Lettera aperta agli organi di informazione sui fatti di Napoli


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del segretario nazionale Claudio Castelli

Da giorni le polemiche conseguenti alle misure cautelari emesse dal giudice
per le indagini preliminari di Napoli nei confronti di otto appartenenti alla
polizia di Stato occupano le prime pagine dei media.
I toni, davvero senza precedenti, di tali polemiche, la provenienza delle stesse
e i gesti che si sono ad esse accompagnati hanno già indotto l’Associazione
nazionale magistrati a segnalare al paese l’improprio e gravissimo condizionamento,
tale da alterare la corretta dinamica processuale, esercitato in tal modo sui
magistrati (quelli che stanno svolgendo le indagini e quelli che dovranno, in
un futuro pi o meno prossimo, pronunciarsi sul punto).
Il richiamo, preoccupato e pressante, del Capo dello Stato alla necessità di
ritrovare un rapporto di rispetto e di collaborazione tra le istituzioni attenuerà
– ce lo auguriamo – le asprezze pi evidenti. Ma ciò che è accaduto in questi
giorni ha aperto una ferita che difficilmente sarà rimossa. Il punto di partenza
ha dell’incredibile.
All’indomani del 17 marzo 2001 numerosi organi di stampa, cittadini di ogni
colore politico, organismi internazionali tradizionalmente prudenti hanno chiesto
al ministro dell’interno di far luce sulle reiterate segnalazioni di «maltrattamenti
nei confronti dei fermati, alcuni dei quali minorenni, nelle stazioni di polizia»,
specificando che «secondo quanto riferito, alcuni sono stati obbligati a stare
in ginocchio sul pavimento con la faccia al muro per molto tempo e sottoposti
deliberatamente a percosse, calci, schiaffi, insulti verbali spesso di natura
oscena e a sfondo sessuale» e che «molti fermati hanno subito perquisizioni
intime ed, in alcuni casi, la condotta degli agenti durante le perquisizioni
è parsa deliberatamente mirata ad umiliarli e degradarli» (così il segretario
internazionale di Amnesty International in un appello al ministro Bianco del
28 aprile 2001).
Nessuna conseguente iniziativa è stata assunta – a quanto è dato sapere - n
dal governo allora in carica n da quello attuale: e ciò pur in un contesto
costituzionale che proibisce «ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque
sottoposte a restrizioni di libertà» (art. 13 comma 4) e in un contesto internazionale
che parifica alla tortura i «trattamenti inumani o degradanti» nei confronti
di fermati o detenuti (Convenzione europea per la prevenzione della tiortura
e delle pene o trattamenti inumani o degradanti del 1987). Un anno dopo la Procura
di Napoli e il giudice per le indagini preliminari della stessa città, all’esito
di indagini complesse e difficili, hanno ravvisato l’esistenza di «gravi indizi»
in ordine all’effettiva sussistenza di tali maltrattamenti.
Questa era la notizia sconvolgente che avrebbe meritato l’attenzione e la riflessione
delle istituzioni e della società. O a nessuno interessa il fatto che dei cittadini
(dimostranti o meno) entrino in un commissariato incolumi e ne escano pestati
a sangue, umiliati, derisi? Dove sono finite la Costituzione, le convenzioni
internazionali, la civiltà giuridica e la civiltà tout court? I fatti, prima
ancora che le responsabilità individuali, vanno accertati, ma il solo dubbio
che essi (in tutto o in parte) siano davvero accaduti apre una frattura gravissima
nel rapporto tra istituzioni e società. Eppure di ciò il dibattito si è occupato
solo marginalmente. Oltre che sui fatti la magistratura napoletana ha ritenuto
di avere raccolto «gravi indizi» anche in punto responsabilità individuali e
ha disposto, per otto appartenenti alla polizia, gli arresti domiciliari. Il
seguito è noto: prima l’aggiramento, da parte della Questura, dei modi e dei
tempi disposti dalla magistratura per l’esecuzione delle misure cautelari, poi
il tentativo di appartenenti alle forze di polizia di impedire tale esecuzione
(le immagini televisive fanno giustizia di ogni tardiva minimizzazione...),
infine il pieno e rumoroso sostegno manifestato agli inquisiti da esponenti
di primo piano del Governo (da cui sono partiti violenti attacchi al provvedimento
giudiziario, con argomenti tendenti a configurare l’attività di polizia come
una sorta di «zona franca» sottratta al controllo di legalità). Il carattere
eversivo di tale sequenza deve preoccupare chiunque abbia a cuore i rapporti
tra istituzioni e lo stesso assetto democratico dello Stato. E ancora. Molti
hanno gridato allo scandalo e i sindacati di polizia sono insorti denunciando
atteggiamenti eccessivamente rigorosi nei confronti delle forze dell’ordine
e scientemente lassisti nei confronti degli autori di gravi reati. L’argomento
è tanto suggestivo quanto infondato e strumentale. Se sottovalutazioni e omissioni
ci sono state in altri settori di indagine vanno denunciate, precisate e punite.
Ma le regole valgono per tutti: per i pubblici funzionari pi che per ogni altro.

E' il prezzo da pagare per godere della fiducia della società ed è assai pi
utile per la credibilità e il prestigio delle forze di polizia chi ne persegue
gli (eventuali) abusi di chi cerca di coprirli e occultarli. C’è stata una norma
che ha previsto un regime speciale per la polizia: l’art. 16 del codice di procedura
penale del 1930 secondo cui «non si procede senza autorizzazione del Ministro
della Giustizia contro gli ufficiali od agenti di pubblica sicurezza o di polizia
giudiziaria o contro i militari in servizio di pubblica sicurezza, per fatti
compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione
fisica». Ma era il fascismo (e non a caso la norma è stata dichiarata illegittima
con una delle prime sentenze della Corte costituzionale). Infine. Anzich ragionare
sui fatti, molti hanno evocato complotti giudiziari, disegni politici realizzati
mediante l’azione penale, persecuzioni per motivi di parte; mentre altri hanno
ricercato le «appartenenze politiche» di giudici e pubblici ministeri o hanno
riportato le decisioni assunte nel procedimento a tessere dello scontro in atto,
sul tema dell’organizzazione dell’ufficio, nella Procura di Napoli.
Chi muove queste critiche proietta, evidentemente, la propria cultura e i propri
metodi, fondati sulla logica della pura utilità (che distingue solo tra «amico»
e «nemico») e sul rifiuto delle regole. Non sono i metodi e la cultura della
giurisdizione. Dimenticarlo, al di là delle utilità contingenti, uccide la democrazia.
Di questo ci saremmo aspettati che si discutesse a margine del processo di Napoli.
E poi certo, ma solo dopo, dell’opportunità delle misure, del tempo trascorso
dai fatti, delle esigenze cautelari... Temi, questi ultimi, certamente opinabili
(come sempre accade nelle vicende giudiziarie) ma, proprio per questo, da affrontare
in modo pacato e razionale e non agitando propagandisticamente «errori» (indimostrati)
dei magistrati e necessità di una loro punizione in nome del principio «chi
sbaglia paga» (evocato, per di pi, in modo strumentale: come se per i magistrati
non esistessero le ipotesi di responsabilità previste per tutti i cittadini
e le stesse non avessero trovato in questi anni ripetute e ben note applicazioni).

Il confronto mancato nell’immediatezza non può essere ulteriormente rinviato.
Noi, in ogni caso, continueremo a sollecitarlo con iniziative specifiche rivolte
alla società civile, alla politica, all’avvocatura e alle rappresentanze della
polizia che hanno a cuore i valori della democrazia e delle regole.
Milano, 2 maggio 2002.
Il segretario nazionale Claudio Castelli
 

02 05 2002
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