piattaforma che segni una rottura di continuità netta (vorrei dire traumatica) rispetto all'attuale quadro politico e che insieme non indulga alle aperture verso una malintesa modernizzazione realizzate in un recente passato dal centro-sinistra (penso alle linee ispiratrici della riforma della immigrazione, della flessibilità nel lavoro, del federalismo, del riordino istituzionale) n alle omissioni ed alle inerzie che hanno poi incisivamente pesato sul quadro sociale e politico (ed a questo proposito penso - citando un po' alla rinfusa - alla mancata riforma della subordinazione e dei lavori atipici, del processo del lavoro e previdenziale, della rappresentatività sindacale, della magistratura onoraria).
Per chiarire e dare corpo al senso di queste premesse provo a ragionare su uno dei principi solennemente enunciati in varie norme della nostra Costituzione e poi nella Carta di Nizza - quello della dignità della persona - per valutare se, assegnandogli un valore pregnante e declinandolo in termini di assoluta coerenza, esso possa vantare - come è stato da altri osservato (P.Morozzo della Rocca, Il principio di dignità della persona umana nella società globalizzata, in Democrazia e diritto, n.2/2004, pp.195 ss.) - il carattere di un valore positivo diffuso e divenire una parola-chiave per rimodellare in termini progressivi l'ordinamento e le relazioni sociali.
Voglio dire, quasi a mo' di memorandum per il futuro, che se si professa fino in fondo il valore della dignità non si può non contrastare con fermezza la legge sulla procreazione assistita, che offende la donna quando la riduce a mera produttrice di embrioni di cui si vorrebbe regolare l'utilizzazione, inglobandone la funzione in una dimensione mercantilistica; se ci scandalizza per gli orrori di Abu Grahib e di Guantanamo non si può non denunciare insieme l'illegale e mortificante presenza nel nostro paese dei centri di permanenza temporanea; se si manifesta sdegno per il forte aumento degli infortuni sul lavoro non si può dimenticare che alla base di questa crescita sta anche il graduale processo di precarizzazione del lavoro, riguardo al quale neanche la sinistra può del tutto chiamarsi fuori; se ci si indigna - infine - per i suicidi in carcere, non si può trascurare che nelle nostre aule di giustizia si persevera (e non solo da parte di magistrati collocati apertamente su posizioni conservatrici) ad assumere un atteggiamento piuttosto spregiudicato nei confronti della libertà delle persone (si avvertono - è stato scritto sempre nella nostra mailing list - echi di un pericoloso revival di una cultura che tende ad enfatizzare l'aspetto retributivo della pena, pervasa quasi da un'ansia punitiva), senza che ciò susciti ormai pi che qualche sporadica e flebile reazione da parte degli organi di informazione e che, nel contempo, si è attenuata quella spinta, che pur aveva visto impegnata nel passato la cultura giuridica di sinistra, ad attribuire alla detenzione un ruolo marginale e ad assegnarle ad ogni modo, ove assolutamente necessaria, una funzione preordinata al successivo riassorbimento del deviante da parte della società (una funzione che non può essere cancellata neppure dall'onda emotiva pur legittimamente suscitata dalla tragica vicenda di Campobasso).
Ma è in particolare rispetto al lavoro, nelle sue diverse espressioni e modalità attuative, che il valore della dignità va recuperato appieno ad evitare che esso perda definitivamente la sua caratteristica essenziale di strumento di realizzazione della persona e della sua indipendenza; ad impedire, in altri termini, che la società venga ad essere formata per la gran parte da quelle che in un recente, incisivo saggio Zygmunt Bauman definisce "vite di scarto" (Z.Bauman, Vite di scarto, Bari, 2005).
Un nuovo fantasma infatti - secondo Bauman - si aggira per l'Europa, quello degli esuberi. Se in passato la disoccupazione era una manifestazione temporanea ed anormale e l'occupazione era quindi proposta come la chiave alla soluzione di problemi quali quello di un'identità personale socialmente accettabile e di una posizione sicura, oggi la condizione di precarietà (che caratterizza la gran parte delle prestazioni lavorative) è destinata, se non muta radicalmente l'attuale modello di sviluppo, a divenire permanente ed a sottrarre ad uomini e donne progetti, punti di riferimento, autostima, senso della propria utilità e del proprio ruolo sociale; uomini e donne che, "riciclati in rifiuti umani", vanno così a creare "la discarica" degli esclusi, "vittime collaterali" del progresso economico".
Questo ragionamento mi pare importante per la nostra discussione perch, oltre a contenere una spietata analisi del mercato del lavoro, ci aiuta a comprendere anche sia il rapporto della nostra società con quelle altre "vite di scarto" costituite dai migranti sia le tendenze in atto rispetto alla criminalità comune. Ritengo che sia infatti da condividere, in primo luogo, la tesi secondo cui, per chi li odia e li attacca, "gli immigrati incarnano - in modo visibile, tangibile nel corpo - il presentimento inespresso, ma penoso e doloroso, della loro stessa smaltibilità". Così come - è ancora Bauman a sottolinearlo - dalla generale insicurezza dei lavoratori promana una richiesta popolare di stato forte, che si traduce nella domanda di forme pi accentuate di repressione e di segregazione, una volta che alla tutela sociale, quando il welfare è in via di smantellamento, finisce per sostituirsi la mera tutela della incolumità individuale (o meglio la illusione del perseguimento di tale obiettivo).
Se il lavoro ha un rilievo centrale anche per gli effetti indotti dalla sua precarizzazione, occorre a questo punto chiedersi perch si sia pervenuti a questo esito, essendo innegabile che esso non costituisca un portato necessario della globalizzazione e delle innegabili trasformazioni dei processi produttivi, e come si possa avviare un percorso oppositivo.
Certo è che molto ha pesato, in assenza di una riforma della rappresentatività sindacale, cui si è inizialmente accennato, il deficit di democraticità del sindacato e la sua inadeguatezza a dar voce all'universo ormai frammentato del mondo del lavoro. Ma vi è domandarsi - come si è sostenuto in un ponderoso, recente saggio (P.Ciofi, Il lavoro senza rappresentanza, Roma, 2004) - se a quell'esito non abbiano concorso le stesse componenti partitiche della sinistra, le quali avrebbero smarrito l'idea che il lavoro e la sua inalienabile dignità siano un principio costitutivo dell'ordinamento ed una chiave di accesso alla inclusione sociale. In altri termini, sarebbe venuta meno, da qualche decennio a questa parte, l'autonoma rappresentanza dei lavoratori da parte dei partiti di sinistra ed il conflitto - per dirlo con Rossana Rossanda - sarebbe stato considerato "un'ideologia produttrice di illusioni nefaste".
Che le cose stiano o meno in questi termini, appare ad ogni modo indubbio - a mio giudizio - che la rappresentanza dei valori fondanti del vivere civile non possa essere oggi affidata in via esclusiva ai partiti, che scontano una palese crisi di partecipazione, e che non possa al riguardo trascurarsi l'apporto dei movimenti e delle svariate aggregazioni che ripropongono il segno di una dualità perduta e costituiscono per di pi le uniche organizzazioni la cui azione travalichi i confini non solo del nostro paese ma anche dell'Europa; ed è evidente che nel dire ciò non intendo esprimere una posizione agnostica o antipartitica, che non mi appartiene affatto, ma solo affermare che va forse considerata datata quella concezione che attribuisce ai partiti il monopolio della rappresentanza. Non si tratta del resto - come si è osservato in un bel volume appena pubblicato (G.Marcon, Come fare politica senza entrare in un partito, Milano, 2005) - di scegliere tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, bensì di aprire la prima alla seconda e di individuare anche strumenti di sostegno alle formazioni sociali, oggi destinati soltanto ai partiti, i quali evitino - aggiungerei - di disperdere una grande risorsa legittimata ad incanalare, tradurre e semmai articolare le spinte al cambiamento che provengono dal basso.
Se vuole riproporre una forte presenza nella società, Md non può restare estranea a questo processo, naturalmente in ordine agli ambiti di sua pertinenza. Per recuperare un vasto consenso da parte dei cittadini, oggi molto modesto, occorre infatti che la magistratura manifesti, anzitutto nelle sue decisioni e nelle sue prassi, una convinta adesione ai principi di uguaglianza e dignità, denunzi i comportamenti devianti (dimostrando nei fatti di non voler perseguire dei privilegi incompatibili con i principi da essa enunciati), si faccia carico di critiche e proposte innovative, le rielabori in un confronto partecipativo, dia ad esso ascolto nell'esercizio della giurisdizione.
Perch è certamente vero, come è stato osservato nel corso del nostro dibattito interno, che è assai pericoloso per la magistratura cedere alla tentazione di accordarsi con il "comune sentire", con gli umori della "gente", con il buonsenso popolare, che spesso contraddicono la cultura della giurisdizione; ma non vorrei che da questa legittima presa di distanza germinasse una posizione elitaria ed autoreferenziale, incline a non attribuire il giusto rilievo ai rischi di una scissione tra magistratura e società, la quale rinnegherebbe la stessa linea ispiratrice della nascita di Md.
Questo concetto è stato efficacemente espresso di recente da Gustavo Zagrebelsky (Dove nasce la giustizia, "la Repubblica" , 25.4.2005) con le cui parole mi piace concludere questo intervento: "Diritto indipendente - egli ha scritto - non significa affatto diritto separato. Nello stato di diritto, la separatezza si supera non piegandosi ad autorità dogmatiche e ammiccando a presunti sentimenti popolari, ma rendendosi coscienti dei principi, carichi di storia, di significato e di civiltà che stanno alla base del diritto e lo giustificano. Perch i giudici devono collocarsi sul confine tra il diritto e la cultura in cui esso è immerso e rispondere così al bisogno, incontestabile in qualunque tempo, di una giurisprudenza aperta alla società".