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lettera dei giudici penali di Milano

Riportiamo una lettera ideata da alcuni giudici del Tribunale di Milano, destinata originariamente agli stessi giudici del Tribunale, e successivamente pubblicata dal Corriere della Sera sabato 12.1.2008, precisando che tale lettera non è e non è da considerare un'iniziativa del gruppo di Magistratura democratica di Milano nè dell'Associazione Nazionale Magistrati.
La lettera merita la pubblicazione per i temi che affronta e la chiarezza con cui si evidenzia il disagio dei giudici penali.

 

Lo stato d'animo del giudice penale.

"Ecco, ci siamo, ci sentite da lì, in questo sfondo infinito siamo le ombre impressioniste" (da "Italiani d'Argentina" di Ivano Fossati).

Fare il giudice penale all'ufficio del dibattimento del tribunale di Milano è ormai uno stato d'animo.

Il vero giudice, quello terzo che decide secondo le regole dell'imparzialità e del contraddittorio, è ormai ridotto a lavoratore socialmente inutile.

Qualche dato. Quest'anno ciascuno dei circa 70 giudici dell'ufficio del dibattimento penale ha deciso circa 200 processi monocratici, che fanno complessivamente quasi 14.000 processi.

Per un buon 30% si tratta di processi nei confronti di stranieri mai identificati, che 4-5 anni fa fornirono alla polizia un nome, ma che sono rimasti "fantasmi". Sono identificati con le impronte digitali e le nostre sentenze condannano o assolvono impronte digitali.

Per un altro 30% gli imputati sono identificati ma irreperibili. Si tratta per la gran parte stranieri clandestini. Sanno che nei loro confronti potrebbe essere iniziato un processo penale perché il poliziotto che ha accertato il reato glielo dovrebbe avere comunicato (talvolta qualcuno di noi si chiede, in quale lingua?), ma dopo l'identificazione scompaiono nelle ormai rare nebbie delle periferie milanesi.

Ma il senso di inutilità, da lavoratore socialmente inutile, si aggrava se si considera l'altro 40% dei processi, che, pur riguardando imputati identificati e avvisati della celebrazione di un processo nei loro confronti (raramente presenti), ha ad oggetto reati per i quali il destino è o la prescrizione o l'indulto in caso di condanna.

E questo si ripeterà nei prossimi 3-4 anni, quando tratteremo i processi per reati commessi fino al 2 maggio 2006.

Il giudice pronuncia sentenza di prescrizione, di assoluzione o di condanna. Dopo qualche giorno arriva la richiesta del difensore d'ufficio (ormai gli imputati non nominano difensori di fiducia per processi inutili) di liquidazione degli onorari a carico dello Stato, dopo qualche mese arriva la richiesta di applicazione dell'indulto. Nel caso in cui la richiesta di indulto provenga dal difensore d'ufficio di condannato irreperibile, dopo qualche giorno dal provvedimento arriva l'ulteriore richiesta di liquidazione dell'onorario a carico dello Stato.

Quindi, in un anno i fascicoli che ciascuno dei circa 80 giudici penali dell'ufficio del dibattimento tratta sono complessivamente 400 (200 sentenze, circa 100 richieste di liquidazione, circa 100 richieste di indulto).

Il costo complessivo che lo  Stato paga per questo sistema non siamo in grado di calcolarlo. Stipendi per magistrati e amministrativi, strutture, interpreti, difensori, notifiche. Tutto per sentenze il cui senso ci sfugge.

Poi c'è l'appello e i costi si raddoppiano.

Perché dobbiamo destinare risorse per questi processi?

Ci sentiamo come i lavoratori americani degli anni '30, quando la logica economica del New Deal creava lavoro solo per consentire di percepire lo stipendio da spendere per far ripartire l'economia depressa.

P.M., avvocati e giudici (oltre che amministrativi, interpreti, poliziotti) percepiscono (tutti dallo Stato) lo stipendio per rendere una giustizia penale del tutto inutile.

Certo, ci sono una decina di processi con le parti civili costituite in cui la risoluzione del conflitto è socialmente rilevante, ma rappresenta, appunto, meno del 10% della nostra attività.

L'unico servizio che provoca condanne e carcere è il turno delle direttissime. A Milano una trentina di arresti al giorno per reati bagatellari, commessi quasi esclusivamente da stranieri irregolari che determinano condanne a pene contenute (tra i 3 e i 12 mesi) tutte rigorosamente espiate.

Ma il girone dantesco delle direttissime meriterebbe un discorso a parte.

 

Lo stato d'animo non migliora se consideriamo l'attività prevalente di noi giudici del dibattimento penale, cioè la trattazione del reati di competenza collegiale, quelli più gravi ed espressione di elevata pericolosità sociale.

Ognuno degli 70 giudici del Tribunale di Milano è impegnato in udienze collegiali per 8/10 udienze al mese, circa 100 giorni l'anno, in media dalle 9 alle 17.

In quest'anno sono stati definitivi circa 750 processi, una media di 30 per ogni collegio.

Per molte di queste tipologie di reato gli effetti della prescrizione e dell'indulto sono altrettanto devastanti.

Bancarotte, corruzioni e in genere reati di criminalità economica o della pubblica amministrazione, truffe, ma anche tentati omicidi e reati di medio spaccio di droga commessi prima del 2 maggio 2006 sono diventati aree di impunità.

I processi, lunghi e costosi, anche in caso di ritenuta responsabilità degli imputati, non determinano l'applicazione della pena.

Dopo il maggio 2006 è cambiato l'atteggiamento degli imputati e dei loro difensori di fiducia rispetto al processo. Difensori che talvolta rinunciano al mandato o vengono revocati perché il loro assistito non si cura più di un processo che, male che vada, non determinerà l'espiazione della pena. Facce più rilassate degli imputati, che accolgono una condanna ad una pena rilevante con buona indifferenza, perché tanto la pena inflitta non porterà mai alla carcerazione (ad esempio bancarottieri condannati a 6 anni di carcere - ipotesi non frequente e giustificata solo dalla gravità del reato - che sanno che non sconteranno neanche un giorno).

Sia chiaro. Non vogliamo carcere per tutti, né siamo stati tutti contrari alle ragioni dell'indulto.

Ma un sistema repressivo che non reprime è una fabbrica che non produce, un ufficio che gira a vuoto e non rende un servizio.

Alcuni di noi si consolano pensando che comunque la funzione del processo penale è quella di accertare la verità processuale, di affermare con l'efficacia di una sentenza l'esistenza di un reato. Ma ci chiediamo se la funzione del processo debba risolvere nell'accertare la verità processuale del "bene o del male".

Dalla lettura delle statistiche sembrerebbe che il nostro sia un ufficio che funziona. Nonostante le carenze di organico dei magistrati e degli amministrativi, nonostante le limitazione alla trattazione delle udienze, nonostante le condizioni "preistoriche" in cui lavoriamo (computer del secolo scorso, stanze e aule d'udienza con temperature glaciali, indisponibilità del materiale di studio), i flussi dei processi trattati nel 2007 è in sostanziale pareggio.

Ma questo è il modo in cui lavoriamo.

 

Di fronte a questo "stato d'animo" non abbiamo pensato a soluzioni o ricette, ma ogni tanto ci viene qualche cattivo pensiero.

Perché dobbiamo celebrare i processi nei confronti degli imputati irreperibili?

Perché non pensare ad un sistema in cui l'imputato deve essere presente all'inizio del processo evitando così di giudicare "fantasmi"?

Perché, in mancanza di interventi legislativi, i nostri dirigenti non decidono di lasciare al destino della prescrizione i processi senza imputato per i quali sarà applicato l'indulto ?

Già succede in Corte d'Appello che i processi nei confronti di imputati irreperibili (per conto dei quali l'appello è stato proposto da avvocati d'ufficio pagati dallo Stato) non siano fissati, perché, secondo le sentenze della Corte Europea dei diritti dell'uomo le sentenze dei giudici italiani nei confronti di irreperibili sono contrarie al giusto processo, sono cioè ingiuste.

Perché dobbiamo destinare le risorse dell'amministrazione della giustizia alla definizione di processi "ingiusti" ?

Tutti noi dobbiamo fare "i salti mortali" per trattare e definire in tempi ragionevoli processi per vicende importanti, per le quali imputati e parti lese chiedono un celere e giusto accertamento dei fatti (infortuni sul lavoro, reati ambientali e dell'impresa, "grandi" e "piccole" violenze o aggressioni al patrimonio).

 

Abbiamo anche (e spesso) pensato che questo indulto sia sbagliato. Tra noi abbiamo idee diverse sull'indulto, ma certamente questo provvedimento ci è parso totalmente incongruo.

Perché non si è approvato un indulto ancora più "selettivo", che escludesse altri reati di particolare allarme sociale dalla sua operatività (ad esempio tutti i reati per i quali gli imputati non finiscono normalmente in carcere, ma nei quali la sanzione penale ha una funzione repressiva di altro tipo) ?

Perché l'indulto è stato esteso alle pene pecuniarie?

Ma soprattutto perché non si è accompagnato l'indulto all'amnistia ?

L'amnistia avrebbe impedito l'inutile attività processuale cui quest'anno (e i prossimi 3-4) siamo stati chiamati a svolgere con il senso di inutilità descritto.

Se invece quell'estate dello scorso anno si fosse accompagnato l'indulto all'amnistia (come sempre era accaduto nella storia repubblicana), entro il 2006 gli uffici di Procura e del Tribunale avrebbero praticamente azzerato le pendenze e si sarebbe cominciato a lavorare "in tempo reale", o meglio secondo tempi di definizione dei processi eguali agli standard europei che tutti invochiamo.

 

Qualche mese fa gli avvocati penalisti milanesi hanno addebitato ai magistrati, soprattutto ai P.M., il clima che si respira oggi nei corridoi del palazzo di giustizia di Milano, richiamandoci al dovere di trattare tutti i processi con la cura, lo scrupolo e l'impegno che a loro parere dedichiamo solo ai processi importanti. Quella lettera ci è sembrata semplicistica nell'analizzare le cause di questo "stato d'animo".

Perché un giudice o un P.M. dovrebbero appassionarsi nel lavorare a vuoto per produrre processi di scarsa o inesistente utilità?

Non si tratta di desiderio di notorietà.

Molti di noi non sono mai andati sui giornali e non ci tengono a farlo. Non chiediamo il nostro minuto di fama, vorremmo al contrario che nel dibattito pubblico sulle sorti della giustizia milanese si considerassero non solo i processi importanti, ma il funzionamento della macchina nel suo complesso, affrontando le cause delle disfunzioni. Abbiamo vissuto quest'anno come se fossimo alla guida di una macchina che camminava su un tapis roulant, decidendo processi "come se" fosse importante farlo, ma con lo stato d'animo di inutilità.

Capiamo che l'avvocatura penalista si sia battuta per termini più brevi di prescrizione e per l'indulto generalizzato (d'altronde gli avvocati perseguono l'interesse dei loro clienti), ma da giuristi avrebbero dovuto considerare che questo indulto senza amnistia avrebbe determinato indagini e processi inutili.

Se, come qualche esponente istituzionale ha proposto, è necessaria una condivisione delle vie d'uscita (e se non vogliamo che i prossimi anni le cose continuino così), l'approccio deve essere diverso.

Proviamo a pensare come ripartire a lavorare su processi che siano funzionali ai nostri ruoli. Accusare e difendere persone (non impronte digitali o fantasmi), giudicare ipotesi di reato, sanzionarle in caso di sussistenza, non perché ci sia più carcere, ma perché il processo e la pena realizzino le funzioni che la Costituzione assegna loro.
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