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L’assedio alla indipendenza dei giudici

  1. Il prof. Guarnieri ci ha appena detto che considera incomprensibile ogni opposizione in inea di principio alla “separazione delle carriere”, se non altro per la progressiva erosione che ne deriverebbe alla credibilità della magistratura. Ragguardevoli esponenti della Avvocatura (fra questi l’avv.to Randazzo, intervenuto poco fa) argomentano con forza in favore di tale separazione. Ci sono dunque opinioni autorevoli da tenere in conto, senza insofferenze o semplificazioni o rifiuti pregiudiziali. Una riflessione comune, alla ricerca della miglior soluzione, è certamente la via da praticare. Ma non possiamo dimenticare le parole di Bruti Liberati, secondo cui “non viviamo nel migliore dei mondi possibili”. Il nostro mondo, l’Italia, presenta alcune specificità concrete dalle quali non è consentito prescindere.
    Il nostro mondo è quello della mozione 5 dicembre 2001 del Senato. Una mozione parlamentare che censura un provvedimento giudiziario: mai successo prima nella storia della Repubblica. Una mozione contro cui centinaia di professori universitari (non magistrati “militanti”…) hanno sottoscritto un documento che parla di intimidazione, giudizio di merito su provvedimenti giurisdizionali ancora sottoposti agli ordinari mezzi di impugnazione, attentato alla libertà di valutazione dei giudici, conflitto di attribuzione fra poteri dello stato in ordine alle funzioni interpretative che necessariamente ineriscono all’esercizio della giurisdizione.
    Il nostro mondo è quello della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli anni di “Mani pulite”, destinata a mettere sul banco degli imputati i magistrati che hanno fatto il loro dovere, sol perch sgraditi a certi politici.
    Il nostro è il mondo in cui capita sempre pi spesso che quando un magistrato, ricorrendone i presupposti in fatto e in diritto, deve occuparsi di un politico che (in ipotesi d’accusa) ruba o intrallazza con la mafia, il problema – invece di essere il politico che ruba o collude – diventa il magistrato.
    Del quale si dice che fa politica sol perch ha dovuto occuparsi di un politico corrotto o amico dei mafiosi.
    Di qui (ed è tipico del nostro mondo) un sistematico rovesciamento della realtà, una serie di “bufale” ossessivamente ripetute, con un trapanamento dei cervelli capace di trasformare le fandonie in…verità. Un’intensa “black propaganda”, che intreccia in una spirale soffocante falsità, deformazioni e luoghi comuni: come partito dei giudici, toghe rosse, rivoluzione giudiziaria, teoremi investigativi, politicizzazione della magistratura e giacobinismo, fino all’abusatissimo giustizialismo.
    E’ nel nostro mondo che viene diffuso con protervia il perverso teorema secondo cui – quando si tratta di imputati eccellenti – assolvere è fare giustizia giusta, è dimostrare indipendenza dal PM;- mentre le condanne equivalgono a giustizia ingiusta, sono accanimento persecutorio appiattito sulle tesi dell’accusa.
    E’ nel nostro mondo che si fa un uso politico dell’azione disciplinare (rectius: del preannunzio di azione disciplinare mediante pubblici proclami televisivi).
  2. Ovunque (in Europa e oltre i confini dell’Europa) vi sono contrasti fra giustizia, politica, economia.
    L’Italia non fa eccezione, ma presenta (in aggiunta a quelle già viste) altre specificità che ne fanno un “unicum”. Soltanto noi abbiamo una corruzione “sistemica”, non debellata nonostante l’impegno della magistratura, alla quale anzi sono state tolti vari strumenti legislativi di contrasto;- mentre a livello politico-amministrativo nulla è stato fatto per arginare il fenomeno. Soltanto noi registriamo vaste collusioni della mafia con pezzi della politica, delle istituzioni e degli affari. Soltanto da noi i magistrati scomodi, quelli che si ostinano a voler applicare la legge in maniera eguale per tutti i cittadini (compresi quelli che possono e contano), sono aggrediti con brutale inciviltà. Soltanto da noi vi sono imputati “eccellenti” che pretendono di sottrarsi alla giustizia comune, nel momento stesso in cui la responsabilità politica e morale sono relegate nella soffitta dei ferri vecchi.
    Dunque, è assolutamente legittimo (è persino ovvio ribadirlo) sostenere in linea di principio qualunque tesi in tema di “separazione delle carriere”. Ma è necessario ragionare e decidere, alla fine, avendo ben presente la realtà di fatto che caratterizza la situazione del nostro Paese. In tale realtà, io credo che la “separazione delle carriere” non sarebbe altro che l’ultimo capitolo della strategia di mortificazione della magistratura ormai in atto da anni. Un modo perch il libero esercizio della giurisdizione sia “sterilizzato” quando sono in gioco gli interessi degli imputati “eccellenti”, gli interessi di coloro che impunità van cercando.
    Per poter indagare su mafia, corruzione ed eventuali deviazione di poteri pubblici ( mi riferisco, ad esempio, alle inchieste di Napoli e Genova su reparti delle forze di polizia, ovviamente senza prendere posizione alcuna sul merito dei fatti) occorre un PM indipendente. La “separazione delle carriere” chiude – quanto meno restringe pesantemente – gli spazi di indipendenza. Perch (a tacer d’altro) delle due l’una: o si formerà una casta ristretta di circa 2000 funzionari autonomi, senza controlli esterni, un vero e proprio “monstrum” di cui aver paura;- oppure il PM finirà alle dipendenze, cioè agli ordini, dell’esecutivo. E ciò in base ad oggettive logiche istituzionali, senza nessun processo alle intenzioni di questa o quella maggioranza politica contingente. Mentre per quanto concerne le obiezioni che solitamente si muovono all’attuale sistema, pi volte Nello Rossi ci ha dimostrato come un PM resti PM, un controllore resti controllore, un giudice resti giudice, anche se prendono un caffè insieme. Perch ruoli e figure professionali rimangono (operativamente sono) diversi. Il che non significa affatto disconoscere l’importanza dei problemi di incompatibilità n la necessità di prevedere rigorosi filtri per il passaggio da una funzione all’altra. Ma devono essere percorsi razionali, non punitivi, indirizzati verso un’effettiva distinzione delle funzioni, che non sia una separazione delle carriere mascherata.
  3. Apro una parentesi per affrontare un’obiezione che spesso si muove a chi respinge la “separazione delle carriere”. Giovanni Falcone, si dice, era per la separazione. Ammesso che sia proprio così, va detto che Falcone scriveva prima del ’92, prima di Tangentopoli, prima che il Presidente del Consiglio di allora cercasse di liquidare il “caso Chiesa” come la birichinata di un mariuolo (così mostrando quale indirizzo avrebbe impresso alle indagini se il PM fosse stato alle sue dipendenze…), prima delle campagne di aggressione contro i magistrati scomodi. Per cui, nessuno (meno che mai io) può dire che cosa Falcone scriverebbe oggi. Ma è un dato di fatto che in questi 10 anni le cose han subito una mutazione genetica. E allora, si citi pure Falcone, ma premettendo sempre che le sue sono parole di prima del ’92, quando tutto era diverso.
    In sostanza, essere per la separazione delle carriere equivale ad essere (nella specifica realtà italiana) contro l’indipendenza della magistratura, contro l’applicazione della legge in maniera almeno potenzialmente eguale per tutti. Indipendenza e uguaglianza che sono fondamentali per la tutela di quei diritti che sono iscritti nel titolo del nostro Congresso. Soprattutto oggi, in un contesto (sia internazionale sia interno) che rispetto alla tutela e alla pratica dei diritti privilegia nettamente i temi della sicurezza, intesa come ordine pubblico. Se si punta tutto, esclusivamente sui temi della sicurezza (al di là della loro effettiva rilevanza), se si dimenticano o si accantonano la tutela e la pratica concreta dei diritti, privilegiando le logiche esclusivamente repressive, si finisce dentro meccanismi ingiusti ed inefficaci. Col rischio di preparare ( nel momento stesso in cui si avviano azioni che vengono presentate come difesa della libertà e della sicurezza) poteri nuovi che costituiscono essi stessi una minaccia per quei valori. E’ questo il paradosso della nostra condizione. Un paradosso che non è catalogabile come di destra o di sinistra, ma ci riguarda tutti allo stesso modo. Un paradosso che postula (proprio per assicurare che i diritti siano tutelati invece che sacrificati alle esigenze di sicurezza) una magistratura specialmente indipendente, essendo oggi particolarmente delicato e complesso l’assolvimento di tale tutela.

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