- Osservando gli interventi della maggioranza di governo nell’anno trascorso, sia nel campo normativo, sia nell’ambito della giustizia, anche attraverso comportamenti, propositi, dichiarazioni di intenti, ecc., è facile cadere nella trappola del convincimento che si tratti solo del perseguimento di interessi particolari. E’ vero che la regola del cui prodest fornisce indicazioni preziose per buona parte delle leggi che sono state approvate ed anche per non pochi dei comportamenti. Ma un’impostazione del genere, pur coincidendo spesso con la realtà, finisce per essere riduttiva. C’è qualcosa di pi e di peggio, in sostanza; ed anche questo è, alla lunga, abbastanza facilmente percepibile, anche se in molti casi solo per gli addetti ai lavori.
Dall’insieme degli interventi si ricava un’insofferenza per le regole, una volontà di alleggerire oneri e pesi ritenuti superflui o intralcianti; è qualcosa di pi complesso, nell’ambito sociale, del liberismo pur sfrenato o dell’antica rivendicazione di alcuni di essere liberati da “lacci e lacciuoli”; mentre, nell’ambito civile, politico, istituzionale, appare chiara una scelta di campo che va molto al di là non solo dei principi costituzionali, ma addirittura delle pi elementari regole del giuoco, dei pi ovvi fondamenti della convivenza civile. In tutta la normativa penalistica si avverte con nettezza una propensione per un diritto penale “mite”, ma a senso unico; perch la mitezza riguarda solo i reati dei colletti bianchi o dei politici, i delitti dei “cavalieri”, come li definisce la dottrina tedesca, mentre resta forte l’idea del controllo sociale, della tolleranza zero, della durezza nei confronti dei soggetti marginali. Linea di tendenza confermata poi dall’insofferenza verso la giustizia, verso i magistrati, verso l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, dalla concezione della difesa non nel processo ma dal processo, dalla predilezione sempre pi scoperta per la prescrizione; a cui si accompagnano fenomeni significativi, come il doppio ruolo degli avvocati dei potenti che fanno poi in Parlamento – come deputati o senatori – le leggi che vanno nella duplice direzione accennata (favorire alcuni imputati eccellenti e rifiutare l’osservanza delle regole).
Non aggiungerò altro, ma mi limiterò a ricordare che in questo quadro si inseriscono anche le ben note vicende dell’Olaf e di Eurojust, la mozione del 5 dicembre 2001 del Senato, i programmi e le dichiarazioni di intenti per le riforme della giustizia da attuare nel 2003.
E’ tutto un quadro da tenere fortemente e continuamente sotto osservazione ed al quale occorre essere pronti a reagire, anche con gli strumenti dell’informazione, perch un’altra delle caratteristiche salienti del momento è che non c’è mai nulla di sicuro: un proposito manifestato in via teorica ed astratta può trasformarsi sia in un disegno di legge da approvare subito e per di pi blindato, sia in un emendamento inserito all’ultimo momento ed altrettanto rapidamente approvato in una legge qualsiasi; si possono realizzare - senza alcun apparente raziocinio – priorità assolute, come è accaduto per la legge Cirami, che ha avuto la precedenza su tutto; si può verificare in caso di progetti – come quello contenente disposizioni in materia fallimentare (A.C. 2342, Cola ed altri) che presentato silenziosamente e rimasto fermo per alcuni mesi, d’improvviso ha ripreso quota ed è divenuto di attualità. -
Non ricorderò, in questo contesto, le leggi del primo periodo, di cui si è tanto parlato, che ormai sono tutte note e di cui caratteri sono entrati se non nella communis opinio quanto meno nella conoscenza di diffusi strati di cittadini. Mi limiterò a rilevare che all’elenco pi conosciuto, che comprende le leggi sulle rogatorie, sul falso in bilancio, sul legittimo sospetto, sul rientro dei capitali dall’estero ed altri, va aggiunta, anche se per ora meno nota, la riforma del diritto penale societario, realizzata col decreto legislativo 11.4.2002 n. 61, che contiene in s tutti gli indici rivelatori delle indicate linee di tendenza: dal generale abbassamento delle cornici editali fino alla trasformazione di delitti in contravvenzione ed al frequente abbassamento dei termini prescrizionali. E’ stato puntualmente rilevato da Domenico Pulitanò, sulla Rivista italiana di diritto e procedura penale, che la riforma non si cura affatto della “qualità morale insita nel comportamento negli affari” e che in questo modo il diritto penale societario diventa il nucleo di un’isola privilegiata per i delitti dei “colletti bianchi”, con un ulteriore scardinamento del principio di uguaglianza, oltre che di quello di responsabilità.
Preferisco osservare ciò che pende in Parlamento e i programmi a cui autorevoli rappresentanti della maggioranza fanno esplicito riferimento per una sollecita attuazione nell’anno corrente. Si tratta, sia ben chiaro, di una semplificazione che cerca di cogliere i tratti pi salienti di una linea ben definita, anche se non ha alcuna pretesa di essere esaustiva.
Anzitutto, pende ancora in Parlamento il progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario (A.S. 1296), del quale si è parlato molto, i cui tratti essenziali sono noti e che nonostante qualche aggiustamento realizzato durante l’iter parlamentare, continua a manifestare un disegno rivolto al passato, una concezione piramidale della magistratura, un vulnus evidente ai principi di indipendenza e di autonomia. Nelle ultime sedute della Commissione giustizia del Senato nell’ottobre scorso, dalle parole del relatore e del Ministro sono emersi alcuni riconoscimenti della bontà di alcune argomentazioni addotte dalla magistratura associata e dai giuristi, alcuni buoni propositi, ma anche alcuni pervicaci arroccamenti su aspetti di estrema gravità e pericolosità; non c’è assolutamente da stare tranquilli, anche perch l’insistenza dei “falchi” della maggioranza e di una parte dell’avvocatura sulla separazione delle carriere ed altri temi analoghi può far ritenere possibile l’introduzione di modifiche essenziali, anche all’ultima ora, magari in aula o addirittura in seconda lettura.
Su piano dei princìpi, suscita attenzione e preoccupazione il complesso di progetti di riforma dell’art. 68 della Costituzione (A.C. 185 ed altri collegati), per il quale si è pervenuti nella seduta del 19 dicembre alla presentazione di un testo unificato, nel quale sono già presenti elementi fortemente preoccupanti, ma che lascia comunque aperta la strada ad interventi pi pregnanti, sia in tema di insindacabilità, che in tema di quella autorizzazione a procedere che, in varie forme, molti vorrebbero reintrodurre, dimenticando che è stata cancellata nel 1993 a furore di popolo e per mille giustissimi motivi. Anche in questo caso non è difficile evocare lo spettro del privilegio, dell’immunità per i politici, della clamorosa violazione del principio di uguaglianza, oltre alla volontà di contenere il pi possibile le funzioni di controllo della magistratura ordinaria e perfino della Corte Costituzionale.
Alla Camera, è in stato avanzato di elaborazione il progetto (o meglio il complesso di progetti) di riforma dei reati di diffamazione a mezzo stampa (A.C. 26,385,1177, ecc.). C’è un testo unificato del relatore, che contiene già in se elementi di forte preoccupazione, quali la nuova disciplina delle cause di non punibilità, la riduzione del termine di prescrizione ad un anno, l’applicabilità anche ai processi in corso; il dibattito che si è svolto nell’ultima seduta in Commissione, nel dicembre scorso, fa desumere che la tentazione della totale depenalizzazione sia ancora assai forte ed attuale, con assoluto ed evidente dispregio dei diritti delle vittime, anch’essi costituzionalmente tutelati nell’ambito dei diritti della personalità. Sono state condotte, in questo periodo, vere e proprie campagne in difesa di giornalisti condannati non per un articolo ma per sequele di attacchi a magistrati impegnati, nell’ambito di una vera e propria campagna di delegittimazione, così come si è gridato allo scandalo quando sono stati incriminati politici e parlamentari o quando la Corte Costituzionale non ha ritenuta corretta l’applicazione dell’insindacabilità a riguardo di dichiarazioni diffamatorie anche assai gravi rese dal di fuori della funzione parlamentare. Eppure non dovrebbe essere difficile comprendere che l’abuso è di chi utilizza in modo strumentale ed abnorme le grandi potenzialità dei mezzi di comunicazione di massa e che esso va – nella giusta misura e con strumenti idonei, celeri ed equi – represso proprio a tutela di fondamentali diritti personali; un abuso che è di pochi e contro il quale dovrebbero reagire per primi quei politici e quei giornalisti che sono sicuramente la maggioranza, che a questi sistemi non hanno mai fatto ricorso e che anzi li considerano estranei ad una vera concezione della politica e della professione.
Ma ancora: sul piano sostanziale pende alla Camera (A.C. 2342, Cola ed altri) un progetto largamente condiviso nell’ambito della maggioranza per la modifica di disposizioni penali in materia fallimentare; Progetto rimasto fermo per mesi, ma poi ripartito nell’ottobre scorso. Anch’esso è altamente significativo perch la bancarotta è ridotta ad un reato quasi bagatellare, le pene sono fortemente diminuite, fattispecie delittuose vengono declassate a tipologie contravvenzionali con la conseguenza pi ovvia che la prescrizione diventa assai breve per tutte le ipotesi; tutto ciò in totale assenza di qualsiasi considerazione dei diritti dei truffati, dei piccoli risparmiatori, degli azionisti di minor peso, delle vittime in genere.
N va dimenticato, per concludere questa rapidissima rassegna il progetto Anedda (A. C. 1225 ed altri), ora noto, dopo la redazione di un Testo unificato - come progetto Anedda - Pittelli, del quale si è tanto parlato e sul quale è inutile soffermarsi sui dettagli, anche se in esso sono presenti tutte le concezioni di cui abbiamo parlato, sul piano sostanziale, processuale e ordinamentale. Anche nel testo del relatore, che pure ha cercato di espungere almeno alcune delle proposte pi gravi ed assurde del progetto originario, è ben presente quel quadro di rifiuto delle regole, di concezione del processo come corsa ad ostacoli verso non tanto la conclusione quanto la prescrizione, di contraddittorietà rispetto al principio di ragionevole durata del processo e soprattutto di sfiducia e disprezzo nei confronti dei magistrati e della loro autonomia, indipendenza e imparzialità, i cui tratti sono stati qui delineati. Si tratta di un progetto che è stato fermato a fine luglio solo per dare la precedenza alla Cirami, ma che riprenderà il suo iter e che tutti i commentatori concordano nel ritenere che se verrà approvato rappresenterà una vera e propria distruzione del processo penale ed un attacco delegittimante, senza precedenti, all’autonomia e indipendenza della magistratura e alla sua stessa credibilità. -
Sembra inutile continuare nella esemplificazione. Occorrerà ricordare, però, che se anche non tutto è stato tradotto in formali progetti di legge, i progetti della maggioranza, ripetutamente dichiarati e ribaditi, comprendono: la separazione delle carriere, struttura unitaria dell’ufficio del P.M., l’attribuzione al Parlamento (e dunque alla maggioranza) del compito di stabilire le priorità dell’esercizio dell’azione penale, l’assegnazione del ruolo principale di investigazione alle forze dell’ordine, riservando al magistrato solo il controllo di legittimità e così via.
Nello stesso tempo, è di comune constatazione il fatto che nessun serio provvedimento è stato adottato per snellire e accelerare il corso dei processi civili e penali, che i concorsi per l’assunzione di nuovi magistrati sono in forte ritardo, che dell’ufficio del giudice non si parla neppure pi, ed la tutela delle vittime è praticamente assente da ogni proposta ed iniziativa di governo, che gli stanziamenti per la giustizia, così come quelli per le carceri sono assolutamente inadeguati, che persino un parziale e modesto progetto di riforma di alcuni aspetti del processo civile (A.C. 2229 ed altri), partito con un certo vigore oltre un anno fa, è arrivato solo ora ad un Testo unificato, destinato certamente ad un ulteriore iter tutt’altro che breve ed esauriente. Sembra del tutto dimenticato il principio secondo cui l’inefficienza della giustizia è un disvalore di per s, ma diventa ancora pi grave quando si risolve inesorabilmente in iniquità e disuguaglianza. - Indicazioni non diverse si possono trarre guardando agli altri settori di interesse pubblico, quali la scuola, la sanità, il lavoro. Ma è su quest’ultimo che intendo soffermarmi un momento, per sottolineare le analogie con quanto si è fin qui detto ed evidenziare che la tendenza complessiva è assai pi diffusa di quanto, spesso si riesca a percepire.
L’atto fondamento, in materia di lavoro, è rappresentato dalla legge delega per la riforma del mercato del lavoro (A.S. 848, ora 848/b). Qui siamo ormai alla fine di un iter complesso che ha visto l’approvazione del Senato, l’approvazione da parte della Camera con modifiche ed ora il ritorno al Senato per l’approvazione definitiva entro breve tempo (il testo, è stato detto, è “blindato” e dunque siamo ormai alle ultime battute). Nel corso dell’iter parlamentare, alcune parti hanno formato oggetto di stralcio e si è formato così l’A.S. 848-bis, che è tuttora pendente, ma si dice che riprenderà presto il cammino: si tratta di norme sugli incentivi, gli ammortizzatori sociali (per i quali peraltro sembra che ormai difetti il finanziamento), sull’articolo 18 dello statuto, sull’arbitrato. La parte relativa a quest’ultimo è particolarmente significativa perch “al fine di ridurre il contenzioso”, rappresenta veramente una fuga dalla giustizia, fornendo la soluzione dell’arbitrato di equità, col superamento del divieto di compromettibilità in arbitri delle controversie sui diritti inderogabili, con la previsione dell’impugnabilità del lodo solo per vizi di procedimento, ecc…
Si tratta di una vera e propria destrutturazione dell’intero sistema del diritto del lavoro. Al tradizionale presupposto della disuguaglianza economica fra le parti si sostituisce il principio della parità delle parti e della prevalenza su tutto della volontà individuale; si liberalizzano le strutture del lavoro temporaneo, eliminando anche la clausola di esclusività dello scopo; si prevede l’abrogazione della legge 23.10.1960 n. 1260; si introduce la “somministrazione” di mano d’opera, si modifica – in peggio – la riforma dell’articolo 2112 c.c. e la nuova disciplina del lavoro a tempo parziale; si introducono tipologie di lavoro, a chiamata. temporaneo, occasionale, tutte contrassegnate dalla precarietà e dall’assenza di vere regole; si modifica la recentissima legge sul socio- lavoratore di cooperative; si introduce la “certificazione” dei rapporti, rendendola il pi possibile vincolante anche per il giudice; si attribuisce un nuovo e diverso ruolo ai sindacati, attraverso lo strumento degli enti bilaterali, a cui si affidano compiti di rilievo, anche in relazione al collocamento, alla certificazione e perfino al possibile superamento della regola, finora ferrea, consacrata nell’articolo 2113 c.c.
Se a tutto questo si aggiunge la disciplina dell’arbitrato nel senso di cui si è detto, si vedrà agevolmente come la tendenza al rifiuto delle regole, alla liberalizzazione selvaggia, alla forte contrazione dei compiti di controllo riservati al magistrato, si presenti, anche in questo campo, con gli stessi connotati sopra le scritte.
Lo stesso va detto per ciò che attiene all’unico intervento previsto in tema di sicurezza del lavoro, quello relativo alla delega per un testo unico di riordino della materia (A.S. 776, A.S.776/b, dopo il ritorno dalla Camera, che ha approvato con modifiche). In realtà, il testo – che supera, a mio avviso, i limiti di costituzionalità, per la generalità e l’incertezza assoluta dei criteri direttivi della delega su molti punti – si caratterizza solo per la chiarezza nell’indicare gli obiettivi di semplificazione, eliminazione di oneri eccessi, revisione del sistema sanzonatorio con chiara tendenza verso la depenalizzazione anche di fattispecie tutt’altro che irrilevanti.
Nessuna meraviglia, peraltro, alla luce delle considerazioni di carattere generale già formulate. Semmai, lo stupore è suscitato dal relativo silenzio con cui l’iter di approvazione della legge delega è stato accompagnato (e questo vale, per gran parte, anche per quanto riguarda il provvedimento in gestazione per la sicurezza del lavoro). Certo, l’opposizione ha votato contro, ha presentato emendamenti costantemente respinti; ma non è apparso alcuno sforzo per trasferire la battaglia sul piano culturale e politico generale, per far conoscere al Paese quanto stava accadendo nel campo del lavoro. Insomma, ciò che è avvenuto a riguardo alla legge Cirami, comprese le manifestazioni fuori del Senato mentre dentro era in corso la battaglia parlamentare dell’opposizione, iniziative in tutte Italia e così via, non è avvenuto a proposito del lavoro, che pure rappresenta un valore fondamentale; e una volta o l’altra bisognerà chiedersi il perch di tutto questo. -
Se il quadro complessivo è quello che si è cercato di delineare, è logico, giusto e doveroso, che i magistrati, come singoli, e come organismi associativi, tacciano come vorrebbe sostanzialmente la maggioranza, secondo la quale il compito dei magistrati è solo di applicare la legge, senza intervenire sui processi di formazione e senza permettersi di criticarla o sollevare questioni?
La risposta non può che essere negativa, sia per ciò che attiene al problema di funzionamento della giustizia, dell’ordinamento giudiziario e del processo, sia per quanto riguarda le questioni attinenti alle pi rilevanti disposizioni normative che poi i magistrati saranno chiamati ad applicare. Sul primo aspetto non dovrebbero esserci dubbi per nessuno, tanto l’interesse ad intervenire (addirittura il dovere di intervenire) è evidente da parte di chi è chiamato ad esercitare il controllo di legalità, per il quale deve disporre di tutti gli strumenti necessari, nel quadro della piena indipendenza e autonomia. N vale richiamarsi, come taluni fanno, a un presunto interesse corporativo, perch in realtà le cose stanno ben diversamente, almeno per chi è convinto, per dirla con le parole del Procuratore Generale Favara, che “l’autonomia e l’indipendenza della magistratura non costituiscono un privilegio dei magistrati, ma una garanzia per i rispetto della legalità” (è addirittura un segno dei tempi il fatto che una frase come questa, che dovrebbe appartenere al dominio delle cose ovvie, sia stata annotata e chiosata ripetutamente dalla stampa e da alcuni come se fosse addirittura una novità). Difendendo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, così come la linearità e la rapidità del processo, nel quadro del principio di uguaglianza e nel rispetto dei principi costituzionali, si difende – in realtà – il diritto dei cittadini a disporre di un vero, efficiente e giusto servizio giustizia. In questo senso, ogni intervento è non solo lecito, ma addirittura doveroso.
Ma questo vale anche per il secondo aspetto: pretendere che si taccia di fronte a leggi che modificano il sistema penale sostanziale o intervengono pesantemente sul processo, in termini di dubbia costituzionalità o di diniego del principio di uguaglianza, significa semplicemente aspirare ad una figura di magistrato astratto, silenzioso, distaccato da tutto quanto gli accade intorno e intento solo a sciogliere – in termini puramente tecnico-giuridici – i casi che gli vengono sottoposti. Questo non è, ovviamente, pensabile; ed anzi, la società ha bisogno di magistrati che conoscano i problemi dei cittadini, che siano interessati ai processi di trasformazione e di riforma, che non rinuncino ai diritti costituzionali che spettano a chiunque.
Certo, resta forte e imprescindibile il principio di imparzialità, non scritto esplicitamente nella Carta costituzionale, ma manifestamente deducibile dal sistema e soprattutto dagli articoli 101 e 104 della Costituzione. Ma l’imparzialità, che è una garanzia fondamentale per i cittadini, non è un principio astratto e teorico e vale soprattutto per le attività funzionali, tipiche del magistrato, per le quali l’ossequio alla legge e il distacco totale rispetto a qualunque tipo di pregiudiziale sono imprescindibili. Ma occorre avere ben chiaro il rapporto tra indipendenza ed autonomia da un lato ed imparzialità dall’altro. E’ stato rilevato (Bonifacio, nel Commento all’art. 104, nel Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca) che il rapporto tra indipendenza (autonomia) e soggezione del giudice alla legge si qualifica e definisce proprio in funzione dell’imparzialità; e dunque “l’indipendenza si pone come strumentale rispetto all’imparzialità e questa come conseguenza, in termini funzionali della soggezione soltanto alla legge). Ed è qui che appare evidente il paradosso che stiamo vivendo: proprio chi predispone leggi che minano l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, sottolinea poi l’esigenza di imparzialità e spesso ne lamenta in concreto la carenza. A riprova del fatto che le affermazioni di carattere generale non costano nulla, ma poi occorre sempre vedere come si traducono nella pratica.
D’altronde, su questi temi, resta ancora fondamentale la sentenza n. 100 dell’8 giugno 1981 della Corte Costituzionale, che ribadiva con nettezza che “i magistrati godono degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino e quindi anche della manifestazione del pensiero” pur nei limiti che derivano dalla natura delle funzioni esercitate; da ciò il necessario bilanciamento fra princìpi costituzionalmente protetti e garantiti. In altre parole, è solo l’abuso di tali diritti che può essere ritenuto meritevole di censura (può essere utile fare un esempio dedotto dalla giurisprudenza recente, in cui l’abuso è stato ritenuto in un caso in cui il magistrato, in dichiarazioni alla stampa, aveva anticipato il proprio giudizio in ordine ad un procedimento sul quale era chiamato a giudicare: S.U. 26 ottobre 1998 n.10618).
Assai spesso, si fa ricorso – però – alla regola dell’apparenza, per sostenere che il magistrato deve non solo essere imparziale, ma apparire tale. Su questo bisogna intendersi ed essere chiari. Se è vero che il magistrato deve anche guadagnarsi sul campo la considerazione di imparzialità e di prestigio, è altrettanto vero che non può bastare la proposizione di una idea o di una critica per consentire il sospetto. I comportamenti che possono mettere a repentaglio l’affidamento dei cittadini sull’imparzialità dei giudici devono essere oggettivamente fondati su qualcosa di concreto e tangibile e non semplicemente sulla manifestazione di idee. La riprova è costituita dalle applicazioni pratiche, effettuate in sede di giudizio di legittimità e di giudizio disciplinare, riscontrabili nella giurisprudenza dell’ultimo cinquantennio: le S.U. civili (29.7.1987 n.6562) hanno applicato la regola al caso di un magistrato che aveva affidato incarichi peritali ad un congiunto; tutti gli altri casi solitamente richiamati per sostenere il principio al di là di ogni altro ragionevole limite, riguardano ipotesi di magistrati pacificamente aderenti alla massoneria; ed anche in questa ipotesi si è sempre precisato che non era tanto il sospetto che contava quanto il fatto che con l’immagine di organo assolutamente imparziale e indipendente sono incompatibili la segretezza, la solidarietà con gli altri “fratelli”, gli obiettivi perseguiti dalla massoneria, l’adesione ad un sodalizio che impone un giuramento che indebolisce il giuramento di fedeltà allo Stato (in questo senso: S.U. civili 14.5.1998; idem. 9.10.1997; idem 20.12.1996; tutte confermative, nella sostanza, di analoghi principi recepiti in decisioni della sezione disciplinare del CSM).
Questo non significa che alcune regole di comportamento non scritte non siano comunque altamente opportune e raccomandabili: e fra queste vanno ricordate l’opportunità di evitare l’eccessivo ricorso ad esternazioni, anche in forme aspre, le prese di posizioni decisamente conflittuali con altri poteri dello Stato, la scelta oculata dei tempi e dei metodi per manifestare le proprie opinioni e così via. Ma questo pi che da regole codificate dipende dalla cultura e dalla professionalità del magistrato; qualità che vanno sostenute, corroborate e potenziate attraverso la formazione e l’aggiornamento (che sono componenti essenziali, come la cultura della giurisdizione e della legalità, della professionalità).
Ritengo del tutto inutile soffermarsi, a questo punto, sul diritto degli organismi associativi ad intervenire e manifestare le proprie opinioni, così come del resto hanno sempre fatto in questi anni; e certo non sarebbe male se il legislatore li ascoltasse un po’ pi di frequente e con maggiore attenzione. Fuori discussione mi sembra, infine, su questo terreno, l’ampiezza del ruolo del CSM, la sua piena facoltà di esprimersi su questioni generali, sia pure evitando ogni conflitto con altri organi o poteri dello Stato, e il suo pieno diritto di esprimere pareri su provvedimenti legislativi in gestazione, indipendentemente da ogni richiesta da parte del Ministro o da altri organi dello Stato. Considerazioni sulle quali non ritengo opportuno attardarmi in questa sede, posto che tutto ciò che ho detto in questo paragrafo appartiene non solo alla storia di MD, ma addirittura al suo DNA, confermato da mille atteggiamenti e comportamenti e ribadito in termini assai puntuali nella relazione del segretario Castelli. -
Peraltro, la gravità e la pericolosità del quadro che inizialmente si è cercato di descrivere, impone qualche ulteriore riflessione.
I singoli magistrati, Md, l’intera magistratura associata possono bene esprimere le proprie posizioni sulle riforme già attuate, su quelle in gestazione e su quelle promesse o minacciate. Ma questo non può bastare, anche perch le voci isolate corrono sempre il rischio di essere interpretate dal comune cittadino come voci ispirate ad interessi particolari. D’altronde, oltre all’esigenza di una impostazione corretta dei vari problemi e delle varie iniziative che di volta in volta si prospettano, c’è anche quella di una completa ed efficace informazione, peraltro non sempre agevole, trattandosi di tematiche tradizionalmente riservate agli addetti ai lavori e non sempre percepibili con chiarezza neppure per loro, in tutti i loro possibili risvolti. Sotto questo profilo, le difficoltà sono enormi, da un lato per la nota situazione dei mezzi di comunicazione di massa, nell’ambito della quale è spesso assai difficile riuscire a far filtrare la verità o comunque a consentire un’informazione davvero completa, reale ed accessibile, dall’altro perch – bisogna riconoscerlo – c’è stata e forse c’è ancora, almeno in una parte dell’opinione pubblica, una sorta di indifferenza o di rassegnazione, che talora rasenta l’anestesia morale, che la rende inaccessibile a qualunque richiamo. Se così non fosse, la vicenda della legge Cirami, che pure ha sensibilizzato buona parte dell’opinione pubblica e si è tradotta in manifestazioni e iniziative di ampio respiro, avrebbe dovuto ispirare un senso di rivolta e di ribellione ben pi generalizzato, che andasse al di là degli orizzonti dei settori pi attenti non solo della sinistra ma anche dei sinceri democratici. L’idea che si faccia una legge ad hoc., con grandissima urgenza e con priorità su tutto, per battere sul tempo la Corte Costituzionale già investita dalla questione, è di quelle che dovrebbero far raccapricciare qualunque cittadino, anche il pi centrista e ben pensante. Tuttavia, neppure in questo caso c’è stato un vero e diffuso moto di rivolta. Anche questo, dobbiamo riconoscerlo, rappresenta un problema.
La questione fondamentale, dunque, è quella di trovare collegamenti, di raccordarsi con altre voci, di riuscire ad abbattere – non da soli – il muro di indifferenza, di silenzio e di disinformazione. Questo richiede, come giustamente si osserva nella relazione, un grande lavoro di elaborazione culturale, di informazione, di circolazione e scambio di idee all’interno della magistratura; un lavoro che, partendo appunto dall’interno, deve riuscire ad aprirsi “ad un serrato confronto (sono parole della relazione che pienamente condivido) con i settori esterni all’ordine giudiziario”. La parola “confronto” è esatta perch bisogna resistere alla tentazione del raccordo con i settori pi sensibili, come spesso – bisogna riconoscerlo - è avvenuto in questi anni; questo è sicuramente necessario ma non basta, anche perch la logica delle appartenenze può costituire un baluardo insormontabile per riuscire poi a colloquiare o a confrontarsi con gli altri.
Ecco allora l’indispensabilità del dialogo e del confronto con gli avvocati e con la cultura giuridica.
Con i primi, l’impresa è sicuramente difficile, perch in molti casi ci sono posizioni diametralmente opposte (basti pensare allo sciopero proclamato dalle Camere penali in contrapposizione a quello indetto dalla Anm), come si è visto anche nei commenti al discorso del P.G. della Cassazione.
Ma non bisogna dimenticare che non tutti gli avvocati sono legati a interessi di potentati economici o politici e solo pochi sono quelli che hanno la possibilità di esercitare la doppia funzione di avvocato e parlamentare: in realtà, anche fra gli avvocati vi sono fermenti e reazioni positive, che non sempre riescono a esprimersi e coordinarsi, e quando lo fanno raramente riescono a farsi sentire ed infrangere il muro del silenzio. Ricordo che su un’iniziativa molto artigianale, lo scorso anno, raccogliemmo in pochissimi giorni e soprattutto attraverso la posta elettronica, 430 firme, inviammo il documento con le firme a tutti i giornali, ma solo due ne dettero notizia, uno in modo assai sintetico e l’altro almeno riportando l’intero documento ed alcune firme. Ci furono avvocati, poi, di Rovereto, Trento e Padova che provvidero a proprie spese alla pubblicazione su giornali locali del documento e delle firme. Ma non ci fu altro seguito. E quando scattò un’altra raccolta di firme, per protesta contro la richiesta di avere da MD l’elenco degli iscritti, dell’iniziativa non parlò nessuno. Non sono mancate altre iniziative di vario genere, ma con scarsi raccordi fra loro e con pochissimi raccordi con gli organismi associativi della magistratura e con la stessa MD.
C’è dunque un terreno potenzialmente favorevole, ma difficile da percorrere, non solo per le ovvie resistenze degli organismi ufficiali dell’avvocatura, ma anche per intrinseche difficoltà. Eppure, bisognerà superare gli ostacoli e trovare momenti di raccordo con chi già condivide certe posizioni e di confronto con chi è disposto almeno a discutere ed a compiere una riflessione approfondita. Ciò al fine anche di rendere evidente che vi sono moltissimi interessi comuni almeno per la difesa della legalità e per il rispetto di elementari regole di correttezza. In realtà, se non sempre sui progetti di legge, quanto meno sui comportamenti, c’è un terreno fatto di perplessità e di contrarietà, che è pi esteso di quanto si pensi: insomma, l’utilizzo del ruolo di parlamentare per sostenere in Parlamento e nei processi l’interesse dei propri clienti altolocati, l’arroganza di chi arriva, in dibattimento, a minacciare ai giudici la richiesta di intervento del Ministro, l’assunzione della difesa di camorristi o mafiosi che invocano l’applicazione della legge Cirami da parte di avvocati che in Parlamento hanno condiviso e fatte proprie tutte le accelerazioni, oltrech i contenuti, di quella legge, non piacciono a molti avvocati corretti e onesti; i quali, però, a fronte del silenzio degli Ordini e del disinteresse di molti colleghi, non riescono (talora addirittura non osano) a far sentire la propria voce. E’ su questi terreni che bisogna trovare momenti di elaborazione, di concordia di intenti e di confronti, anche ai fini di una informazione, che può essere tanto pi estesa quanto pi riesca a travalicare i confini dei sistemi tradizionali.
Quanto alla cultura giuridica, bisogna riconoscere che essa è stata ed è tutt’altro che inerte. Voci autorevolissime, da Crespi a Pedrazzi, Marinucci, Chiarloni, Pulitanò, Ferrua, Orlandi, Dogliani, Alessandri e tanti altri con i quali mi scuso per la omissione, si sono levate non solo attraverso appelli di grande respiro e che hanno raccolto adesioni altrettanto autorevoli, ma anche attraverso scritti significativi su Riviste giuridiche di ottimo livello, su temi come le rogatorie, il falso in bilancio, la riforma del diritto penale societario, la riforma dei reati fallimentari, e così via.
Ma anche in questo caso è ben difficile parlare della “cultura giuridica” nel suo complesso. Ci sono riviste qualificate che hanno ospitato ed ospitano saggi di grande rilievo scientifico, anche di natura molto critica con le leggi già approvate o con quelle in corso di gestazione, ma ce ne sono altre che sembrano ignorare i problemi e considerarli estranei alla propria mission, quasi che il de jure condendo appartenga ad una categoria inferiore. Lo stesso associazionismo scientifico dei vari settori è per di pi assente dal dibattito culturale e politico sui grandi temi che la situazione ci viene prospettando. Anche a prescindere da quei settori che si sono rapidamente allineati, è noto che in altri vi sono stati forti scontri anche di fronte alla prospettiva di prese di posizione, neppure troppo drastiche, in difesa della legalità e dei principi costituzionali.
Considero molto positivo il fatto che l’Associazione fra gli studiosi del processo penale abbia di recente rinnovato le proprie cariche sulla base di una crescente sensibilità attorno alla possibilità di contribuire al superamento del difficile momento che attraversano i rapporti tra politica della giustizia, “diritto vivente” e cultura giuridica (sono parole del nuovo presidente Mario Chiavario) e soprattutto attorno all’obiettivo di realizzare una sintesi positiva tra diverse componenti e diverse istanze. In questo modo, nel pluralismo, ma sulla base del riconoscimento di una identità comune, l’Associazione si è dichiarata disponibile a porsi come interlocutore nel dibattito in corso sull’assetto legislativo e organizzativo del nostro processo. Si tratta di un esempio che mi auguro possa essere imitato da altre associazioni analoghe, e di una occasione che non deve andare perduta, se si riesce ad avere ben chiara l’utilità di un confronto serrato anche con posizioni diverse e di una elaborazione comune e di approfondimento su temi che possono essere condivisi, al fine di poter costruire non solo critiche ma anche proposte concrete e credibili. Insomma, la strada che indico è importante e soprattutto - pur nella sua evidente difficoltà - possibile. Bisogna batterla con coerenza e fino in fondo, con umiltà, senza arroganze o presunzioni, ma con la consapevolezza necessaria della posta in gioco. Sotto questo profilo, le proposte elaborate al termine del nono paragrafo della relazione Castelli mi sembrano intelligenti, utili e pienamente da condividere, compresa quella di aprire le pagine di “Questione giustizia” anche a voci diverse e discordanti, anche a confronti serrati su temi specifici. L’esperienza ci dirà come realizzare questi obiettivi, con l’avvocatura e con la cultura giuridica. Ma la sperimentazione deve essere portata avanti con convinzione, fermezza e continuità e senza alcuna rassegnazione. E’ stato di recente rilevato (Donini, in Riv. It. Proc. Pen.) che il legislatore tende ad ignorare la scienza accademica e a tenere in scarsa considerazione, se non addirittura a recepire con fastidio, gli interventi della magistratura (e spesso anche quelli degli avvocati, quando questi non possono avvalersi direttamente della funzione parlamentare o non coincidono strettamente con l’opinione della maggioranza): ma questa è, oltretutto, una manifestazione di chiusura e di provincialismo, contro la quale occorre reagire, prima di tutto sul terreno culturale.
Io credo che nessuno di noi abbia il diritto di chiedere ai magistrati, a Md, alla Anm, di presentarsi come l’unico interlocutore possibile con la maggioranza parlamentare, con gli organi di Governo e col potere legislativo: penso che competa a tutti di assumersi le proprie responsabilità, come è necessario in tempi difficili, e di realizzare uno sforzo unificante, che riesca a mobilitare tutte le energie disponibili, in difesa della legalità, dell’autonomia e indipendenza della magistratura, dei fondamentali principi costituzionali.