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Brevi riflessioni de iure condendo sulle impugnazioni

Principio accusatorio, impugnazioni, ragionevole durata del processo:
una riforma necessaria
Sasso Marconi, 12-13 dicembre 2003

Brevi riflessioni de iure condendo sulle impugnazioni
intervento di Dario Grohmann
Sost. Proc. Generale Trieste

Personalmente ritengo che oggi i tempi del processo di appello sono estremamente dilatati anche perch il giudizio di secondo grado è diventato non pi coerente con il sistema, poich, mentre è stato fortemente modificato il rito di primo grado sia con le successive riforme legislative (giudice monocratico, giudice di pace, riti alternativi), sia a seguito dei notevoli interventi demolitori della Corte costituzionale, il processo di appello, come delineato dal nuovo c.p.p. del 1989 è rimasto pressoch immutato nella sua sostanza, anche rispetto al precedente codice di rito, e quindi, a mio avviso, soffre di una certa irrazionalità di fondo.
E' sotto gli occhi di tutti che nell'attuale sistema di rito accusatorio (recte:a maggior contenuto accusatorio) tutti i procedimenti nei quali la prova della colpevolezza è stata concretamente acquisita (vuoi perch è stata agevole, vuoi perch ben istruiti dal PM) trovano definizione in riti alternativi, patteggiamento o abbreviato, con la conseguenza che il dibattimento del giudizio di appello è giocoforza destinato a trattare in prevalenza processi molto complessi: maxi processi, processi indiziari o processi che comunque si fondano su mezzi di prova fortemente discutibili o contraddittori; inoltre, per l'effetto sospensivo del gravame, vengono impugnate, a mero scopo dilatorio, una percentuale molto rilevante delle decisioni di primo grado e quindi non ci si può meravigliare se il giudizio di appello ha tempi assolutamente "irragionevoli" e nulla fa il legislatore per renderlo compatibile alla norma costituzionale.
Ritengo che, tralasciando di affrontare i massimi sistemi ed i problemi generali, anche filosofici, delle impugnazioni, (sarebbe a mio avviso una strada tutta in salita e con scarse probabilità di riuscita, in questo momento storico, propugnare, ad esempio, l'abolizione del secondo grado di merito) sarebbe oggi possibile, con un approccio "di piccoli passi e a costo zero", apportare piccole riforme al giudizio di appello, al fine di renderlo soltanto pi snello, veloce e coerente con il sistema.
Cercherò di illustrare brevemente quelle che ritengo le piccole riforme, oggi già possibili, che darebbero immediato respiro alle Corti d'Appello, senza costi aggiuntivi per lo Stato, anzi probabilmente anche con notevoli risparmi a regime, e che, se condivise, potrebbero essere tradotte in legge senza eccessivi stravolgimenti dell'attuale assetto normativo.
Premesso che lo stesso legislatore, con la riforma del 1999 sul giudice unico di primo grado, ha già fatto una scelta di politica criminale individuando i reati di minore rilevanza da attribuire alla competenza di questi, non si comprende allora perch questi stessi reati, di scarsa offensività sociale, debbano poi essere giudicati, in secondo grado da un giudice collegiale.
La prima modifica essenziale sarebbe quella di attribuire al giudice monocratico di appello i reati già attribuiti alla competenza monocratica in primo grado. Ovviamente non con l'attuale rito che sarebbe incompatibile con le strutture (si pensi solo al numero dei Sost. Proc. Generali necessari per la partecipazione alle udienze e non sarebbe serio prevedere la delega alla P.G. o a V.P.O. anche per il secondo grado).
La soluzione che si potrebbe adottare sarebbe quella - non dissimile a quella già presente nel processo tributario (ciò anche in virt del principio generale della unitarietà della giurisdizione) -, che la pubblica udienza è tenuta solo se una delle parti ne fa richiesta nell'atto di impugnazione, altrimenti il rito dovrebbe essere quello di cui all'art. 127 c.p.p.. D'altro canto il giudizio di appello è in se stesso un giudizio cartolare. La sentenza ed i motivi di appello non possono che essere scritti; le conclusioni del Procuratore Generale ben potrebbero essere rese per iscritto e quindi la pubblica udienza - per i reati minori - sarebbe comunque relegata alla ipotesi della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, ipotesi del tutto eccezionale.
E' ovvio però che occorre impedire che la richiesta di pubblica udienza diventi clausola di stile al solo fine di allungare i tempi del processo di appello ed allora, a mio avviso, occorre distinguere l'appello in due grandi tipologie: a) l'appello finalizzato alla mera rivalutazione dei fatti (sia sotto l'aspetto di merito che di legittimità) così come accertati in primo grado e quindi sulla base del materiale probatorio già (legittimamente) acquisito agli atti, appello che in sostanza richiede una nuova valutazione "sulla prova"; b) l'appello che, per la rivalutazione del fatto, richiede necessariamente l'acquisizione di nuove prove o la rinnovazione di prove illegittimamente acquisite, quindi un appello che richiede una nuova valutazione "della prova".
E' del tutto evidente che, nella prima ipotesi, richiedendosi al giudice del gravame solo una nuova valutazione delle prove e quindi di fatto solo un controllo dell'attività del primo giudicante "allo stato degli atti", trova piena legittimità il divieto della reformatio in peius in assenza di impugnazione da parte del P.M.
Nella seconda ipotesi, invece, poich si richiede un nuovo giudizio, eventualmente anche con l'acquisizione di nuove prove, non avrebbe pi alcun senso, in questo caso, il divieto di reformatio in peius, anche in assenza dell'impugnazione del pubblico ministero.
E' chiaro che, al fine di evitare di comprimere eccessivamente il principio del favor impugnationis, andrebbe ridisciplinato e limitato il potere di impugnazione del pubblico ministero, escludendolo ad es. per i casi di assoluzione con formula piena; per i casi di riqualificazione giuridica dei fatti ecc.; ed inoltre andrebbero ampliati i casi di nullità della sentenza con possibilità di rimessione al primo giudice, oggi estremamente ridotti e che spesso comportano la perdita per l'imputato di un grado di giudizio.
Pertanto, in sintesi, se l'imputato o il suo difensore ritengono che il processo di primo grado abbia bisogno di una rilettura da parte del giudice di appello, ovviamente sia per motivi di merito che di diritto, ciò può benissimo avvenire con il rito camerale a partecipazione facoltativa, ove anche il P.G. può assumere conclusioni scritte e non preclude la possibilità anche di definizione ai sensi dell'art. 599 c.p.p. o con patteggiamento allargato. Se invece l'imputato o il suo difensore ritengono che sia necessaria la parziale rinnovazione del dibattimento per assumere nuove prove o acquisire documenti o riassumere prove già acquisite in primo grado, richiederanno la pubblica udienza, che sarà tenuta dal giudice monocratico con il rito ordinario, ma l'imputato potrebbe vedersi anche mutata la qualificazione giuridica del fatto o semplicemente aggravata la pena.
Questa piccola riforma, a mio giudizio, non sarebbe in contrasto con alcuna norma costituzionale, e, oltre a riportare in parte ad unicità il sistema, alleggerirebbe di molto il carico delle Corti, considerato l'altissimo numero di reati a competenza monocratica, molti dei quali con prescrizione breve.
Voglio poi segnalare quelle che ritengo altre tre notevoli incongruenze del sistema che, oltre ad avere effetti negativi sulla ragionevole durata del processo, hanno anche effetti negativi sulle garanzie dell'imputato: la prima in tema di termini per l'appello, la seconda in ordine alle notificazioni ed infine circa la conversione dell'appello in ricorso per cassazione.
Il vecchio codice, separando nettamente la dichiarazione di impugnazione dai motivi, aveva una sua razionalità, condivisibile o meno, nel fissare termini diversi. Con il nuovo c.p.p., non essendo stata ripetuta tale netta distinzione, non ha alcun senso la cervellotica distinzione dei termini per l'impugnazione di cui all'art. 585 c.p.p. Sarebbe molto pi logico e funzionale per le parti e le cancellerie se si prevedesse un unico termine (ad es. 60 gg) decorrente dall'udienza (non importa se camerale o dibattimentale) per le parti presenti; dalla scadenza del termine fissato dal giudice per il deposito della motivazione ai sensi del 544 comma 3 c.p.p., indifferentemente se la sentenza è stata depositata prima del termine, sempre ovviamente per le parti presenti; dalla comunicazione per le parti assenti. La semplificazione dei termini eviterebbe agli avvocati l'umiliazione di recarsi costantemente in cancelleria per verificare l'avvenuto deposito o meno della sentenza; eviterebbe agli stessi di decadere dal termine, come purtroppo spesso accade, imporrebbe al giudice di rispettare scrupolosamente i 15 giorni per il deposito ovvero il maggior termine che si è fissato.
Strettamente connesso con il problema dei termini e quello delle notificazioni. A mio avviso trasuda di eccessiva ipocrisia tutta la normativa che impone la notificazione all'imputato nei casi in cui lo stesso è rappresentato dal difensore fiduciario.
E' di tutta evidenza - e l'esperienza ce lo insegna - che il difensore fiduciario dovrebbe rappresentare l'imputato nel modo pi ampio possibile nell'attività processuale, egli non dovrebbe avere necessità di essere munito di procura speciale, (per i riti alternativi o per il 599 c.p.p.) poich ciò dovrebbe riguardare esclusivamente i loro rapporti interni ed i canoni della deontologia professionale, con l'evidente conseguenza che la notificazione al difensore fiduciario dovrebbe essere ritenuta pi che sufficiente per tutelare i diritti dell'imputato, apparendo del tutto ridicola la doppia notificazione, con spese a carico dello Stato enormi, con allungamento dei processi inaccettabili, con dichiarazioni di irreperibilità molto meno garantistiche e ingiustificate compressioni del diritto di difesa da parte del difensore che, pur nell'interesse evidente dell'imputato, non può accedere a strategie defensionali pi opportune perch privo di apposita procura speciale.
Ovviamente su un piano completamente diverso va collocata la difesa d'ufficio.
Infine, non mi sembra condivisibile l'orientamento della Suprema Corte, ormai costante, in ordine alla conversione automatica dell'appello in ricorso per cassazione. Dovrebbe essere assegnato al giudice dell'impugnazione il potere di valutazione dell'atto al fine di decretarne la convertibilità. E' di quotidiana esperienza l'elevato numero di impugnazioni su sentenze inappellabili e per motivi esclusivamente di merito, effettuate al solo fine di procrastinarne il passaggio in giudicato (ad esempio su sentenze ex. 444 c.p.p. per le quali si lamenta solo l'eccessività della pena): che senso ha trasmettere alla Cassazione questa massa di carte inutili se non quello di premiare l'uso distorto della norma processuale?
Sottopongo a Voi con molta umiltà queste brevi riflessioni de iure condendo, forse non esaurientemente illustrate per mancanza di tempo, ma sono profondamente convinto che piccole riforme di tal genere, seppur modeste, siano oggi estremamente utili e funzionali all'amministrazione della giustizia e siano forse il massimo che ci si possa aspettare da un legislatore che, da un lato, dichiara di volere il giusto processo in tempi ragionevoli, dall'altro sembra optare sempre per scelte di senso opposto.


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