Pubblicato su Magistratura Democratica (http://old.magistraturademocratica.it/platform)

Editoriale

Sommario

Leggi e istituzioni
La città insicura e líimpossibile supplenza giudiziaria, di Livio Pepino ìGoverno dei giudiciî e democrazia, di Alessandro Pizzorusso La surrogazione nella maternità, di Paolo Zatti La locazione di fatto, di Roberto Preden Note su strumenti precontenziosi e arbitrato nelle controversie di lavoro,di Laura Curcio Operazioni belliche internazionali e militari italiani,di Sergio Dini

Obiettivo: Pena e sistema penale
La macchina ìingolfataî della giustizia penale, il processo e la pena, di Gaetano Insolera Diritto penale minimo: oltre lo slogan,di Vittorio Borraccetti Il sistema delle pene nella relazione della Commissione Grosso

Giudici e società
Spunti su efficienza e valori (a margine della riforma del giudice unico), di Luigi Marini ìWhat is this Baraldini case about?î. Il ritorno di Silvia Baraldini in Italia, di Roberta Barberini

Prassi e orientamenti
Trattamenti coatti per líaccertamento di abusi e maltrattamenti di bambini?,di Gustavo Sergio La sospensione temporanea dallíamministrazione dei beni per avevolazione di attività mafiose: uno strumento da rivedere, di Vincenzo Giglio

Osservatorio internazionale
Il progetto di convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato,di Gualtiero Michelini Brevi considerazioni su avvocati e giuria nel sistema giudiziario inglese, di Filippo Grisolia

Rubriche
Magistratura e dintorni (Livio Pepino) 1. Diritto e ipocrisia: allíindomani della guerra in Kosovo / 2. Diritto e uguaglianza: dove si parla di DellíUtri e di Craxi / 3. Cinese è brutto / 4. Quando è finita Tangentopoli? / 5. Il ìcaso Baraldiniî e gli infortuni del ministro Diliberto / 6. Ordine pubblico e somministrazione controllata di eroina / 7. Il Governo e le politiche della giustizia Giurisprudenza e documenti 1. Cosa resta della tutela della salute dopo il sipario sul ìcaso Di Bellaî? (Carlo Maria Verardi) Pretura Milano, 16 marzo 1999L. contro Asl Milanoest. Santosuosso 2. Collaboratori di giustizia e benefici penitenziari (Antonio Maruccia) Tribunale Sorv. Milano, 10 giugno 1999pres. Minaleest. Maccora 3. Il giudice ordinario e líimpiego pubblico contrattualizzato. Prime risposte dalla giurisprudenza (Fabrizio Amato e Bruno Varriale) I. Tribunale Padova, 18 febbraio 1999pres. Sacchettoest. Giacomelli ñ Comune Arquà Petrarca c. Mantovani II. Pretura Firenze, 25 marzo 1999est. DragoTesoro c. Provvedirato studi Firenze e Istituto G. Da Verrazzano di Greve in Chianti III. Pretura Livorno-Porto Ferraio, 8 marzo 1999est. PiratoBadaloni c. Provveditorato studi Livorno IV. Pretura Milano, 3 maggio 1999est. CurcioScarponi c. Azienda ospedaliera Ospedale Niguarda Cà Granda 4. Tutela del consumatore e poteri del giudice (Ilaria Pagni) Pretura Bologna, 4 gennaio 1999est. VerardiCesareo c. Finemiro spa 5. Magistratura democratica sui referendum in materia di lavoro e sullo Stato sociale

Editoriale

Entrambi i processi a carico del senatore Andreotti (a Perugia e a Palermo) si sono conclusi con sentenze di assoluzione. Non erano per le caratteristiche dell'imputato e delle imputazioni, per l'inevitabile intreccio tra vicenda giudiziaria e giudizio politico, per l'eco di stampa processi comuni. Avevano un carattere particolare, che si è esteso alle reazioni del giorno dopo.
Nel merito le sentenze hanno riguardato vicende processuali diverse e non omologabili: aspettiamo le motivazioni, ma sono fin d'ora chiare alla luce di quanto emerso nei dibattimenti la labilità della prova nel processo di Perugia (appeso al filo sottile e incerto di una dichiarazione de relato) e la complessità del quadro probatorio in quello di Palermo (costruito non - come erroneamente si dice - solo su dichiarazioni di pentiti, ma su una pluralità di elementi classici, testimoniali e documentali). Di ciò v'è traccia nei dispositivi: secco e con trasmissione degli atti al pm per una possibile ipotesi di calunnia quello di Perugia; preceduto dal richiamo dell'art. 530 comma 2 cpp (segnale univoco, nella prassi, dell'esistenza di una prova, pur ritenuta insufficiente o contraddittoria) e senza segnalazioni di sorta ai titolari dell'azione penale quello di Palermo. L'accoppiamento temporale dei dibattimenti non ha giovato né alla comprensione dei fatti né alle conseguenti analisi. Anche per questo è importante, ora, essere espliciti nelle valutazioni. Il dibattimento di Perugia è stato una forzatura che avrebbe potuto e dovuto essere evitata: dal pm (se non altro in applicazione, all'esito delle indagini, del principio generale posto dall'art. 125 disp. att. cpp) e comunque dal gup, in forza del potere attribuitogli dall'art. 425 cpp; il processo di Palermo era, invece, un atto dovuto: non solo nelle indagini per la verifica delle prime dichiarazioni accusatorie, ma altresi nel rinvio a giudizio e nella verifica dibattimentale. Da qui occorre partire per ogni ulteriore analisi ché, in un sistema processuale rigido come il nostro, la legittimazione dei magistrati (pubblici ministeri e giudici) è data dal rigoroso rispetto delle regole e da ciò soltanto, non dal risultato. Questo è il garantismo; il resto è, a seconda dei casi, corporativismo o strumentalizzazione.

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I giudici di Palermo hanno dato la loro lettura degli atti e non c'è motivo di metterla in dubbio. C'è ora un punto fermo (in attesa, se ci sarà, del giudizio di appello): il sen. Andreotti non è stato partecipe di una associazione mafiosa. Questo e non è certo poco ha deciso il tribunale.
Definita la questione giudiziaria, c'era da attendersi che il confronto politico proseguisse sui fatti emersi nel dibattimento (non pochi e non di secondaria importanza). E' quanto accade, di regola, dopo i processi di un qualche rilievo: è successo persino in occasione delle recenti persecuzioni giudiziarie quelle si, davvero tali nei confronti del presidente in carica degli Stati Uniti. Nulla di tutto questo, invece, si è verificato in questa occasione. Non si è discusso (non si discute) - salvo poche eccezioni - del processo, ma dei pubblici ministeri che lo hanno istruito, anzi dei pubblici ministeri come categoria e di chi, in questi anni, li ha nell'immaginario collettivo rappresentati in terra di mafia, Gian Carlo Caselli. La cosa è insolita ma nient"affatto strana: non siamo di fronte alla legittima soddisfazione del sen. Andreotti e del suo entourage ma ad un segnale politico univoco. L'occasione era attesa da tempo e la posta in gioco non era (non è) la ripresa di protagonismo della politica ma la rivincita di chi mal tollera l'effettiva eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge ed il controllo di legalità. Sono bastati pochi giorni per renderlo evidente: la sentenza Andreotti è stata salutata come l'assoluzione della Democrazia cristiana e la fine della rivoluzione giudiziaria che ha consegnato il Paese alla sinistra; si è aperta la ricerca di presunti suggeritori e ispiratori di indagini e processi, in una sorta di caccia alle streghe di stampo maccartista; la riabilitazione di fatto dell'on. Craxi (propiziata dalla precarietà delle sue condizioni di salute) è diventata oggetto di consultazioni politiche, estese anche al presidente del Consiglio ed avallate dal procuratore della Repubblica di Milano; e c'è chi si è spinto a dire che Gladio e la P2 erano innocue brigate di allegri compari e che il DC9 di Ustica è precipitato per una avaria Non basteranno le sentenze di condanna passate in giudicato (non diverse, quanto a dovere di rispetto, da quelle assolutorie) a salvarci dall'affermazione che mafia e corruzione non esistono, che le stragi e i delitti avvenuti in Sicilia e nell'intero paese sono stati opera di pochi professionisti del crimine o di terroristi isolati, che le tangenti sono il giusto compenso per attività di intermediazione.
Ad essere in gioco - come è facile comprendere - non è solo il linciaggio di un magistrato e di un ufficio giudiziario (cosa, peraltro, di un qualche rilievo) ma le regole della nostra democrazia.

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In questo contesto il Polo delle libertà e l'on. Berlusconi non esitano a ricorrere al falso storico evocando complotti di Magistratura democratica per abbattere lo Stato borghese (sic!). Il falso si commenta da sé, ma non è inutile contrapporvi una lettura non tendenziosa di quanto, a partire dai primi anni "90, è accaduto in Italia nel rapporto tra magistratura e sistema politico.
E' improprio, infatti, continuare a parlare di rivoluzione giudiziaria. Ciò che è accaduto è semplicemente - pur se, a volte, le cose semplici hanno effetti dirompenti - una (parziale) estensione del governo delle regole a tradizionali zone franche. Il salto è stato possibile, oltre che per ragioni esterne, per l'incrinarsi dell'omogeneità (consapevole o inconsapevole) tra molta parte della magistratura e sistema politico: di quella omogeneità che aveva prodotto omissioni, insabbiamenti, avocazioni, competenze sottratte, connessioni ardite e molti altri artifici, pur di non turbare gli assetti di potere esistenti. Tale rottura - lo andiamo dicendo da tempo - non è avvenuta per caso, ma a seguito di un conflitto duro e tuttora aperto nella magistratura tra chi ha (quantomeno) burocraticamente accettato lo status quo e chi ha tenuto aperta la prospettiva della indipendenza reale della giurisdizione e delle uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. E' questa la vicenda storica che sta dietro ai processi eccellenti degli ultimi anni; non presunte appartenenze politiche dei magistrati che ne sono stati protagonisti. Nella complessa ed eterogenea attività processuale che ne è conseguita non sono mancati (non mancano), talora, profili patologici: ma essi stanno nelle modalità dell'intervento giudiziario assai più che nella sua estensione. Questa rivista lo ha segnalato ripetutamente: nel caso Tortora (capostipite di disinvolte prassi sostanzialiste), nel processo per l'omicidio di Marta Russo (esempio scolastico dell'adozione di metodi polizieschi da parte di magistrati del pubblico ministero), in Tangentopoli (la cui stagione non è andata esente da talune forzature inquisitorie, esemplificate dalle ripetute carcerazioni di Ligresti, dalla rincorsa negli arresti tra Milano e Roma, da alcuni eccessi emulativi a Genova o a Reggio Calabria: vds, Legalità e diritti di cittadinanza nella democrazia maggioritaria, relazione introduttiva al congresso di Md di Chianciano dell'ottobre-novembre 1993, n. 2/1993, 242 ss.), in quotidiani esempi minori indicativi del permanere di una giustizia forte (talora sino all'accanimento) con i deboli e debole con i forti. La storia non consente semplificazioni e impone una conclusione: ciò di cui oggi c'è bisogno non sono magistrati normalizzati (o autonormalizzati), ma magistrati rispettosi delle garanzie e indotti a questo rigoroso costume da una solida cultura deontologica, da un attento controllo dell'opinione pubblica, da tempestivi interventi di un autogoverno autorevole.

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I processi al sen. Andreotti e il loro esito hanno impresso una brusca accelerazione anche ai progetti di modifiche costituzionali e ordinamentali da anni sul tappeto e in parte riproposti con i referendum radicali (obbligatorietà dell'azione penale, separazione delle carriere di giudice e pubblico ministero, responsabilità dei magistrati). Spesso, peraltro, i fatti sono stati invocati in modo incongruo e ciò rende opportuni alcuni rilievi. Primo. La presunta regola dell'appiattimento dei giudici sui pm ha trovato, questa volta, una secca smentita: resta inalterata, per ragioni di sostanza e di immagine, la necessità di differenziare i percorsi professionali delle due categorie, ma la proposta di separare le carriere perde (o, comunque, vede indebolito) il suo presupposto più suggestivo. Secondo. L'assoluzione dell'imputato è uno degli esiti fisiologici del processo ovunque, anche negli ordinamenti ad azione penale discrezionale, come dimostrano - negli Stati Uniti - i casi di O.J. Simpson e di W. Kennedy: guai se cosi non fosse (ed attenzione a toccare, adombrando responsabilità dei pm in caso di assoluzione, i delicati equilibri che lo rendono possibile)! Terzo. Le sentenze (tutte le sentenze) accolgono o respingono l'impostazione accusatoria del caso concreto, non la politica delle procure: perché non è loro compito e soprattutto perché, in una organizzazione diffusa come quella giudiziaria, una politica delle procure, intesa come indirizzo unitario e coerente, non esiste; non sarebbe buona cosa, anche per le ricadute sull'indipendenza dei giudici, modificare la situazione. Quarto. La Russia e il Giappone odierni ci insegnano - per usare le parole dello storico inglese P. Ginsborg, La verità di Palermo. La distrazione di Andreotti, La Repubblica, 30 ottobre 1999 - cosa accade a una democrazia quando i legami fra mafia e politici si rafforzano. Sarebbe triste se l'Italia, o una qualsiasi delle sue forze politiche, utilizzasse la sentenza di Palermo per indebolire i magistrati che combattono la mafia, privandoli della loro autonomia, per ricacciare l'Italia nella retroguardia della lotta contro il crimine organizzato...

30 ottobre 1999

(l.p.)


Indirizzo:
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