Corsi di formazione permanente
Rita Sanlorenzo *
È di sabato scorso la notizia che la procura di Torino ha concluso, in soli 79 giorni, la fase delle indagini per il rogo della Thyssenkrupp, chiedendo tra l'altro il rinvio a giudizio per omicidio volontario dell'amministratore delegato del gruppo. L'eccezionalità della vicenda, nei suoi risvolti così drammatici, trova riscontro anche nella velocità delle indagini: ad esse dovrà far seguito la fase del giudizio, nel prevedibile susseguirsi dei diversi gradi di merito e legittimità, per arrivare infine all'accertamento definitivo delle responsabilità individuali.
La gravità di ciò che è accaduto, i reati contestati, il numero delle vittime, il coinvolgimento di una multinazionale straniera e l'indubbia efficienza e professionalità di una procura tradizionalmente organizzata in modo da impiegare nelle indagini in materia di salute dei lavoratori un pool di sostituti, sono tutti elementi che con ogni probabilità garantiranno l'avanzare spedito del procedimento fino a quello che dovrebbe essere - e invece in genere non è - il suo esito normale, vale a dire la decisione definitiva. Ma un solo fatto, per quanto clamoroso, non cambia il quadro d'insieme. Da tempo denunciamo il grave stato di inefficienza del sistema giudiziario, e in particolare della giustizia penale: una crisi che, ancor più in materia di sicurezza sul lavoro, compromette spesso la possibilità per la giurisdizione non solo di reprimere i reati ma, prima ancora, di prevenirli. La perdita di funzionalità della macchina giudiziaria diventa così la scure cieca sotto la quale perde ogni possibilità di affermarsi il dovere primo del sistema: dare tutele e diritti soprattutto ai più deboli.
Facciamo di questa vicenda così drammatica - lo dobbiamo soprattutto alle vittime - l'occasione per discutere finalmente senza reticenze delle mancanze della giustizia in tema di sicurezza del lavoro. Con una premessa: sarebbe velleitario pensare a soluzioni miracolistiche, capaci da sole di risolvere una crisi di sistema che non è solo di questo settore.
Noi non crediamo a nuovi apparati giudiziari centralizzati, a procure nazionali con compiti di coordinamento dell'operato degli uffici sul territorio. I reati di questo tipo comportano indagini che si devono muovere verso fatti spesso episodici, frammentati e diversificati, che risentono delle varie realtà produttive ed economiche. È difficile immaginare uno spazio utile per una struttura sovraordinata che armonizzi attività che devono svolgersi nei confronti di fatti così diversi tra loro. Ma c'è di più. La giustizia penale non vive di sole indagini e deve recuperare la capacità di dare giudizi definitivi. La riforma della giustizia passa per un'idea semplice: il cittadino, in questo caso il lavoratore, ha diritto a ottenere risultati tangibili e certi in tempi ragionevoli, frutto dello sforzo univocamente orientato di tutti i soggetti chiamati a concorrervi. Non servono tanto, e solo, punte di eccellenza, non «super» uffici, ma il recupero di un impegno diffuso che guardi all'esito del processo, evitando dispersioni, spreco di risorse e ulteriore mortificazione per le parti offese.
Partono da questa convinzione le proposte di Magistratura democratica che prendono le mosse da un progetto di intervento sul terreno dell'organizzazione giudiziaria e della formazione professionale dei magistrati. Bisogna puntare alla costituzione obbligatoria di sezioni specializzate non solo nelle Procure della Repubblica, ma anche nei Tribunali e nelle Corti d'appello, con la previsione per tutti i magistrati addetti, giudicanti e requirenti, di percorsi di formazione permanente, comuni agli organismi di vigilanza e alle sezioni di polizia giudiziaria e capaci di aggiornamenti tempestivi in caso di innovazioni legislative. Il Consiglio superiore della magistratura, dopo una ricognizione delle varie realtà (alcune delle quali virtuose ma non sufficientemente conosciute e valorizzate, anche all'interno del giudiziario), deve curare la redazione e la diffusione a tutte le procure di protocolli d'indagine specifici, per i reati in materia di sicurezza sul lavoro. Occorre creare e consolidare una filiera omogenea per specializzazione professionale e sensibilità culturale, evitando la dispersione delle competenze. Sotto il profilo delle riforme legislative, la proposta di Md va nel senso della estensione dello schema processuale dell'art. 28 dello Statuto dei lavoratori a tutti i casi di violazioni della normativa di prevenzione che rappresentano un pericolo grave e attuale per l'incolumità fisica e la salute dei lavoratori e delle lavoratrici. Sotto il profilo amministrativo, infine, occorre lavorare alla costituzione presso gli enti locali territoriali di osservatori (composti da magistrati, rappresentanti delle parti collettive e responsabili degli organismi pubblici di vigilanza) sull'andamento della giustizia, a cui affidare il monitoraggio dei processi, a partire dal profilo statistico, capace di evidenziare le situazioni di pericolo e nocività.
Possiamo e dobbiamo pensare all'obiettivo della sicurezza sul lavoro come a un traguardo raggiungibile, ma nessuno dei soggetti destinati a presidiarlo sarà in grado di garantirne il raggiungimento continuando ad agire isolatamente, senza confronto e scambio, anche culturale, con gli altri. Ciò vale anche per i magistrati, che invece, spesso, tendono a curare il proprio isolato settore di intervento senza sentirsi responsabilizzati dell'esito complessivo dell'azione giudiziaria. La posta in gioco è davvero alta e merita un'inversione di rotta.
* segretario nazionale di Magistratura democratica