Correggendo le bozze del congresso di Genova mi aveva colpito la citazione di un proverbio indiano (dei pellerossa), secondo cui Manit ci ha dato una sola bocca e due orecchie. Se prendo la parola, rompendo il proposito di ascoltare solamente, è per dare conto del dibattito precongressuale che si è svolto nella sezione ligure e che, pur non coinvolgendo folle oceaniche, è stato ricco e partecipato, e ha visto la novità di un seminario “ad inviti” con contributi esterni di estremo interesse.
Esporrò questi contributi in termini di “glosse” alla relazione: non per un esercizio di "pierinismo" nei confronti del lavoro di Claudio CASTELLI, perch credo anch’io – com’è stato detto giustamente all’ultimo Consiglio Nazionale - che si tratti di un documento “corale” che riflette fedelmente lo stato dell’elaborazione complessiva di Md, ma perchè segnalare talune insufficienze di analisi o di prospettiva può contribuire a mettere a fuoco collettivamente la direzione di marcia della corrente.
In questo senso, nel settore civile, Guido ALPA ci contesta amichevolmente una cautela fin eccessiva rispetto ad a.d.r. ed arbitrato (naturalmente, non parla del settore del lavoro). Ci segnala la pericolosità che può derivare dalla prospettiva di un diritto civile regionale contenuta in certe versioni di devolution e infine ci fa notare che lo scarto di tutela tra la protezione comunitaria di certi settori, e la corrispondente normativa interna di recepimento, apre utili varchi per l’interprete che abbia cuore la protezione delle parti deboli.
Nel settore penale sostanziale in diversi, tra cui Paolo PISA, hanno ribadito la schizofrenia di un sistema orientato al rigore verso i soggetti sottoprotetti (vedi la legislazione sull’immigrazione), che lambisce i confini del carcere etico nelle pulsioni repressive contro la prostituzione. E ciò, a fronte del perdonismo peloso rispetto ai poteri forti, come dimostrano le sorti del diritto penale dell’ambiente. Sul versante processuale è forte l’esigenza che Md non si limiti ad un’elencazione di NO sulle riforme processuali, ma che cominciamo a chiarire al nostro interno che cosa vogliamo sul piano del rito e della pena : per questo è vivamente sentita un’esigenza seminariale portata direttamente sui modelli processuali.
A cavallo tra i temi processuali e quelli ordinamentali, sta la questione della magistratura onoraria, che soffre in questo momento una crisi di identità, di rappresentanza, di prospettive, e che si caratterizza per un assetto ordinamentale confuso ed un trattamento economico sperequato. Balza all’occhio, in particolare, la questione di come è stata concretamente attuata la competenza penale del Giudice di Pace, che nelle sue prime applicazioni non ha dato risultati soddisfacenti. Non stiamo a contestare l’idea dell’impiego della magistratura onoraria in questo settore, ma la concreta articolazione delle norme processuali, che determina appesantimento del lavoro delle procure e duplicazione dei procedimenti, per come sono congegnate le norme sulla connessione.
Su di un piano ordinamentale puro, la nota attenzione della sezione ligure su queste tematiche induce a sottolineare una certa carenza di analisi nella VII tesi sulla questione del ruolo dei semidirettivi, che non possono essere pi semplicemente designati come in passato, senza una giudizio prognostico sull’effettiva capacità di dare un senso compiuto all’attività dell’art. 47 quater dell’ordinamento giudiziario, che è affidata loro. Come emerge anche dai lavori degli Osservatori Distrettuali culminato nel convegno di Reggio Calabria, i presidenti di sezione sono il vero cardine della nostra organizzazione perchè non è pensabile che si creino o sopravvivano sacche di cialtroneria giudiziaria senza il loro concorrente apporto.
Saltando di palo in frasca, e passando adesso alle opinioni di cui assumo esclusiva e personale responsabilità, ritengo che la relazione introduttiva imposti in maniera molto convincente, nella V tesi, la questione della partecipazione del magistrato alla vita politica, ma che ci congedi sul pi bello nella successiva X tesi quando, evidenziata la problematicità attuale della partecipazione del magistrato alla vita politica (la politica-politica delle tessere e delle poltrone), non sembra fornire immediate indicazioni operative.
Credo che negli ultimi anni Md non abbia pi sviluppato le riflessioni che Nello ROSSI e Letizio MAGLIARO ci hanno consegnato all’inizio degli anni ’90 sul diverso significato della presenza del magistrato nella vita politica in una democrazia maggioritaria.
Questo nodo meriterebbe da solo un intero congresso, ero convinto che non fosse una priorità ma qualcuno nel mondo politico la pensa diversamente. I tempi congressuali mi costringono a riassumere il mio pensiero in una battuta. Aderire alla vita politica con incarichi di responsabilità è una scelta di vita dignitosa ed importante : però chi le fa deve, a mio avviso, accomodarsi fuori dalla magistratura.
Sentiamo rinverdire i fasti del termine “politicizzazione”, e tutti ricordiamo in quale contesto e per quale tipo di processi venne inventato il termine : si era all’epoca dei “pretori d’assalto” che scoprivano robuste ingerenze dei petrolieri sulla politica energetica del Paese. Adesso, questa categoria dello spirito viene rivitalizzata attaccandola come etichetta ad ogni magistrato che emetta un provvedimento sgradito.
E tuttavia sconcerta il silenzio assordante del mondo politico su un problema reale come quello della politicizzazione impropria, un silenzio che matura in un sistema normativo non coordinato, che consente di recuperare senza problemi al normale lavoro giudiziario i candidati "trombati" alle elezioni nazionali; che consente di sedere in Parlamento e poi rientrare nella stessa sede giudiziaria, come se nulla fosse accaduto nel quinquennio; che consente di svolgere le funzioni giudiziarie dove si è appena stati sindaci, o di fare il consigliere comunale o peggio l’assessore nella stessa sede di lavoro del magistrato.
Prima o poi, prendendo la parola su queste situazioni, dovremo fare qualche esercizio di coerenza, visto che occhi interessati cominciano a scrutarci ed a farci le bucce già dai rapporti di parentela negli uffici giudiziari, gi gi fino alle nostre frequentazioni pubbliche e private. E’ chiaro che abbastanza presto verrà al pettine il nodo di queste ben pi pruriginose situazioni.
Ultimo capitolo. Dopo la lettura dell’articolo di Francesco BONAZZI sull’Espresso del 16 gennaio (“Anno nuovo, vecchi trucchi”), che contiene la lucida scaletta di quanto ci aspetta nel prossimo semestre di passione, sono veramente preoccupato per le sorti della via italiana al giudiziario, quale l’abbiamo conosciuta nell’ultimo quarantennio.
A me sembra venuto il momento di prendere una netta posizione contro il Ministro della Giustizia e la sua politica di disimpegno, prima ancora che per le iniziative disciplinari a mezzo stampa. Commentando le dichiarazioni rese dall’ing. CASTELLI al CSM nella seduta prenatalizia, mi stupisco che nel nostro Paese la sostanziale ammissione di una deliberata e studiata ineffettività del servizio giustizia, la confessione di un coerente disegno di strangolamento della giurisdizione, sia passata sotto silenzio.
Si tratta quindi di comprendere le ragioni di questa apatia e di tentare di riannodare con il modo forense, con l’università, con le rappresentanze del personale amministrativo, i fili di un’alleanza per le riforme del servizio giustizia, che già in passato si tentò e che condusse ad una prima forte mobilitazione nazionale a cavallo dell’entrata in vigore del c.p.p.
Da questo punto di vista abbiamo già perso un treno, o meglio un Intercity, quando non abbiamo raccolto il segnale costituito dallo sciopero del 13 novembre scorso, indetto da otto sigle sindacali, praticamente tutte le rappresentanze del personale giudiziario.
Con tali organizzazioni e con gli altri operatori del giudiziario noi dobbiamo, attraverso l’Associazione, arrivare ad un’alleanza articolata e presente distretto per distretto, che abbia inizialmente pochi ma chiari obiettivi: 1) l’immediata copertura dei vuoti di organico del personale di magistratura, onoraria e togata, e del personale amministrativo; 2) la qualificazione professionale del personale amministrativo anche in vista della costituzione dell’ufficio del giudice, che non deve essere concepito come “il feudo del magistrato”, ma come l’indispensabile struttura di supporto e verifica della quotidiana attività giudiziaria anche per il monitoraggio successivo sul lavoro giudiziario. Chi, come me, lavora nel settore civile ed ha magari avuto piccoli assaggi di “ufficio del giudice” disponendo, come magistrato penale, di un adeguato staff di supporto, sa bene cosa vuol dire essere affrancati dal riordino dei fascicoli, dalla tenuta del ruolo, e cosa vuol dire - anche rispetto alla conoscibilità all’esterno del nostro lavoro quotidiano - poter contare su un sistema di statistiche che misuri la qualità del servizio fornito.
L’esperienza degli Osservatori sulla giustizia civile dimostra che è possibile trovare momenti di convergenza con l’avvocatura civile, con la quale dobbiamo impegnarci per un esame congiunto del progetto VACCARELLA, diretto in primo luogo a mettere in evidenza l’inaccettabilità della sua filosofia darwiniana di gestione della fase istruttoria, perch anche le modalità di assunzione delle prove sono una garanzia per tutti, e a maggior ragione per le parti deboli.
Da questo confronto devono nascere le risposte e le proposte per introdurre margini di flessibilità di certi meccanismi acquisitivi di prove, o rafforzativi di provvedimenti cautelari o sommari, o introduttivi di sedi di tutela alternative utilmente percorribili: non allo scopo di “scaricarci del lavoro”, ma per trovare luoghi alternativi ma effettivi di tutela, per risolvere definitivamente ed in modo accettabile i conflitti privati, cumulando competenza ed imparzialità.
Dobbiamo convincere gli avvocati civilisti, in primo luogo, dell’esigenza di ridurre i carichi individuali di lavoro dei giudici entro i limiti che Carlo VERARDI e Giuliana CIVININI ci hanno indicato nel convegno dell’Elba di alcuni anni fa come precondizione per un processo realmente civile : spiegando quindi che una riforma del rito che non operi sulle strutture e sui luoghi di risoluzione del controversie, non risolve i problemi presenti.
Questo è il limite fondamentale del progetto VACCARELLA, che ancora imputa al rito – e non al carico di lavoro - la lunghezza del processo.
Certo pi problematico è l’approccio colloquiale con l’avvocatura penale, però anche qui mi sembra strano che qualcuno possa opporsi alla copertura dell’organico dei magistrati e del personale amministrativo e, almeno a parole, che non si schieri per il potenziamento delle strutture : tanto pi che da ultimo le Camere Penali non sono state particolarmente tenere con il Ministro (anche se per altre ragioni).
Morale : ci attendono sei mesi che non definirei in salita, ma che rappresentano un vero e proprio "sesto grado" per il giudiziario. La nostra possibilità di incidere sulla camicia di Nesso, che scopertamente ci vogliono cucire addosso, dipenderà unicamente dalla nostra capacità di saper partecipare, senza tentazioni egemoniche, ad organizzazioni locali di operatori del giudiziario unite dal minimo comun denominatore della "lotta per il diritto", che in questo momento significa lotta per ottenere i mezzi per esercitare la giurisdizione in condizioni di decenza minima.
Il nostro obiettivo dev’essere quello di far diventare “senso comune” l’idea che non sia l’indipendenza dei magistrati a minare la funzionalità del servizio giustizia, ma che sono l’assenza di idee e l’inaridimento delle risorse, a costituire la “madre di tutte le inefficienze”.
Ce la faremo? A volte chiudo gli occhi e vorrei che la buriana fosse già passata. Ma non è possibile : siamo qui, adesso, con questo quadro politico istituzionale e con questa sfida mortale alla nostra indipendenza. In questi momenti di sconcerto mi piace ricordare la frase con cui Elena PACIOTTI, un esempio virtuoso anche per quanto attiene la coerenza tra le scelte di impegno politico e l’attività giudiziaria, chiudeva il suo libretto pubblicato qualche anno fa sui magistrati italiani: non occorre sperare per intraprendere, e non occorre riuscire per perseverare.
Però l’attività intrapresa dalla Giunta dell’Anm negli ultimi tempi e la buona prova di resistenza data con lo sciopero del 20 giugno ci consentono di sperare un pochino ed essere un po’ meno pessimisti. L’esperienza locale di tanti comitati di giuristi variamente costituiti nelle città italiane sta a dimostrarci che non tutto il lavoro fatto nelle sezioni locali è da buttare, e che si possono attivare con qualche profitto le sedi di confronto interprofessionale, a cui ci invita l’ultimo deliberato del Cdc dell’Associazione.