Sommario
Editoriale
Dopo il fallimento pratico della linea, a forte connotazione ideologica e discriminatoria, della tolleranza zero che ha ispirato la legge Bossi-Fini del 2002 e i suoi inasprimenti del 2004 l'Italia saprà voltare pagina, sarà in grado di darsi una nuova normativa sull'immigrazione capace di governare questo fatto umano senza negarlo, senza considerarlo ancora una volta solo una emergenza, qualcosa di provvisorio da lasciare nella condizione giuridica e fattuale della precarietà?
Una nuova politica del diritto sulla materia richiede memoria storica (anche di cosa significò per lo sviluppo economico e sociale dell'Italia un secolo di massiccia emigrazione all'estero conclusosi poco più di 30 anni fa), coraggio all'inizio di una legislatura, progetto per il futuro e un modello culturale su cui costruirlo.
Ma l'Italia non si è data finora un modello. Né quello assimilazionista francese basato sulla tradizione di forte identità repubblicana, cieco alle differenze culturali e etniche nello spazio pubblico, ma generoso sul piano della cittadinanza. Né quello britannico o olandese incentrato sul rispetto delle specifiche comunità religiose ed etniche, sul riconoscimento, specie a livello locale, di diritti collettivi, che completino quelli dell'individuo che fa parte del gruppo minoritario ed evitino l'assimilazione. Una società composta da comunità, scarsamente coesa nel suo insieme.
Alcuni ritengono che sia preferibile che l'Italia resti senza modello. Perché ciò favorisce, soprattutto in campo economico, flessibilità rispetto alla rigidità dei modelli. A maggior ragione ora che la rivolta delle banlieues parigine, gli atti di terrorismo in Inghilterra, gli omicidi Van Gogh e Fortuyn in Olanda hanno messo in crisi i modelli altrui. Le seconde generazioni di stranieri, magari nati nel paese di migrazione e ormai cresciuti, guardano indietro alla terra d'origine (come sempre è accaduto storicamente) e fanno paura.
Da noi l'immigrazione esiste da 25 anni. Un tempo più che sufficiente per considerarla un dato strutturale e non un fenomeno passeggero, ma anche giovane per affrontare la questione mentre i figli degli immigrati sono in massima parte nella scuola (pubblica) primaria o al più secondaria.
La scuola appunto, un terreno decisivo per l'integrazione, più facile nella relazione tra i giovani e potenzialmente favorita anche da una corretta applicazione della normativa sulla parità scolastica nel rapporto tra istruzione pubblica e privata. Per ora gli enti pubblici spesso si vantano di avere tanti figli di immigrati nelle nostre scuole, ma non sanno dire loro in che società vivranno.
Né sanno raccontarlo ai loro compagni italiani e alle loro famiglie, un po' disorientate.
La sfida è conciliare differenza ed eguaglianza. Non è più se riconoscere la prima, ma cosa riconoscere rispetto alla domanda che comincia a venire da alcuni gruppi di immigrati che nel loro insieme raggiungono ormai il 5% della popolazione e che i demografi ci dicono saranno decisivi nei prossimi 40 anni per limitare il netto deficit nel rapporto tra nascite e decessi, che farà dell'Italia (ma la regione Emilia Romagna, già nel 1995, aveva un record internazionale in proposito) una delle popolazioni più vecchie d'Europa.
I lavori di riforma in corso, a partire dalle note presentate in Senato dal Ministro dell'interno Amato, non erano partiti con il passo giusto rispetto all'ampiezza, ricchezza e importanza del momento: modifiche prudenti sugli ingressi; mancanza di meccanismi effettivi e permanenti di passaggio dalla condizione di soggiorno irregolare a quella regolare; ricorso diffuso all'espulsione come sanzione dell'irregolarità senza la dovuta proporzione, non tanto nelle forme esecutive, ma appunto nella tipologia della sanzione in relazione alla gravità della violazione giuridica commessa e al grado di inserimento sociale della persona interessata; apparente abbandono dell'obiettivo del "superamento" dei c.p.t. di cui al programma elettorale della maggioranza vincitrice delle recenti elezioni e loro ambiguo ridimensionamento.
Md, Asgi e altre associazioni sono immediatamente intervenute criticamente nella discussione pubblica in atto, contribuendo alla decisione del Governo di avviare un'ampia discussione ed un confronto, anche in sede locale, con tutte le istanze sociali. E' altresì prossima la presentazione del rapporto della Commissione De Mistura sulla situazione nei c.p.t. e sul loro ripensamento.
Dovremmo essere vicini alla formalizzazione di un disegno di legge governativo sulla materia. Vedremo, forse già nel prossimo numero della Rivista, dove tutto questo ci avrà portato. Ad esempio, è auspicabile che diventino comunicanti sotto un'unica giurisdizione - quella ordinaria, del giudice dei diritti - i mondi del soggiorno e delle espulsioni, che attualmente sembrano allontanarsi grazie ad una decisione della Cassazione a Sezioni unite, sui cui interviene criticamente N. Zorzella.
Speriamo, comunque, di allontanarci dal cattivo esempio che ci viene dalla Francia con la legge c.d. Sarkozy II, analizzata da N. Ferrè in questo numero della Rivista, nella quale si passa dal dominio dell'immigrazione per motivi familiari alla sua sostituzione con quella di tipo economico, il cui simbolo è la carta di soggiorno "competenze e talenti" nata per assicurare lo "splendore della Francia". Vogliamo qualcosa di meglio per i destinatari dei provvedimenti contro le discriminazioni, di cui scrive A. Baraldi, e per i protagonisti delle molte vicende giudiziarie, di vario segno, di cui trattano i molteplici lavori di commento (nelle sezioni asilo, lavoro, minori, soggiorno, penale) di questo ricchissimo numero della Rivista.